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Epistemologia e metodologia della cura nelle società multiculturali

Identità, cultura e fenomeni migratori.

Potenzialità e limiti dei luoghi istituzionali, costruzione e ricerca di altri luoghi dell’osservazione e dell’intervento (accessibilità ai servizi).

IV SEMINARIO, Roma, 18 aprile 2007

Relazione d’apertura

Dott. Salvatore Inglese

Azienda Sanitaria Provinciale di Catanzaro

Dipartimento Salute Mentale "Giuseppe Curti" — Catanzaro

Responsabile Modulo di Psichiatria Transculturale e di Comunità.

Metodologia della ricerca

 

Care colleghe e cari colleghi, buongiorno; vi ringrazio per la vostra presenza.

Voglio inoltre ringraziare gli organizzatori del seminario per avermi invitato a questa importante iniziativa. Esprimo anche un sentimento personale di gratitudine a nome della comunità calabrese a cui appartengo che, nel suo insieme, si sente convocata a discutere intorno ai temi proposti sul tavolo di questa riunione. Sono riconoscente che questa comunità possa esprimere anche attraverso le mie parole le proprie concezioni seppure ancora ristrette in uno stato di subalternità culturale determinato da un perdurante ritardo di sviluppo. Forse queste caratteristiche storico-sociali fanno apparire la mia comunità regionale come un sosia perturbante, del tutto simile nelle sue fattezze a quelle masse in movimento che, valicati i confini aleatori dell’Occidente (se questi confini ancora esistono), si sono installate nel nostro spazio laborioso, volendo realizzare una propria cittadinanza effettiva, sollevando interferenze e contrasti, ma anche un’effervescenza e un gusto particolare affinché la vita sociale sia sempre vissuta pienamente. Tali masse ci riconducono in situazioni di perplessità e di contingenza dubbiosa ma, al tempo stesso, ci propongono interrogazioni su un futuro dai limiti indistinti, non demarcato, ovvero non condizionato dai nostri miti di sviluppo in una sola direzione, i quali passano attraverso tappe predisposte da strumenti scientifici e tecnocratici.

Ho scelto di "militare" come operatore sanitario in Calabria e a tale scopo - dopo una migrazione temporanea in Italia settentrionale per studiare e apprendere un mestiere — vi sono ritornato, obbedendo alla vocazione idealizzata di restare nella mia comunità d’origine che ancora una volta, altrimenti, avrebbe messo al mondo un figlio per poi consegnarlo ad una madre sociale adottiva e distante. Ho continuato ad osservare questo principio di identità, di fedeltà e di lealtà nei confronti della mia comunità originaria, occupandomi dei suoi migranti, da essa stessa riversati nel mondo durante un tempo storico infinito. Ho così rivolto il mio sguardo, all’inizio, non verso i migranti "esotici" ma verso quelli "autoctoni", e questa intenzione deliberata è poi diventata un marchio esposto, una sorta di cicatrice concettuale esibita, che si è impresso come un metodo di ricerca e di azione sempre più preciso, oltre che produttivo. Il senso elementare del segno inciso era: "Se proprio vuoi discutere di migrazioni, parti dalla migrazione del tuo gruppo, fatta di giovani e anziani, di genitori, zii, fratelli, cugini prossimi e lontani. Resta nel luogo dove tutto questo è incominciato e descrivi gli esiti dell’affanno a lanciarsi nella conquista dei mondi, a guadagnarsi un salario, a promuovere intrapresa economica, a predicare ideologia, a sfuggire all’indigenza e all’oppressione avvilente del quotidiano. Prova a conoscere quello che avviene qui (nel luogo da cui si parte) e laggiù (nel mondo in cui si arriva)". A partire dai primi anni Ottanta, quando incomincio il mio lavoro come psichiatra in una piccola comunità calabrese, è proprio quest’ultima che mi detta un’agenda clinica e sociale non sui "malati", sulle "istituzioni", sulle "cure", ma sulla "vita" reale collettiva nelle situazioni migratorie di proiezione e ritorno. In altre parole, la comunità vivente mi invita a esercitare la mia funzione istituzionale senza trascurare o ignorare gli elementi fondativi sui quali un gruppo umano può convivere, associarsi e, in qualche modo, svilupparsi. Questo vincolo interattivo tra contesto sociale e azione istituzionale ha fatto emergere, quasi immediatamente, non comunità virtuali o immaginarie ma collettività reali che generano materialmente gruppi migranti concreti: gente che, alla fine dell’avventura e della disavventura migratoria, ritorna portando a spalla due bisacce; una, sempre ricolma, dove si accumulano sconfitte e dolori, mentre nell’altra, regolarmente floscia, si depositano pochi ed effimeri successi (fino ad oggi, anzi, non credo di aver mai visto sacche rigonfie di realizzazioni nelle comunità originarie dei migranti). Inglobato interamente nella società calabrese non ho riconosciuto il nuovo oggetto del mio interesse scientifico (cultura) come se fosse esterno a me o alla mia realtà operativa. Non ho dovuto inventarmi la dimensione culturale delle popolazioni a favore delle quali operavo, come se essa costituisse un loro tratto ulteriore e accessorio, a me estraneo e ignoto: la cultura comunitaria era il mare dentro il quale nuotavo e dove, spesso, mi muovevo male perché non era mai immobile. Su di essa si abbatte una tempesta di eventi dopo l’altra, un vento di cambiamento necessario ne scaccia sempre un altro, obbligando i membri della comunità — quasi creature di abissi acquatici — a un movimento incessante verso direzioni mutevoli e imprevedibili. Dopo questa immersione mi sono posto la questione di seguire le comunità calabresi dislocate nel mondo (in Europa e Nordamerica) e, accoppiando l’intenzione osservativa con le necessità dell’azione istituzionale, mi sono pian piano sensibilizzato e aperto al problema più generale della salute mentale comunitaria in corso di migrazione.

Ripensando a più di due decenni fa, ricordo che i migranti stranieri venivano accolti da noi come se fossero degli antenati dispersi in mare e infine ritornati. In Calabria, all’inizio delle prime ondate migratorie, molti pensavano che i maghrebini fossero, in realtà, le anime incarnate dei nostri migranti trapassati in terra straniera (mala morte) e che, adesso, bussavano alla nostra porta. Questa concezione imponeva nei loro confronti un’obbligazione etica all’ospitalità, all’ascolto, allo scambio sociale e affettivo: se ci eravamo separati in vita da questa persone, sarebbe stato colpevole maltrattarli da defunti, mentre, tornando in una seconda forma, esse offrivano una nuova occasione di incontro e di ricongiungimento con la comunità di appartenenza. L’arrivo dei migranti stranieri in Calabria ha reso più complesso il paesaggio sociale regionale; del resto, per ragioni di ordine storico (contatto culturale generalizzato causato da invasioni, colonizzazioni, esodi), i calabresi erano predisposti da secoli a questo tipo di incontro che, talvolta, può emergere secondo modalità contraddittorie.

Quando l’istituzione psichiatrica nazionale ha incominciato a occuparsi dei migranti stranieri, ha dovuto fare i conti con una riflessione storica sulla propria origine costitutiva. Non dobbiamo dimenticare che la psichiatria italiana moderna è abbastanza particolare, essendo cresciuta con il nutrimento del pensiero critico, delle teorie in conflitto con l’esistente nella piena consapevolezza delle contraddizioni sociali alla base del disagio mentale. Questo le ha permesso di muoversi, fino a proporsi di abbatterle, contro le gabbie dispotiche dei contenitori asilari. Tutto questo ha impresso una matrice fondativa che oggi andrebbe riscritta in modo ancora più netto: ai colleghi preoccupati dai migranti stranieri ricorderei questo processo per sollecitarli a ispirarsi ai nostri fratelli maggiori che, a partire dagli anni Cinquanta, hanno osato ridefinire il proprio oggetto problematico fino a individuare un essere umano portatore di diritti inalienabili anche quando è nascosto dietro la maschera deformante della follia. Essi hanno saputo riconoscere dietro lo stereotipo dell’alienazione un soggetto concreto, presentificato nel suo abbraccio mortale con l’istituzione asilare e hanno provato a recidere questo legame fatale. Oggi si deve riprendere questa stessa tensione critica e liberatoria per accoppiarla a una nuova metodologia di conoscenza in grado di ritrovare l’Altro che, altrimenti, sarebbe di nuovo costretto nella deformazione dell’Alieno. Una volta questa distorsione si produceva utilizzando la "neutralità" scientifica della descrizione psicopatologica, oggi, invece, ricorrendo all’interpretazione etnocentrica dell’Altro che è sempre, inizialmente, straniero ed estraneo.

Durante gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, queste problematiche venivano delegate a una pattuglia minoritaria di ricercatori, clinici e operatori sociali, incapace di diventare incisiva a causa di un suo peso istituzionale del tutto insignificante. La maggioranza dei colleghi era invece impegnata in altre questioni e prestava scarso interesse a un’irresistibile tendenza europea e mondiale verso una realtà multiculturale, verso la contaminazione, l’ibridazione, il meticciato; cioè verso una formidabile condensazione di un’enorme varietà di popoli obbligati al confronto, allo scambio, al conflitto, all’agonismo reciproco quando non, addirittura, all’antagonismo. Per fortuna, questo gruppo minoritario e interstiziale si è ispirato ad alcuni precursori italiani che hanno studiato il rapporto tra antropologia e psicopatologia (ricordo qui la lezione magistrale di Ernesto de Martino), ma anche ad autori francesi, inglesi, americani…. Questa ispirazione era imposta dalla sensibilità anticipata nei confronti delle dinamiche sociali tendenziali che ha indotto l’attitudine a dire, per tempo: "Attenzione, cerchiamo di prepararci a questa nuova realtà, di mettere a punto e affinare gli strumenti per lavorare su questa nuova massa critica che incomincia a estendersi dalla dimensione locale e interstiziale per divenire presenza demografica generalizzata". Oggi, il presentimento di questo passaggio epocale, si è infine avverato sull’intero territorio nazionale per cui non possiamo più considerare e trattare i gruppi stranieri (è ormai difficile definirli solo migranti) come insiemi minoritari anche perché, in aree territoriali sempre più vaste, sono già, o stanno per divenire, maggioranza effettiva. Quando la presenza straniera ancora non si costituisce oggettivamente come tale, essa è comunque maggioranza di fatto perché solleva problemi generali rispetto ai quali il nostro gap conoscitivo è ancora troppo, troppo elevato. Basta un solo paziente straniero, come accade nei servizi più periferici, o un piccolo gruppo di migranti per paralizzare e, dunque, rendere oltremodo interessante la vita istituzionale finanche del servizio più marginale. Anche in queste unità operative il problema degli stranieri non residua come fenomeno "esotico" o emerge come un "lusso". La questione della clinica multiculturale rappresenta oggi il problema strategico del sistema di salute pubblica: non è più solo una delle criticità emergenti al suo interno ma si sprigiona come una forza progressiva che costringe a una mutazione dell’intero sistema, agendo forse in concorso con altri fattori di pressione ma, soprattutto, in modo indipendente da questi ultimi.

Pensiamo alle parole-chiave usate poco fa dal prof. Beneduce nella sua relazione: cultura, violenza, identità, antropologia, psicopatologia, etica… Appena si tenta di comprendere questi termini nel loro significato fondamentale, nella loro sostanza, per così dire, un attimo dopo il loro senso si complica, si trasforma, diventa il suo opposto, infine, svanisce nella sua referenzialità necessaria. Si tratta di parole ambigue, ambivalenti, proteiformi; il carattere epistemologico principale di queste categorie è il continuo e rapido divenire che si impone, talvolta, come uno scacco, una mancanza o, all’opposto, una totipotenza del loro senso. Quando ci avviciniamo a queste parole-chiave non possiamo pretendere di lavorare su di esse come se fossero "oggetti duri", metalli solidi e freddi. Non possiamo applicarci ad esse come farebbe un fabbro ferraio che batte su una materia incandescente per darle una piega determinata, una forma precisa e immutabile, con una destinazione d’uso certa, conferendole una consistenza infrangibile che permette di ritrovarla uguale a se stessa anche il giorno dopo e che solo il tempo secolare può corrodere. Quando cerchiamo di comprendere la dinamica del rapporto sociale con i migranti, ciò che osserviamo e fotografiamo un momento prima è già cambiato nell’attimo successivo, obbligando a un rinnovamento esteso e profondo, quasi microfisico, di tutti i nostri ordini e movimenti concettuali, delle nostre pratiche così come dei nostri saperi. Anche questo è un problema strategico. Cosa dicono, infatti, i nostri colleghi nell’impatto con l’alterità straniera? Affermano: "Per lavorare con i migranti bisogna creare correnti di comunicazione". Per fare scorrere flussi espressivi dobbiamo inventare dispositivi d’interazione, altrimenti si regredisce a una modalità di conoscenza etologica, quasi comportamentista, in cui si vedono persone senza appartenenze storico-sociali, prive di determinanti culturali, nullatenenti rispetto a una eredità cognitiva sicuramente trasmessa loro dalle generazioni precedenti. Esse rischiano di apparire ai nostri occhi come semplici espressioni biologiche, forme zoologiche, materie fisiche in movimento per noi incomprensibili. In questo modo, gli stranieri tornano a essere i barbari di antica memoria (privi di lingua e di natura umana incerta).

Per creare questi dispositivi di comunicazione - di interazione trasformativa - abbiamo bisogno di nuove tecnicalità e professionalità, che iscriviamo alla categoria funzionale della mediazione linguistico-culturale. Queste tecnicalità, però, non sono neutre, fabbricate in un qualunque laboratorio di ingegneria sociale avanzata per poi essere messe lì a operare solo secondo le nostre intenzioni. Esse sono soggettività autonome che, quando si inseriscono tra il problema-paziente e il soggetto istituzionale incaricato dell’intervento, incrementano i livelli di complessità dell’operazione di cura. Tale nuova complessità viene temuta da qualcuno come una sorta di deterrente talmente dissuasivo da indurre diversi operatori a scegliere, piuttosto, una semplificazione radicale, ritenendo che quanto più il campo d’azione diventa multiforme, tanto più semplice, all’opposto, dovrebbero essere le organizzazioni e le azioni istituzionali. A causa di questa concezione, molti hanno rinunciato all’impiego dei mediatori linguistico-culturali nella loro attività con i gruppi stranieri (opzioni fobiche e misoneiste). Questa chiusura, più diffusa e implicita di quanto comunemente ammesso, comporta alcune conseguenze irreparabili. Rifiutando l’apporto dei mediatori culturali si produce un distanziamento deliberato (difensivo e offensivo) dalle trame storico-sociali, dai contesti di vita e di significato, dai beni relazionali, cognitivi e affettivi retrostanti alla soggettività migrante e che informano, del resto, ogni soggettività umana. Astenendosi dall’utilizzare le leve della mediazione (clinica e sociale) viene preclusa ogni via di risalita dall’individuo straniero in stato di bisogno al suo gruppo di riferimento, alla sua comunità originaria, di appartenenza o adottiva (capitale sociale), certamente esistenti finanche nella nuova realtà migratoria. Ostinarsi in questa posizione di resistenza significa pure evitare il dialogo necessario con le reti sociali lungo le quali i migranti declinano le proprie vite e investono la loro esistenza. Si può arrivare così al punto estremo di rifiutare lo scambio sociale con le famiglie e le madri straniere, se dobbiamo trattare un bambino o, viceversa, di negare l’influenza e la presenza dei figli se trattiamo le madri, di evitare le mogli se ci confrontiamo con i mariti. Per giustificare questa modalità unidimensionale e monomorfa ci impegniamo in acrobazie alquanto azzardate e scientificamente insensate. L’esclusione tattica, o di principio, della complessità, l’inibizione a esplorare i vari percorsi che ad essa conducono, la decapitazione cinica di questa complessità impongono una realtà artificiale che finisce con il confortare tecniche e metodologie già conosciute, seppure evidentemente elaborate per affrontare altre criticità, quelle, ad esempio, che non prevedono l’interazione con la differenza culturale. Ciò non vuol dire, del resto, che le tecniche prevalenti, sperimentate e consolidate non siano capaci di produrre effetti specifici. Al contrario: tali effetti si sono comunque sprigionati intorno al divano analitico di Freud che ha costruito un modello clinico innovativo lavorando con i pazienti di una società multiculturale, posta sotto una potente sovranità imperiale, senza introdurre nella dinamica terapeutica variabili linguistiche e culturali. In questo caso, l’autorità del medico ha proceduto a siglare un accordo interattivo che induceva quei pazienti a rappresentare il proprio immaginario conflittuale di fronte a una macchina interpretativa universale e invariante, costituita dalla mente sperimentale del maestro viennese. Sottolineo questi aspetti perché le nostre scelte operative, tanto più quando si misurano nella dimensione dell’alterità culturale, non risultano mai inerti. Se ci muoviamo in una direzione, piuttosto che verso un’altra, già il passo iniziale determina degli effetti pur non conoscendo, al principio, se la scelta produce un’efficacia intenzionale. Non sappiamo, infatti, se la trasformazione che attiviamo avviene in una direzione desiderata ed eccellente, oppure no. Emergono in ogni caso degli effetti positivi o negativi: secondo regola generale, discendono ancora più spesso effetti positivi e negativi da ogni azione di cura (così come effetti progressivi e regressivi si irradiano da qualunque opzione organizzativa).

Ogni agenzia del sistema sanitario pubblico riesce a influenzare, al contempo, sia lo straniero a cui eroga prestazioni sia il collettivo a cui quest’ultimo si riferisce: il drop-out, la recalcitranza e la resistenza del singolo migrante assumono puntualmente una dimensione collettiva. Questo paziente è in qualche modo inviato dal proprio gruppo a sperimentare per conto di esso le capacità prestazionali, di tenuta e di reazione del sistema pubblico. Questi gruppi utilizzano un’astuzia selettiva per sottoporre il sistema assistenziale a una specie di test sociale; solo dopo una valutazione accurata dei risultati di questo esame decidono di relazionarsi e anche di sovvertire la logica generale di un’istituzione (i gruppi zingari rappresentano un esempio paradigmatico di sistema gruppale esperto nell’esecuzione di un esame sociale severo del sistema pubblico, che viene spesso piegato alle esigenze di un collettivo culturale tanto particolare).

Dobbiamo dotarci di gruppi di iniziativa assistenziale prevalentemente dedicati al compito di interagire con i cittadini e le comunità straniere? Si tratta di una domanda chiara e ineludibile ma anche di una questione molto complicata, la cui risposta soggettiva non posso qui argomentare in modo conveniente. Voglio solo evidenziare che se non si costituiscono simili gruppi non esiste alcuna possibilità, di fronte a tale contingenza nazionale (oltre che europea) e strategica, di recuperare un evidente gap conoscitivo e di costruire un nuovo sapere e un saper fare rinnovato. In assenza di un gruppo operativo — dato che la salute straniera può essere garantita solo da un’impresa collettiva perseverante e appassionata — nessun tecnico specializzato nella clinica interculturale (e nella salute mentale multiculturale) può esercitare una leadership efficace all’interno di un sistema organizzativo complesso incarnato dagli attuali Dipartimenti di Salute Mentale. Bisogna invece selezionare in ogni DSM un gruppo, piccolo o grande che sia, in grado di sondare ed esplorare un terreno di cui nulla si conosce mentre il già noto dissuaderebbe dall’esercizio dell’intelligenza critica. Una volta selezionato un gruppo siffatto - e finalmente riconosciuto che le lingue in cui bisogna svolgere il processo di cura non sono uno strumento accessorio ma necessario, o che esse non sono un ostacolo insormontabile ma un elemento attraverso cui passa la promozione della conoscenza e del riconoscimento reciproco tra gruppi umani eterogenei impegnati nello scambio sociale allargato - solo allora possiamo innestare dentro questi insiemi operativi la figura inedita e controversa dei mediatori culturali. Questo passaggio implica anche la formazione tecnica di questi operatori. So che molte Regioni italiane, forse quasi tutte, hanno istituito percorsi formativi che vanno nella direzione di creare mediatori utilizzabili all’interno del sistema sanitario. Si è invece pensato di meno al fatto che la formazione auspicata deve essere bilaterale: se non si educano gli operatori clinici e sociali all’utilizzo dei mediatori — e non solo della "mediazione" - il risultato derivante dall’impiego di queste figure sarà sempre scadente, nullo, grottesco o, addirittura, controproducente. In primo luogo, bisogna formare i clinici all’uso dei mediatori linguistico-culturali che incarnano e interpretano la lingua originaria dei migranti, vivente e in atto, seppure sottoposta, come il corpo, la mente e il ruolo sociale degli stranieri, a una tensione di adattamento e al rischio correlato di una disfunzione. I mediatori sono i vettori essenziali della traduzione in divenire, mutevole ed equivoca, ma sempre reale e condizionante la posizione sociale delle persone lungo lo spettro interposto tra salute e malattia. I mediatori sono anche la bilancia su cui si misura il peso dello scambio sociale tra stranieri e comunità di accoglienza. Date queste considerazioni, la funzione della mediazione linguistico-culturale rappresenta l’area dove il sistema pubblico deve investire risorse puntuali e significative, altrimenti rischia di incrementare i processi di discriminazione e di disintegrazione delle società civili attratte nella stessa nicchia ecosociale.

Gli stranieri sono anche l’occasione per proiettarsi fuori e migliorare dentro: tutti i fattori di criticità e tutte le espressioni di un avanzamento progressivo dell’operatività con gli stranieri favoriscono un ritorno applicativo sui sistemi istituzionali esistenti allo scopo di migliorarli. Ad esempio, se ragioniamo sull’intreccio culturale che collega i bambini, gli adolescenti, la socializzazione primaria e secondaria, apparirà evidente che nei confronti degli stranieri — di coloro che provengono da mondi culturali radicalmente diversi dai nostri - la distinzione e la separatezza artificiosa tra servizi dedicati agli adulti e quelli destinati alle giovani generazioni crolla fragorosamente. Questo è ancora più evidente qualora si utilizzasse una metodologia dell’interazione clinica che contestualizza le vicende biografiche e gli esiti patobiografici a carico degli stranieri rispetto alle loro reti di appartenenza socioculturale. Oggi, del resto, siamo di fronte a nuovi dati di fatto offerti dalle dinamiche migratorie: si riducono, infatti, i fenomeni di attrazione su base esclusivamente comunitaria (attrazione migratoria per appartenenza etnica, linguistica, nazionale). Ad esempio, se qualche tempo fa i maghrebini si associavano ai loro simili in ragione di identità nazionali condivise (alleanze sociali ad ampio raggio), più di recente queste persone incominciano a riunirsi nelle società adottive formando nuclei familiari sulla base di un legame più personale (alleanze di prossimità parentale), diverso da quello precedentemente operante su base comunitaria non familiare. Allora, le vecchie distinzioni e classificazioni di specie che abbiamo impiegato in passato, anche in ambito transculturale, vanno riviste. E’ vero, altresì, che i migranti costruiscono modelli di famiglia per noi inusuali. Essi ci impongono di lavorare su un qualunque oggetto problematico (psicologico, somatico, sociorelazionale) richiamando in uno stesso topos (spazio istituzionale) competenze variegate e multiple che ancora adesso, in virtù dei nostri ordini disciplinari, viaggiano su binari paralleli incapaci di convergere in una stessa realtà operativa.

Sulla scia di questa riflessione intorno al metodo operativo e organizzativo in favore della salute mentale straniera (oltre che autoctona), bisogna ripensare la strutturazione del rapporto tra istituzione e città, tra territorio dei diritti (cittadinanza) e soggettività culturale. Ad esempio, i migranti che attraversano sempre nuove frontiere obbligano i servizi stessi a riconoscersi e costituirsi come servizi di frontiera (posti tra culture, discipline e spazi di vita). All’interfaccia di queste frontiere si trovano i punti di attrito e di scambio tra soggetti diversi; proprio in questi territori-limite le comunità migranti parlano tra di loro (corpo a corpo interculturale). Non dobbiamo immaginare che il rapporto sociale dei migranti si articoli solo tra gruppo ospitante egemone (Noi) e gruppo extra-comunitario (Loro). Spesso queste comunità hanno relazioni più intense di tipo inter-comunitario ("tra loro") piuttosto che con la società dalle cui leggi sono governati (o dominati). In tal caso bisogna pensare a una dislocazione dei servizi adattata a queste dinamiche spontanee che poi diventano nuovi vincoli esistenziali.

Per concludere: sarebbe interessante comprendere come questi problemi si siano presentati nelle diverse aree geografiche del nostro Paese. Un’analisi comparata degli adattamenti strutturali e funzionali dell’intero campo assistenziale nazionale potrebbe offrire nuovi elementi per ricondurre a unità provvisoria la molteplicità delle risposte di sistema che gli stranieri sollecitano da parte delle società ospitanti. Bisogna impegnarsi in questo sforzo analitico con la necessaria ponderatezza senza ricercare frettolosi automatismi o convalidare d’istinto modelli estensibili all’intera situazione nazionale. Tale analisi andrebbe inoltre svolta con la consapevolezza che la questione delle migrazioni internazionali impegnerà l’intelligenza collettiva per almeno un altro secolo (vale a dire: per sempre) e convocherà ogni ordine e grado del sapere sociale contemporaneo.

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