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Risposta di Pasquale Pisseri alla lettera aperta di Antonello Correale

Caro Bollorino,

l’intervento di Antonello Correale è davvero stimolante. Sullo stigma, croce della nostra prassi, dobbiamo chiederci in che misura è riducibile. Non può esser considerato alla stregua di un banale pregiudizio, ma una risposta ad angosce collettive e individuali molto profonde.

Se ho una malattia somatica, è pur sempre un mio organo ad essere malato, fosse pure importantissimo e necessario alla vita come il cuore o il fegato: sono miei strumenti, certo appartenenti al Sé ma a una sua area relativamente periferica, tant’é che possono essere sostituiti con un trapianto senza che la mia identità ne venga radicalmente stravolta. Ma nel disturbo mentale sono proprio io ad essere "guasto", a non andar bene, e ciò è pressoché intollerabile. Da qui l’estrema difficoltà nella capacità di identificazione, enunciata a suo tempo da Descartes: "se pensassi di essere matto, sarei più insensato dei matti stessi". Ciò, come fa notare Correale, non solo ci porta ad allontanare i sofferenti mentali dalla scena pubblica ma offusca le capacità di giudizio nei confronti di queste persone, in una sorta di stupidità difensiva. Il nostro "sano" giudizio di realtà non è acquisito una volta per tutte, ma in costruzione e manutenzione quotidiana: tutto ciò che lo mette a rischio è mal tollerabile.

Perchè allora il rapporto col borderline, persona relativamente meno alienata, è quasi più difficile di quello con lo psicotico, tanto da fare del primo "sinonimo di persona fastidiosa e violenta che viene spesso palleggiata dai servizi finchè qualcuno non possa più rinviarne la delega"? La difficoltà è confermata dall’esperienza del Gruppo di Comunità terapeutiche cui appartengo (Redancia) chiamate ad essere l’ultima spiaggia per questo tipo di pazienti, presenti ormai nelle nostre popolazioni in misura pari al 30% (la nostra impossibilità di delegare, peraltro, ha un suo aspetto positivo perchè rende doverosa una piena assunzione di responsabilità terapeutica).

In realtà, lo stigma nei confronti del borderline non mi sembra più maligno di quello che colpisce lo psicotico, ma ha solo forme parzialmente diverse. Lo psicotico ci appare così radicalmente "altro da noi" che possiamo permetterci di crederlo incomprensibile, di racchiuderlo in caselle nosografiche che lo definiscono in base alle sue diversità e che sono di per sé rassicuranti (questo rilievo non vuole mettere in discussione la validità scientifica di esse). Questa presa di distanza è ben più difficile con il borderline: il rapporto con lui è una piaga sempre aperta, che non tollera cerotti.

Una radicale lotta allo stigma comporterebbe una ampia diffusione della conoscenza di queste dinamiche, e una assunzione della angoscia che vi si lega; ampia, cioè non limitata agli ambiti specialistici; opera non impossibile ma verosimilmente interminabile.

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