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DAL PREGIUDIZIO ALLA CITTADINANZA: ITINERARI VERSO LA RESIDENZIALITA’

M. Iliescu*, L. Pesce**, P. Ambrosi***, M. Loconte****

*medico specializzando in formazione, Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Università degli Studi di Pavia

**psicologa, Comunità Terapeutica "La Redancia 2", Mioglia (SV)

***ricercatore confermato, Università degli Studi di Pavia

****psicologa, borsista di ricerca della Sezione di Psichiatria, Università degli Studi di Pavia

"La vita vissuta dell’uomo ha la struttura della via, cioè il suo ‘qui-ora’ si costituisce sempre mediante un ‘da-dove’ e un ‘verso-dove" (Callieri, 1996). La percorribilità di una via si attua nel confluire di dimensioni spaziali e temporali.

Lo spazio geometrico è sconfinato; dentro la sua illimitatezza è necessario isolare una frangia spaziale relazionale nella quale ciascuno di noi, al di là di ogni categoria che distingua "sanità" e "malattia", possa sentirsi al sicuro e possa resistere alla pressione degli spazi matematici, non gestibili. Lo spazio vissuto non è lo spazio geometrico; nello spazio vissuto si viene configurando la categoria antropologica dell’abitare.

Il tempo, come lo spazio, non è una dimensione oggettiva che sussiste di per sé. La costituzione della temporalità comporta che in ogni attimo presente venga anticipato un futuro come ripresa del proprio passato. Il configurarsi di una esperienza affettiva nella temporalità dà senso all’esperienza del tempo.

La costruzione dell’abitare terapeutico parte dalla dimensione architettonica concreta del luogo, passa attraverso la costruzione di una rete relazionale differenziata e si conclude con il recupero di una continuità temporale della vita vissuta, la creazione o il ripristino di una memoria storica ed affettiva.

Husserl ( ) afferma che il mondo reale esiste solo nella presunzione prescritta che l’esperienza continui costantemente nel medesimo stile costitutivo.

Riportiamo il percorso comunitario di un paziente la cui storia di vita si costruisce continuativamente sul non desiderio, il non bisogno di appartenenza, di residenzialità.

Bruno approda a Redancia 2, comunità residenziale terapeutica sita in un paesino dell’entroterra savonese, proveniente da un reparto psichiatrico della sua città. Orfano di madre, è stato abbandonato dal padre in un istituto all’età di 2 anni. Gli altri fratelli sono stati adottati da diversi parenti, egli invece deve aspettare un paio di anni finché uno zio, commosso dal fatto che nessuno vuole in quanto un bambino brutto, di salute cagionevole, lo prende a casa sua. All’età di 36 anni, Bruno è un vagabondo che gira il paese portandosi dietro una guida d’Italia ai luoghi ove avvengono incontri sessuali trasgressivi. Assume anfetamine e sostanze anfetamino-simili da circa 17 anni; è HIV positivo; oscilla perennemente tra vissuti megalomanici di onnipotenza e discendenza illustre, di capacità soprannaturali che gli permettono di vivere senza avere bisogno di dormire, di mangiare, e vissuti depressivi, di solitudine, fallimento e morte che lo portano spesso a tornare a casa dello zio o a ricoveri volontari nel reparto psichiatrico.

Bruno vive dentro uno spazio particolare, descritto da dimensioni specifiche. Le mete dei suoi spostamenti sono dei non luoghi: segmenti spaziali definibili all’interno della dimensione relazionale della precarietà, della trasgressività, della non legalità. Altri non luoghi sono i reparti psichiatrici che Bruno usa come riparo per brevi periodi di tempo; appartengono alla categoria onirica dell’esistenza piuttosto che alla realtà, strutturati solo dallo sguardo di Bruno nel momento di crisi, sono quindi al di fuori di un continuum temporale. L’esistere entro spazi che si definiscono all’interno di un intersoggettività e una temporalità vacillante corrisponde al tentativo di sfuggire la realtà dei bisogni iscritta in una continuità dell’esperienza.

Il progetto terapeutico-riabilitativo comunitario ha come punto focale la costruzione della residenza emotiva, quadro di riferimento stabile dal punto di vista materiale, concettuale ed immaginario. All’interno di questo quadro si verifica un compito impossibile: testimoniare della realtà presso chi la rifiuta, dare la possibilità al paziente di accettare la propria fragilità e lo scorrere del tempo verso la morte.

Bruno ci ribalta inizialmente la direzione dello sguardo, valutandoci come guardiani di una realtà intollerabile ed a lui estranea. Egli è un apolide, cittadino di nessun paese e in quanto tale non sottomesso a delle dimensioni localmente condivise. L’itinerario terapeutico si costruisce così ab initio con delle oscillazioni sismiche tra un mondo ove il paziente si pone come intoccabile rispetto alle dimensioni comuni di spazio-tempo, inizio-fine, e un mondo segnato dai ritmi quotidiani di una casa e vissuto come paesaggio portatore di sofferenza.

Ci appelliamo alla razio del nostro operare, ai nostri riti e i nostri miti che ci devono condurre verso l’espressione del simbolo e la verifica della sua efficacia.

Partiamo quindi da un approccio prettamente medico di presa in carico della sua malattia immunitaria, pretesto che serve a Bruno per accettare un progetto comunitario della durata di 6 mesi. Su questo percorso emergono angosce di morte che culminano con passaggi all’atto: accessi di rabbia, fughe alla ricerca di sostanze ecc. volti a verificare la nostra indistruttibilità, la nostra capacità di rimanere presenti.

Il tempo comincia ad essere scandito da incontri mensili con il reparto di infettivologia. I farmaci antivirali vengono assunti con regolarità: quotidianamente. Al ritorno dalle sue fughe Bruno porta con sé una mancanza — la non assunzione della terapia antivirale - che va a scalfire il suo vissuto onnipotente, mette in dubbio le sue convinzioni fantastiche di ‘autosufficienza’ ed eterna giovinezza.

L’impostazione di una cura fisica, intesa ed espressa come bisogno primario, vitale, offre a Bruno la possibilità di disporre di uno spazio contenitivo, accogliente ed emotivamente rassicurante. Potendo mettere da parte gli aspetti relazionali — portatori di ansia - della sua esperienza comunitaria e giustificare il suo ‘stare in un luogo’ come necessario e sintono alla concreta sopravvivenza Bruno chiede ad un certo punto del suo percorso, la prosecuzione della permanenza in Comunità di altri sei mesi.

Vengono così create le premesse per poter costruire, gradatamente, relazioni più intime basate sulla condivisione, così come comincia a verificarsi durante i colloqui terapeutici. Inizialmente si tratta di incontri brevi, durante i quali Bruno fatica a rimanere seduto per più di qualche minuto. I colloqui con i curanti vengono, farciti confusamente, di propositi onnipotenti, richieste impossibili; è Bruno che decide quando e come porvi un termine. In seguito si verifica un graduale instaurarsi di relazioni privilegiate ed ulteriormente differenziate con le figure di riferimento, che divengono esclusive e come tali oggetti da amare o distruggere. Ciò permette lo svolgersi della nostra funzione "paleontologica", di ricerca di oggetti scomparsi partendo dal presupposto dell’esistenza di una loro traccia indelebile. Bruno comincia a narrare esperienze passate e presenti, a cercare di arginare i vissuti di vuoto e noia attraverso una ri-elaborazione di dinamiche relazionali che gli permette di desiderare, di rappresentarsi un certo tipo di futuro. La scansione dell’esperienza vissuta viene così effettuandosi non più solo con l’assunzione di una sostanza, farmaco o droga che sia, come oggetto necessario, ma anche tramite il desiderio dell’esperienza con l’Altro, in quanto oggetto altrettanto necessario.

A questo punto si assiste paradossalmente ad un progressivo ritirarsi di Bruno da tutti i progetti basati sulla concreta utilizzazione del tempo e dello spazio comunitario: mansioni quotidiane, partecipazione a gruppi riabilitativi e di avviamento al lavoro, in cui si era inizialmente impegnato. Le sue rinunce precedono un fallimento vissuto come sicuro; egli valuta le potenzialità degli altri e quelle che erano le sue in un passato mitizzato, e si deprime nel riconoscere i segni lasciati dallo scorrere del tempo. Stare assieme agli altri, meta per la quale avevamo tanto lavorato, diventa di nuovo insostenibile. Lo spazio comunitario oramai è fisiognomizzato, gli sguardi degli altri hanno la capacità di penetrare, Bruno non riesce più a dissimulare, a mascherare la sua Presenza. Comincia a costruirsi un percorso alternativo e molto concreto: fa lunghe passeggiate nei campi e sulle coline circostanti la Comunità e porta nei colloqui la descrizione accurata delle sue camminate. Nello stesso tempo chiede il prolungamento del progetto residenziale di altri 6 mesi.

 

L’abitare una Comunità Terapeutica corrisponde al qui-ora di un percorso che spesso viene definito come tale dallo sguardo dell’operatore. Il "fare" in psichiatria però porta con se alcuni pre-giudizi, pre-supposti che influenzano non solo le pratiche quotidiane, ma lo stesso statuto che legittima il nostro operare. Tutto ciò scotomizza talvolta il senso e il valore attribuibili agli aspetti più personali e genuini insiti nell’esperienza della persona curata.

Nel caso di Bruno siamo arrivati in un determinato momento al palesarsi di questa frattura tra le aspettative degli operatori e l’esperienza concreta, diversa ma non per questo statica del paziente. Gli operatori portano nelle riunioni di équipe vissuti di impotenza e rabbia, delusione ed incapacità rispetto a un progetto in fase di stallo, valutando il progressivo ritirarsi di Bruno da ogni potenziale risorsa terapeutica come perdita di una dimensione futura. Di fronte all’abbandono dei progetti terapeutico-riabilitativi gli operatori infatti perdono di vista che il percorso di Bruno possa essere provvisto di una sua intrinseca coerenza ed evolutività. Attraverso una rinuncia ai consueti modelli di valutazione riusciamo finalmente a cogliere il significato della comunicazione del paziente.

Il tema della camminata quotidiana, portato ossessivamente nei colloqui - lenta o veloce, solitaria o in compagnia, breve o lunga - diventa il cardine non solo della sua percezione della giornata, ma anche della nostra riflessione.

Dallo spazio sconfinato, inabitabile, vuoto, degli itinerari zingareschi, l’adesione al nostro progetto terapeutico aveva portato inizialmente Bruno in una dimensione da lui vissuta come coartata, uno spazio che si chiudeva su di lui dall’esterno serrandolo, lo spazio dell’allettato, del paralitico. La transizione verso l’appropriarsi di uno spazio autentico, suo,

che rappresenterebbe un suo progettarsi nel mondo, è stata fatta dal paziente attraverso la conquista di segmenti spaziali misurabili: arrivare in paese, arrivare all’area pic-nic, e così via. Il mantenimento da parte dei curanti di una funzione mediatrice, che altro non è se non un ascolto modulato delle parole e dei silenzi del paziente, a scapito della funzione cosiddetta "riabilitativa" centrata sul "fare", permette a Bruno di sperimentare la creazione di uno spazio prossimo ma non incombente. Uno spazio popolato di minacce, proibizioni, appetizioni, ma all’interno di una situazione circoscritta e rassicurante. Uno spazio dove diventa tollerabile che "le cose accadano". Comprendiamo come la deambulazione possa essere un vissuto cinestetico che si costituisce nelle modalità del vissuto spaziale, sia cinetico che visivo. Lo spazio vicino si anima di volti, voci, gesti, intenzioni, incontri che Bruno gestisce terminando la passeggiata e tornando indietro, o fermandosi a chiaccherare, o facendosi compagni di viaggio.

Il tempo della camminata definisce lo spazio, traccia percorsi tesi a misurare la possibilità di approdare a mete progressive; il confrontarsi con limitazioni concrete rispetto ad un uso caotico e difensivo delle categorie spazio-temporali introduce Bruno al concetto della fine. Il ri-percorrere un tragitto viene descritto come un’esperienza sempre diversa, che vede cambiare i colori del campo, i macchinari agricoli e i contadini, insomma: lo scorrere delle stagioni.

Il resoconto delle sue passeggiate diventa una modalità comunicativa, una matrice narrativa, che definisce la relazione terapeutica. L’uso della metafora gli permette di confrontarsi con l’esperienza del mondo entro le dimensioni antropologiche della malattia, della sofferenza, della morte. Al contempo l’acquisire la consapevolezza dei confini del mondo, consente paradossalmente di coglierne gli aspetti vitali e quindi di volerlo abitare.

"Le manifestazioni psicopatologiche rappresentano[…]un insieme provvisto di una sua intrinseca coerenza, ma in un livello e in un luogo che non ci appare per definizione il nostro. L’attrezzatura e la collocazione dell’osservatore entro lo spazio culturale hanno una parte non irrilevante su ciò che viene o può venire osservato"(Petrella, 1993).

Come operatori comunitari dobbiamo passare dall’essere i portatori dell’esigenza di consensualità, al riconoscere al paziente il diritto ad una non consensualità. Questo significa lavorare non tanto per l’acquisizione di una residenzialità, quanto di una cittadinanza: memoria di residenzialità, esperienza del desiderio di appartenenza.

BIBLIOGRAFIA

CALLIERI B.(1996): Psicopatologia fenomenologica dello "spazio vissuto" in "Esistenza. I vissuti: ‘tempo’ e ‘spazio’" (a cura di A. Dentone), Bastogi, Foggia

CARGNELLO D.(1966): Alterità e alienità. Introduzione alla fenomenologia antropoanalitica, Feltrinelli, Milano

DE MARTIS D.(1984): Aspetti del controtransfert nella psicoterapia individuale dello schizofrenico in "Realtà e fantasma nella relazione terapeutica", Il Pensiero Scientifico, Roma

MINKOWSKI E.(1933): Il tempo vissuto, Einaudi, Torino, 1978

PETRELLA F.(1993): Le psicosi e gli eventi in "Turbamenti affettivi e alterazioni dell’esperienza", Raffaello Cortina, Milano

PETRELLA F.(1998): L’ascolto e l’ostacolo in "La forma segreta" (a cura di E. Morpurgo e V. Egidi), Angeli,Milano

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