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Gruppo di Ricerca sulle Psicoterapie Brevi

Resp. Prof. L. Pavan

Atti del Congresso Nazionale
L'Alleanza Terapeutica

 

LE REAZIONI EMOTIVE AL PAZIENTE VIOLENTO

Prof.ssa L. Lorettu

Segretario della Società Italiana di Psichiatria Forense (S.I.P.F.)

Presidente della Società Italiana di Psichiatria, sez. Sarda

Docente presso la facoltà di Medicina dell’ Università di Sassari

 

La Pericolosità

Innanzitutto dobbiamo introdurre il termine di Pericolosità del malato di mente, facendo riferimento non tanto al concetto forense di "Pericolosità sociale", quanto piuttosto alla sua accezione clinica.

In ambito psichiatrico con il termine Pericolosità ci si riferisce ad una situazione in cui il soggetto ha già messo in atto un comportamento violento, oppure, pur non avendolo ancora messo in atto, ha dato dei chiari segnali in tal senso.

Come ci relazioniamo col paziente violento?

La prima, naturale reazione che l’ operatore psichiatrico (medico, paramedico, educatore ecc..) si trova a dover affrontare è la paura.

In secondo luogo, deve far fronte a quelle frustrazioni che fanno parte della quotidianità del suo agire terapeutico: le ricadute frequenti del paziente psichiatrico in genere (per esempio la ciclicità del disturbo bipolare), il fatto che, nonostante ci siano delle terapie, un pz che ha già messo in atto un comportamento violento, può nuovamente metterlo in atto (questo, per inciso, accade perché di solito si interviene sulla patologia psichiatrica, ma non sul comportamento violento in sé).

La paura viene di solito tenuta sotto controllo attraverso dei Meccanismi di difesa, che consentono all’ operatore di agire nonostante la repulsione e l’ ansia che un paziente di questo tipo suscita. Dobbiamo prestare molta attenzione ai meccanismi di difesa perché il non essere consapevoli di quando, quanto e come essi agiscono nella nostra psiche, potrebbe impedirci di fare una adeguata diagnosi e attuare un adeguato comportamento terapeutico.

In tal caso si tratterebbe di un errore emozionale, diverso da un errore medico, ma altrettanto grave, perché potrebbe portarci lontano dal nostro compito clinico. Non dobbiamo infatti dimenticare che in ambito psichiatrico, l’ unico strumento diagnostico e terapeutico è lo psichiatra stesso.

Il paziente violento è un paziente che più di altri mette lo psichiatra di fronte a delle responsabilità ma dobbiamo fare attenzione a non mettere il medico nell’ ambito di una funzione che non gli compete, ovvero il controllo sociale della malattia mentale. Prima della legge 180, quando cioè il malato di mente veniva definito "pericoloso per sé e per gli altri", al medico veniva demandata questa funzione di "arginamento" e di "contenimento" del malato di mente, e questo accadeva perché tanto lo psichiatra quanto il paziente erano vittima di numerosi e radicati pregiudizi.

Alcuni di questi pregiudizi sopravvivono ancora oggi. Un esempio è l’apparente imprevedibilità e incomprensibilità del comportamento violento. E’ proprio la clinica a smentire questo concetto, infatti, nella maggioranza dei casi, ci sono dei segnali ben precisi che inducono a sospettare la possibile comparsa di una situazione di pericolosità.Un altro pregiudizio molto diffuso è che il malato di mente sia necessariamente violento, in realtà la stessa cronaca ci dimostra che su 100 atti di violenza (omicidi) soltanto 3 sono compiuti da malati di mente.

Meccanismi di difesa

    1. Concretizzazione: passare da un concetto astratto a un concetto concreto.
    2. Esempio clinico: paziente che, in preda al delirio, ha ucciso una persona.

      Concretizzazione: "Quello che è successo è legato esclusivamente al delirio" ® determinismo psichiatrico oppure sociale , morale ecc.

      Dicendo: "Ha ucciso perché ha un delirio", focalizzo la mia attenzione solo su una delle due componenti, ovvero la malattia mentale, mentre trascuro il comportamento violento in sé.

      In realtà, il delirio non sempre ci dice tutto sul comportamento violento, per cui il fatto di non valutare questa componente ci porta a dare al paziente il farmaco deliriolitico, senza però intervenire sul comportamento violento.

    3. Formazione reattiva: provare qualcosa di molto forte nei confronti di una persona e mettere in atto un comportamento che mostra dei sentimenti di segno opposto.
    4. Esempio clinico: paziente che ha fatto violenza ad un bambino.

      Questo ci suscita, naturalmente, molti sentimenti di repulsione, odio e anche di violenza, di cui è bene essere consapevoli.

      Spesso di fronte a questi sentimenti mettiamo in atto dei comportamenti che contrastano fortemente con quello che proviamo in realtà: un iperaccudimento affettivo nei confronti del paziente, uno pseudointeresse scientifico, manifestazioni di coraggio folle. Non essere coscienti di questi sentimenti contrastanti potrebbe portarci lontano da uno sguardo clinico obiettivo.

    5. Identificazione:
    6. Con la vittima: in ambito peritale potrebbe portare ad un grosso errore, con il possibile avviamento di un iter giudiziario anziché terapeutico, e con gravi conseguenze per il paziente.

      Con l’ aggressore: è possibile una collusione di problematiche, come ad esempio un paziente aggressivo con la propria moglie che venga valutato da uno psichiatra in crisi matrimoniale.

    7. Minimizzazione: tendenza a sottovalutare la gravità del fatto.
    8. Minimizziamo non solo il comportamento violento in sé, ma anche il quadro clinico.

      Questo, molto spesso, ci impedisce di riconoscere eventuali segnali premonitori che potrebbero consentirci di far fronte ad una eventuale situazione di pericolosità futura.

      Dobbiamo prestare attenzione poiché, a questo atteggiamento, contribuiscono spesso anche gli stessi familiari del paziente.

    9. Negazione: nascondiamo a noi stessi ciò che il paziente ha fatto.
    10. Ci fermiamo sul presente, o sul passato, ma neghiamo il comportamento violento in sé, perché è ansiogeno per noi.

    11. Passaggio all’ azione
    12. farmacologica, non è detto che il trattamento attuato sia adeguato, dovremmo prima assicurarci di aver fatto una diagnosi corretta, ospedalizzazione, deospedalizzazione, invio del paziente ad un altro terapeuta..

    13. Proiezione
    14. E’ strettamente connessa con l’identificazione. Ad esempio ci potrebbe succedere di "vedere" il paziente molto più pericoloso e aggressivo di quanto non sia perché gli attribuiamo la nostra aggressività, che deriva dalla nostra paura nei suoi confronti.

    15. Scissione: prendere un insieme di contenuti particolarmente ansiogeno e dividerlo in modo da poter affrontare la situazione a piccole dosi. Rappresenta forse la modalità corretta di affrontare il paziente violento.

delle emozioni, della psicopatologia, quando scotomizziamo una parte mettendone in primo piano un’ altra.

L’ errore, in questo caso potrebbe essere simile a quanto avviene col meccanismo della Concretizzazione. La diagnosi potrebbe essere così ricondotta a quel grande "contenitore" che è il Disturbo di personalità di tipo Borderline o Antisociale, con l’inevitabile rischio di etichettare il paziente come "cattivo".

Di fronte al paziente violento:

    • Contratto terapeutico — dobbiamo spiegare al paziente perché è lì e perché lo stiamo trattenendo.

    • Terapia farmacologia — il primo obiettivo in questo caso è la sedazione del paziente, al fine di ottenere una condizione di sicurezza per se stesso e per gli altri..

    • Diagnosi - Non possiamo mantenere una continua sedazione farmacologia, dobbiamo pertanto instaurare una terapia mirata al contenimento e al controllo della patologia.

Per porre una diagnosi ci dobbiamo avvalere di tutte le informazioni che possono risultarci utili ascoltando i parenti e il paziente stesso, informandoci su eventuali precedenti psichiatrici e giudiziari. Dobbiamo cercare di capire il più possibile sul comportamento violento in sé. E’ quindi necessario chiedergli delucidazioni su che cosa ha fatto e che cosa ha provato nel momento in cui ha messo in atto il suo comportamento. Dobbiamo capire quali sono state le circostanze, i fattori associati, ed i probabili eventi stressanti concomitanti che possono aver giocato un ruolo importante nello scatenamento della situazione di pericolosità.

In conclusione:

Sono due i binari su cui bisogna cercare di intervenire:

    1. la malattia mentale
    2. il comportamento violento

Per ciascuno di essi è fondamentale una diagnosi corretta e una terapia adeguata.

Ci sono poi degli elementi che stanno a cavallo tra i due e che potremmo definire come dei veri e propri campanelli di allarme. Ad esempio prima dello scompenso acuto ritorna un’idea oppure un comportamento: il paziente inizia a non dormire più la notte, a bere più caffè o a fumare più sigarette, oppure, evento molto importante, interrompe la terapia farmacologica .

L’obiettivo primario risulta pertanto intervenire sulle fluttuazioni della psicopatologia, prevenendo le situazioni a rischio, e responsabilizzando il paziente, da una parte ufficializzando il suo comportamento, e dall’ altra valutando la consapevolezza del suo percorso verso l’ ammissione di colpa.


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