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Judith Butler, Vite precarie. Contro l’uso della violenza in risposta al lutto collettivo, pp. 192, Meltemi, Roma 2004, Euro 15.

Come si struttura un lutto collettivo tanto dirompente quanto quello subito l’11 settembre 2001? Quando e come esso può dirsi elaborato? Quale orizzonte politico apre la sua elaborazione? Questi gli interrogativi a cui Judith Butler risponde nel secondo dei cinque saggi che compongono la recente raccolta "Vite Precarie. Contro l’uso della violenza in risposta al lutto collettivo" (Meltemi 2004).

Teorica di primo piano nel vasto panorama dei gender and queer studies statunitensi, Judith Butler (1956), ebrea, insegna Retorica e Letterature comparate alla Berkeley University della California. Definirla una femminista postmoderna può essere corretto, ma riduttivo e vago. Tanto il femminismo quanto le riflessioni postmoderniste raccolgono al loro interno prospettive talmente variegate da risultare spesso inconciliabili: la stessa Butler si è dimostrata a più riprese scettica rispetto all’opera di Luce Irigaray, una delle più note ispiratrici del cosiddetto pensiero della differenza.

E’ più proficuo, allora, capire quali siano i nuclei tematici affrontati dalla filosofa americana, attorno ai quali cercherò di sviluppare qualche riflessione.

Negli ormai sette libri tradotti in italiano, attraverso assunzioni di matrice pragmatista viene analizzata la relazione dinamica tra i concetti di identità, sessualità, autorità e potere. Irraggiungibile sarebbe comunque un pensiero così eclettico senza il costante riferimento a Michel Foucault, ma anche al decostruzionismo che rende possibile un dialogo radicale con un ampio ventaglio di autori e paradigmi: da Aristotele a Lacan, da Kristeva a Freud a Lèvinas. Risultato dell’intera produzione della pensatrice è la critica al soggetto politico moderno.

Critica che ritroviamo anche nel capitolo Violenza, lutto, politica (un saggio scritto dopo l’immediata risposta militare statunitense alla tragedia dell’11 settembre). La prima parte dello studio intraprende un esame psicanalitico delle esperienze di aggressione e perdita. Per le potenze occidentali rifiutare questo lutto significa piombare in una melanconia patologica che culmina nel delirio di dominio. Posta in gioco è la formulazione di una proposta politica alternativa all’aggressione militare che venga fondata sulla vulnerabilità nella quale si radica la natura stessa dell’umano. E’ la ridefinizione della nozione di umano infatti ad essere qui in gioco: non si può sfuggire alla vulnerabilità senza cessare di essere umani.

Analitica della perdita

Ciascuno di noi è costituito dalla vulnerabilità del proprio corpo. L’apertura alla socialità verso cui il nostro essere soggetti desideranti ci direziona è contemporaneamente esposizione alla possibilità di subire violenza. L’umano è chiamato fin da principio al dovere del lutto: il nostro essere autentico è per la morte direbbe l’Heidegger di Sein und Zeit.

Quando questo lutto può dirsi elaborato? Butler prende in esame lo sviluppo che il concetto di elaborazione ha subito in Freud, da Lutto e Melanconia (1917) a L’Io e l’Es (1923). Il padre della psicanalisi avanza una prima teoria secondo la quale l’esperienza luttuosa può estinguersi una volta sostituito l’oggetto libidinale perduto. Spesso, tuttavia, il processo della sostituzione non viene portato a termine, o appare addirittura insufficiente: sembra mancare il bersaglio. Non piangiamo forse la scomparsa di qualcuno proprio quando capiamo che la perdita ci cambierà probabilmente per sempre? Più proficua è allora la seconda formulazione legata al processo di introiezione che forma l’identità personale.

Una comprensione precisa del legame tra elaborazione, identità e introiezione viene raggiunta solo alla fine dell’esposizione di questa prima parte. In via preliminare si può affermare che "il lutto ha a che fare con la disposizione a subire una trasformazione i cui effetti nessuno può conoscere in anticipo". La melanconia della perdita ci getta allora, in prima battuta, in uno stato di ignoranza. Freud identifica questa ignoranza con la difficoltà di rispondere alla domanda: cosa abbiamo perso in quella persona? L’enigma del lutto ci è ora di fronte: esso si sottrae alla dimensione della scelta così come l’assenza dolorosa che avvertiamo non cade sotto il dominio della nostra decisione. L’enigma rivela la nostra dipendenza dal rapporto con gli altri, rapporto che dà forma alla nostra persona: l’identità è il frutto del legame che differenzia due termini, mettendoli in relazione. Ciò che viene perduto non è un ente, ma questo legame aperto che partecipa della nostra costituzione. A questo punto non ha più senso l’espressione "avere delle relazioni" perché sono al contrario le relazioni a possederci come persone.

I guadagni finora ottenuti aprono le porte a una prima rielaborazione della semantica politica moderna. Ogni esperienza luttuosa ci mostra esattamente il fallimento di qualsiasi concezione che attribuisca al soggetto sociale autonomia e sovranità. Sempre sulla scia di queste considerazioni, si può individuare una interessante aporia politica. Quando parliamo di diritti, li intendiamo come relativi agli individui. Per molti movimenti politici come i gruppi femministi, i gruppi GLBT (gay, lesbian, bi, trans) o le associazioni in difesa delle minoranze razziali, è essenziale rivendicare l’autodeterminazione e l’integrità del proprio corpo; eppure necessario all’azione è l’abbandono della propria individualità per costituirsi in gruppi o classi, aderendo ai quali risultiamo vincolati da determinate caratteristiche condivise. La dialettica Io-Noi è il centro del problema. Nessuna delle due dimensioni può essere subordinata o risolta nell’altra, ma ognuna dà voce a due diverse aspirazioni normative. La prima è la protezione dell’autonomia del sé, l’altra riguarda invece ciò che dell’autonomia è condizione: la socialità originaria in cui i nostri corpi ci collocano, la quale implica mortalità, vulnerabilità, sentimenti come la passione e la rabbia, dipendenza dalle relazioni. Già alla nascita la nostra incarnazione dipende totalmente dalla cura asimmetrica dei genitori. Solo poi acquistiamo autonomia. Anche la semantica dei diritti è allora incompleta e necessita che la comunità sia pensata come il luogo in cui "siamo simili solo perché viviamo una stessa condizione separatamente". Un punto della situazione sul problema lo fa Diana Sartori in Dei diritti e dei rovesci. Una lettura della dichiarazione dei diritti 1789 (AA.VV., Diotima. Approfittare dell’assenza).

Tornando alla psicoanalisi, è adesso chiaro il nesso lutto-identità-introiezione. Il dolore ci porta a esperire uno stato di ex-stasis (essere fuori di me): una sensazione di spossessamento, generatrice di ignoranza e contemporaneamente motore della risposta. L’elaborazione del lutto comincia con il riconoscimento che la mia identità è legata al mio essere intrinsecamente sociale. Uno dei significati di introiezione è appunto il processo attraverso cui gli altri "non solo continuano a vivere all’interno del confine dal quale io sono delimitato, ma permeano in modo impercettibile il mio modo d’essere, quasi fosse continuamente destabilizzato e aperto alla possibilità di perdere ogni demarcazione". L’identità è il risultato del processo e non una garanzia. Esempio non utilizzato dall’autrice, comunque pertinente, è il mito di Edipo. L’eroe, pur avendo risolto l’enigma sull’Uomo, si inganna sulla sua identità di uomo. Per dirla con Hanna Arendt, "gli uomini e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo". Inizio del vero processo di individuazione è proprio il lutto derivato dalla scoperta del matricidio e del parricidio. A questo punto soltanto, Edipo si riconosce nella determinazione delle sue numerose relazioni ambivalenti. Il suo errore tragico risiede nell’affermare che "mai uno sarà uguale a molti" (v. 845): marito e figlio, padre e fratello. La molteplicità, al contrario, abita il labdacide e lo smentisce.

Una volta compresa radicalmente l’ineliminabile esperienza di vulnerabilità in cui la nostra natura si realizza, il passo successivo consiste nell’analizzare quale posto occupi la violenza nelle relazioni vissute e quali siano i modi di rispondere a un lutto tanto individuale quanto collettivo. Quella che si impone è una riflessione sulla situazione globale in atto.

Pragmatica del lutto

Il ragionamento fin qui condotto ci porta a negare che il dolore abbia una valenza solo privata, da vivere nella solitudine in cui ci getta. Esso dà anzi vita a un senso complesso di comunità politica, ancora di più se a subirlo è la maggiore potenza economica e militare del mondo.

Tanto il governo quanto buona parte della stampa statunitense hanno reagito all’attentato delle Torri Gemelle con l’invito ad allontanare il ricordo del dolore in nome della necessità di una reazione immediata: esempi sono l’esortazione a "bandire la melanconia" di William Safire (New York Times) e la dichiarazione "abbiamo smesso di piangere i nostri morti" pronunciata dal presidente Bush a dieci giorni dalla tragedia. Ma più che la melanconia in questo modo è stato bandito il lutto, il rifiuto del quale coincide appunto con la stessa melanconia. La corsa allo scontro militare preventivo non rappresenta altro che il tentativo patologico di restituire ciò che è ormai perduto, di riportare il mondo a un ideale ordine precedente. E’ un delirio di dominio la cui controparte diviene l’isteria razziale e l’istanza paranoica di controllo e di protezione da un nemico che potrebbe essere chiunque.

Ma qual è la dinamica di questa strategia? Quali lutti sono stati negati? E’ chiaro dalle numerose forme di commemorazione dell’evento che non tutte le morti sono state escluse dalla memoria. La risposta militare, come vedremo, è piuttosto giustificata da una non egualitaria distribuzione del lutto. Sono numerose le pratiche esclusive, prova della correttezza dell’analisi. Solo per citarne alcune possiamo pensare alle selezioni delle immagini nei notiziari, alla diversità di spazio che in essi ottengono i sequestri di occidentali da un lato e i detenuti senza nome di Guantanamo dall’altro, senza nome come i morti irakeni, afgani, palestinesi o di qualsiasi altro popolo a cui gli Stati Uniti hanno dichiarato o dichiareranno guerra.

Seguendo alla lettera le parole di Butler, il necrologio deve essere concepito come "uno strumento che regola la distribuzione pubblica del lutto. Esso è il mezzo attraverso cui una vita può o meno riuscire a diventare pubblicamente degna di lutto, un’icona dell’autoriconoscimento di una nazione". Tornando al mito, basti pensare ad Antigone per capire quanto il riconoscimento pubblico di lutto abbia a che fare con le leggi fondative di una nazione e con la sua identità. Le modalità di rifiuto del cordoglio orientano quindi le scelte politiche di uno Stato. In che modo? Se, come abbiamo detto, la vulnerabilità è la cifra primaria dell’umano, negare il lutto significa negare riconoscimento alla vulnerabilità, ma con la vulnerabilità negare di conseguenza anche lo statuto di umano alla persona che subisce l’esclusione. Il nemico viene disumanizzato e relegato alla condizione di spettro. La violenza su un’entità del genere può essere giustificata proprio perché non viene affatto riconosciuta: la violenza militare viene derealizzata. Negare realtà alle perdite è il nocciolo della patologia melanconica su cui si radica la possibilità di una guerra infinita al terrorismo.

Il ripensamento etico compiuto, precisa Butler, non si muove in direzione di un nuovo umanesimo, ma verso una ontologia dell’umano in cui sono le norme di esclusione/inclusione dalla realtà ad essere discusse. La disumanizzazione non è il prodotto di un discorso, ma è il suo margine rimosso. Obiettivo politico non è l’inclusione dei soggetti esclusi, ma il riconoscimento del loro statuto di limite alle nostre identità. Ciò significa abbandonare "l’insistenza sul soggetto quale precondizione dell’agire politico" poiché essa nasconde e mistifica le relazioni di dipendenza, tanto più fondamentali nell’ottica di una comunità politico-economica globale. In una prospettiva di responsabilità etica sarebbe un errore anche credere che rapporti di subalternità siano sottesi alla divisione tra primo, secondo e terzo mondo. Ogni distinzione di questo tipo è scartata dall’Altro che già abita i miei confini, confondendoli. L’Altro scompagina la mia identità partecipandovi, interrogandola senza che io possa rispondere da solo: "l’umano è ancora e sempre ciò che dobbiamo conoscere".

Elaborazione della svolta

La reazione agli attentati compiuti in Gran Bretagna dimostra che dall’11 settembre a oggi l’atteggiamento verso il dolore collettivo non è cambiato, cosi come non sono cambiate le direttive in materia di politica estera. Nei giorni successivi al 7 luglio su internet sono circolati migliaia di messaggi con il motto "we are not afraid", noi non abbiamo paura. Il gioco alla disumanizzazione si ripete immutato.

Il bando della paura rispecchia la dinamica sottesa al rifiuto melanconico del lutto. In termini puramente psicologici la paura è il sentimento che permette il riconoscimento di un pericolo. Non avere il senso del pericolo che stiamo correndo significa cadere ancora e di più nella megalomania e misconoscere l’oggettività del reale. Avere paura della paura poi coincide esattamente con la sensazione che prende durante le crisi di panico.

Nelle conferenze di Brema tenute nel 1949, al capitolo intitolato La Svolta, Martin Heidegger fa precedere, come sua condizione di possibilità, il Pericolo, "vale a dire l’essere stesso che si mette in pericolo nella verità della sua essenza". Il pericolo è necessario a svelare la verità del mondo, il pericolo permette la svolta. Ma, continua il filosofo, "il pericolo rimane nascosto e occultato. Questo occultamento è ciò che il pericolo ha di più pericoloso". Bisogna guardare in faccia la paura: ciò non significa eliminarla, ma conoscerla, fidarsi di essa e concederle ascolto. Un ascolto che generi come risposta una reale svolta politica.

FRANCESCO RAGAZZI

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