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L’uso clinico degli antidepressivi noradrenergici

Aguglia E., Anzallo C., Ballatore A.

Istituto di Clinica Psichiatrica - Università di Trieste

 

GLI ANTIDEPRESSIVI NORADRENERGICI NON SELETTIVI

GLI INIBITORI SELETTIVI DELLA RICAPTAZIONE DELLA NORADRENALINA (NRI)

CONCLUSIONI

BIBLIOGRAFIA

 

Il disturbo depressivo presente, secondo gli ultimi dati dell’O.M.S. (1998) in 35 milioni di persone nella popolazione mondiale, è caratterizzato dal punto di vista clinico da quattro gruppi di sintomi: affettivi (tristezza, irritabilità e anedonia); psicomotori (rallentamento, mancanza di energia, ridotta espressività mimica oppure mimica vivace ma sofferente, agitazione); cognitivi (difficoltà di concentrazione e memoria, visione negativa di sè, desiderio di morire o idee suicidarie, deliri congrui o incongrui all’umore e possibili allucinazioni uditive e/o visive); neurovegetativi (insonnia o ipersonnia, inappetenza o iperfagia, riduzione della libido, disturbi somatici). L’approccio categoriale utilizzato dai sistemi classificativi dell’ICD-10 e del DSM-IV permette di distinguere diversi tipi di disturbi depressivi, basati sulla presenza di combinazioni diverse di sintomi che si presentano con una gradualità che va dal lieve al grave.

Lo studio dei neurotrasmettitori costituisce una modalità di approccio alla depressione che in qualche modo tenta di andare oltre le classificazioni. Non ignorandole, ma partendo da esse, si è messo in evidenza il ruolo che questi hanno nel determinismo del disturbo depressivo, nonchè l’azione dei farmaci sulla risoluzione o attenuazione di quei sintomi ad esso correlati, attraverso una modulazione neurorecettoriale. Le ipotesi che si sono sviluppate considerano i principali neurotrasmettitori: serotonina, dopamina e noradrenalina.

L’era della psicofarmacologia nella depressione inizia negli anni ‘60 con i triciclici e con gli inibitori delle monoaminossidasi; successivamente la ricerca si è orientata sui meccanismi di inibizione del reuptake della noradrenalina e serotonina che ha condotto, negli anni 60 e 70, alla individuazione delle depressioni "serotonino-specifica" e "noradrenalina-specifica", e quindi alla sintesi di molecole ad azione specifica di tipo inibitoria sul reuptake della NA (desimipramina, maprotilina, nortriptilina e reboxetina) e quindi della 5HT (imipramina clomipramina). I continui progressi nella ricerca psicofarmacologica hanno portato alla individuazione di molecole caratterizzate da un'attività selettiva sul sistema serotoninergico (SSRI) o con un duplice meccanismo d’azione selettivo: inibizione del reuptake della serotonina e della noradrenalina (SNRI: venlafaxina e milnacipran) o potenziamento dell’attività noradrenergica e serotoninergica (NaSSA: mirtazapina).

Gli antidepressivi noradrenergici non selettivi

All’interno di questa categoria ritroviamo antidepressivi triciclici e antidepressivi non triciclici. Fra i triciclici considereremo la desimipramina, la maprotilina e la nortriptilina; fra i non triciclici considereremo la venlafaxina, il milnacipran, la mianserina e la mirtazapina.

Gli antidepressivi triciclici sono farmaci comunemente impiegati nella terapia farmacologica della depressione, l’attività antidepressiva è legata all’azione su noradrenalina e serotonina. In alcuni AD triciclici (amitriptilina) l’effetto antidepressivo si accompagna ad un’attività sedativa ed ansiolitica, in altri (imipramina) ad un’azione prevalentemente psicostimolante. L’affinità per i recettori alfa-adrenergici, colinergici muscarinici e istaminergici rende ragione dei principali effetti collaterali degli AD triciclici (Tabella 1).

La desimipramina ha una buona attività di inibizione del reuptake della noradrenalina ma agisce, anche se più debolmente, sulla serotonina e sulla dopamina. E’ il principale metabolita dell’imipramina ed è stato uno dei farmaci più utilizzati a livello internazionale. Fra i triciclici la desimipramina, insieme alla nortriptilina, per la sua azione disinibente ha trovato indicazione nelle depressioni inibite, asteniche e con eccessivo ritiro sociale.

La maprotilina è un inibitore selettivo del reuptake della noradrenalina, ha anche attività adrenolitica, antiistaminica ed anticolinergica. La sua efficacia come antidepressivo è risultata minore o uguale agli altri antidepressivi classici. La maprotilina ha una spiccata attività sedativo-ansiolitica, questa sua proprietà ha fatto sì che venisse usata soprattutto in quelle depressioni associate ad una notevole componente ansiosa e ad agitazione psicomotoria o a sintomi di somatizzazione (depressione mascherata).

La nortriptilina ha azione sia sulla noradrenalina che sulla serotonina ed ha anche attività adrenolitica, antistaminica e anticolinergica; è utilizzata soprattutto per le depressioni medio-gravi dove è risultata superiore agli antidepressivi classici.

Gli antidepressivi non triciclici costituiscono un gruppo di classi di farmaci con strutture chimiche non omogenee che presentano un’attività neurochimica più selettiva e con profili di tollerabilità e farmacocinetici sostanzialmente differenti rispetto ai triciclici.

La venlafaxina agisce solo debolmente sul reuptake della noradrenalina mentre è più attivo sulla serotonina ed ha anche una debolissima azione sulla dopamina. E’ efficace nella fase acuta della depressione e la percentuale di recidive dopo un anno di follow-up oscilla dall’11 al 20 % (Shrivastava, 1994; Mendlewicz, 1995). Negli studi di confronto in doppio cieco con imipramina la venlafaxina ha dimostrato un miglior profilo sia dal punto di vista dell’efficacia clinica sia dell’incidenza degli effetti collaterali con una significatività elevata solo per la nausea e la xerostomia (Shrivastava et al, 1994; Schweizer et al, 1994).

Per il suo profilo serotoninergico questa molecola è stata utilizzata anche nei disturbi di attacchi di panico. A dosi molto basse (50-75 mg/die) ha dimostrato infatti di indurre una rapida remissione della sintomatologia acuta, ma anche delle componenti ansiose intercritiche e anticipatorie (Geracioti, 1995); nel disturbo ossessivo-compulsivo, in media dopo 3 settimane di trattamento, ha dato una risposta soddisfacente, distinguendosi dagli SSRI per i quali il periodo di latenza è stato superiore, tuttavia questi risultati sono stati ottenuti a dosi comprese tra i 225-300 mg/die (Rauch et al.,1996); in uno studio aperto della durata di 15 settimane condotto su dodici pazienti affetti da fobia sociale con o senza disturbo di evitamento di personalità sovrapposto e resistenti agli SSRI (Altamura e Mannu, 1998a), la venlafaxina ha dimostrato la sua efficacia ad un dosaggio medio di 170 mg/die, il miglioramento è stato rapido sia per la paura che per l’evitamento. E’ interessante notare come la tollerabilità alla venlafaxina sia stata sesso-dipendente, infatti le donne presentavano più frequentemente sintomi somatici come cefalea e anoressia, mentre gli uomini sintomi psichici quali ansia e tensione. Tutti questi sintomi sono stati di lieve intensità e durata.

La venlafaxina è inoltre dotata di un comportamento bimodale, infatti a dosi comprese tra i 75-150 mg/die può essere utilizzata nei quadri depressivi di lieve e moderata entità, mentre a dosaggi compresi tra i 150-225 mg/die assume una connotazione clinico- farmacologica completamente diversa sia per l’efficacia nelle depressioni di più severa entità sia per la rapidità di risposta nei trattamenti a lungo termine rispetto agli SSRI (Altamura e Mannu, 1998b).

Il milnacipran in acuto inibisce, in maniera equivalente, il reuptake della serotonina e della noradrenalina, non provocando down regulation dei recettori noradrenergici e serotoninergici dopo trattamento prolungato. Il milnacipran negli studi clinici controllati ha dimostrato un’efficacia equivalente agli ATC e agli SSRI. Interessante è anche l’evidenza che non presenta interazione con i farmaci metabolizzati dal citocromo P-450, indice questo di buona manegevolezza del farmaco. La valutazione del milnacipran versus l’imipramina ha dimostrato come questo farmaco abbia una migliore efficacia clinica ed una minore incidenza di effetti collaterali, soprattutto anticolinergici. Tignol J. et al. (1998), a tal proposito riportano in uno studio in doppio cieco con imipramina un’incidenza degli eventi avversi (ipotensione ortostatica, diarrea, tremori, insonnia, dolori addominali, nausea e xerostomia) maggiore e statisticamente significativa nel gruppo di pazienti trattati con imipramina.

La mianserina non inibisce la ricaptazione della noradrenalina, ma potenzia la trasmissione noradrenergica attraverso un blocco dei recettori presinaptici a 2-noradrenergici e blocca i recettori, serotoninergici di tipo 2.

La mianserina si è dimostrata una molecola che, per la sua azione sedativo-ansiolitico, risulta particolarmente indicata nei casi di depressione ansiosa del paziente anziano, nel quale spesso sono controindicati i triciclici a causa dei loro effetti sul sistema colinergico ed istaminergico. Infine la mianserina può essere utilizzata nei pazienti a rischio suicidario poichè il sovradosaggio non determina complicanze gravi come convulsioni, coma o aritmie cardiache, ma solo sonnolenza.

La mirtazapina è l’unico farmaco appartenente alla classe dei NaSSA, poichè agisce in maniera complessa sui sistemi noradrenergico e serotoninergico: blocca infatti gli autorecettori a 2 situati sulle terminazioni presinaptiche dei neuroni NAergici, con conseguente aumento del rilascio di NA nello spazio sinaptico. L’azione del farmaco sulla 5HT è mediata dalla NA attraverso il blocco degli eterocettori a 2 presinaptici. La sua efficacia è stata dimostrata soprattutto nei pazienti con depressione di grado elevato specie nella terza età. L’azione terapeutica della mirtazapina è stata valutata in uno studio di metanalisi (Kasper, 1995) condotto su pazienti depressi che presentavano inoltre sintomatologia ansiosa, notevole rallentamento dell’ideazione, del linguaggio e dell’azione o con agitazione; è così emersa una indicazione specifica del farmaco nelle depressioni con notevoli componente di ansia-somatizzazione, rallentamento e/o agitazione. Studi condotti per valutare la tollerabilità (Montgomery, 1995) hanno evidenziato che la mirtazapina riduce l’ideazione suicidaria in maniera statisticamente significativa rispetto al placebo e sovrapponibile all’amitriptilina; non influenza la pressione arteriosa sisto-diastolica, né la frequenza cardiaca; non induce alcuna modificazione clinicamente rilevante dei segni vitali e/o dell’ECG a dosaggi fino a 315 mg/die.


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