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LA NOZIONE DI IMPUTABILITA' PENALE

di Lino Monteverde

Al centro di questo convegno, dedicato al rapporto tra malattia mentale e diritto, si pone sostanzialmente la discrasia tra la nozione di malattia mentale, quale oggi definita a livello scientifico, e recepita nei metodi di cura largamente praticati, e la normativa vigente, soprattutto nel settore penale. Il ritardo della normativa sulla nozione di imputabilità, che costituisce per l'infermo di mente la nozione cardine del suo trattamento in sede penale, rappresenta rispetto alla evoluzione del trattamento terapeutico, l'aspetto più evidente di tale discrasia. In effetti, nella storia, il problema della imputabilità dell'infermo di mente è sempre stato strettamente collegato, e non potrebbe essere diversamente , alla concezione che, nei diversi periodi, si aveva della infermità di mente, delle sue cause e dei suoi rimedi. Così si spiegano i vari tipi di trattamento, via, via riservati a coloro che, trovandosi in quelle condizioni di infermità, avevano commesso reati più o meno gravi. Nell'ambito di questi trattamenti differenziati, la imputabilità o meno del soggetto non ha mai costituito un punto fermo, dal quale partire per arrivare ad una soluzione, quale che essa fosse, ma soltanto uno strumento per attuare quella soluzione, cioè la soluzione che in quel determinato periodo storico era stata individuata per difendere la società dagli infermi di mente-autori di reati, in coerenza, sempre, con la concezione che in quel determinato periodo si aveva di quella specifica malattia.

Dal diritto romano al codice Rocco. La coerenza del sistema.

  1. I giureconsulti romani del periodo classico equiparavano il "furiosus" all' "infans". Il fatto compiuto nel furor, cioè in ogni stato di pazzia conosciuta a quel tempo, non era punibile. E' significativo peraltro rilevare che, in quel periodo, si ammetteva la punibilità del fatto commesso dal furiosus in un lucido intervallo. Il furiosus, quindi, al di fuori dei lucidi intervalli, non era punibile ma, "ad securitatem proximorum", il magistrato poteva disporre nei suoi confronti misure di sicurezza di tipo custodiale. Il diritto germanico non prevedeva la pazzia quale causa influente sulla imputabilità; soltanto il diritto longobardo escludeva il pazzo dalla pena, ma consentiva a chiunque di uccidere, sine culpa, l' "homo rabiosus aut demoniacus". Nel diritto italiano intermedio, a cominciare dal secolo XIII, il mentecatto che commetteva delitti non era (teoricamente) punibile, come nel diritto romano era equiparato all'infans, ma, di fatto, se pure non veniva ucciso, come talvolta accadeva, era condannato al carcere, dove spesso veniva e rimaneva incatenato, qualche volta in perpetuo. La non imputabilità, in quel periodo, era soltanto una affermazione di principio, in realtà, l'infermo di mente che commetteva delitti era soggetto a pene più gravi degli altri, perché indeterminate. In quello stesso periodo, la dottrina prospettava per la prima volta la opportunità, per gli infermi di mente, di pene alternative. Il codice Zanardelli, emanato il 30-6-1889 ed entrato in vigore in data 1-1-1890, si collocava sulla linea della non imputabilità. Secondo l'art. 46, non era punibile colui che, nel momento in cui aveva commesso il fatto, si trovava "in tale stato di infermità di mente da togliergli la coscienza e la libertà dei propri atti". Lo stesso articolo, prevedeva peraltro che il giudice, ove ritenesse pericolosa la liberazione dell'imputato prosciolto, disponesse la sua consegna "alla Autorità competente per i provvedimenti di legge". Di quale autorità e di quali provvedimenti si trattasse, era poi specificato negli art. 13 e 14 delle relative disposizioni di attuazione. L'imputato prosciolto ritenuto pericoloso, veniva immediatamente consegnato alla autorità di P.S., che operava direttamente al suo ricovero in manicomio "in stato di osservazione". Successivamente, il presidente del tribunale civile, "ad istanza del P.M. e assunte le opportune informazioni", ordinava il suo ricovero definitivo, o la sua liberazione. Si trattava sostanzialmente di una misura di sicurezza, applicata peraltro, elemento assai significativo nel rapporto con la normativa successiva, da un giudice civile e non da un giudice penale.
  2. Il quadro che è stato rappresentato risulta già significativo di una linea. Nei diversi periodi storici, la nozione di non imputabilità dell'infermo di mente autore di reati è stata spesso utilizzata non a fini di cura e di recupero, ma a fini essenzialmente repressivi e, più ancora, emarginanti Attraverso questo percorso, si può in effetti rilevare che alla nozione di non imputabilità, ed alla conseguente pronuncia di proscioglimento, abbia sempre fatto riscontro la applicazione, a carico dell'infermo di mente prosciolto, di misure di sicurezza. Di fatto, il proscioglimento e la misura di sicurezza consentivano di eludere, a quei fini, il principio di legalità e quello di rigidità della pena, lasciando alla discrezionalità e all'arbitrio dei giudici di graduare il trattamento secondo le concrete esigenze di difesa sociale, quali avvertite in quel momento. E il trattamento, giova ricordarlo, non riguardava tanto il soggetto con riferimento al fatto commesso, ma essenzialmente il soggetto con riferimento alla sua infermità, nel senso che anche per un fatto non grave, questa è storia anche recente, il soggetto poteva rimanere segregato per tutta la vita.
  3. Le cose non cambiano con il c.d. codice Rocco, entrato in vigore il 1° luglio 1931. Esso infatti risulta fondato sullo stesso principio della non imputabilità e riserva agli infermi di mente, nella sua stesura originaria, un trattamento del tutto coerente con la concezione che negli anni 30 si aveva - a livello scientifico, culturale e normativo - dei c.d. matti: persone da curare coattivamente, ma soprattutto da escludere dal contesto civile, in definitiva da emarginare, come i vagabondi, i mendicanti, gli alcoolisti, i tossicodipendenti etc.. In buona sostanza, il matto che non incorreva in delitti veniva ricoverato in un manicomio civile, il matto che commetteva delitti in un manicomio giudiziario. Non in esecuzione di una pena, perché si considerava non imputabile, ma in esecuzione di una misura di sicurezza. La legge ha stabilito infatti ("provvidamente" commentava Vincenzo Manzini ) il ricovero in manicomio giudiziario della persona prosciolta per infermità di mente, perché si presumeva "iuris et de iure" la sua pericolosità sociale. La durata minima del ricovero è stata fissata in 2-5-10 anni, in relazione alla gravità del reato commesso. Al termine del periodo minimo, salva la revoca anticipata riservata al "Ministro della giustizia", la persona veniva sottoposta ad un nuovo giudizio di pericolosità, e se riconosciuta ancora pericolosa, il ricovero si protraeva per uguale periodo, e così via. Nella prassi, salvo i casi eccezionali di revoca anticipata disposta dal Ministro di G. e G., la pericolosità, a conclusione del nuovo giudizio, veniva sempre riconosciuta persistente, in coerenza con il sistema, se persisteva il disturbo psichico, e così, una misura apparentemente protettiva, applicata dopo un proscioglimento, veniva spesso a risolversi, per il malcapitato, in una condanna a vita, anche quando il reato commesso avrebbe per lui comportato, se giudicato imputabile, pochi anni di galera.

La Costituzione. Crisi del sistema e fine della coerenza. La situazione attuale.

  1. Il sistema introdotto con il codice Rocco è entrato progressivamente in crisi con la introduzione, nel sistema delle leggi, della Costituzione oggi vigente, anzi, più propriamente, nel momento in cui i principi costituzionali hanno iniziato timidamente ad affermarsi nel settore penale. E' stata la Corte Costituzionale ad intervenire per prima a incrinare il principio sul quale il sistema era imperniato, quello della pericolosità presunta. Con due successive sentenze ( n.139 del 1982 e n. 249 del 1983 ), la Corte ha infatti stabilito che le misure di sicurezza del ricovero in O.P.G. e della assegnazione ad una casa di cura e custodia non potevano essere applicate se non dopo avere accertato, da parte del giudice, la pericolosità sociale del soggetto, derivante dalla infermità psichica, al tempo della applicazione della misura. Apparentemente, queste sentenze non sembravano incidere sul principio, in realtà, per i loro riflessi in sede applicativa, esse hanno avuto effetti dirompenti. Fino a quando, sul punto, è intervenuto il legislatore con una norma, l'art. 31 della legge 10 ottobre 1986 n. 663, che ha risolto alla radice il problema. Questa norma ha infatti abrogato l'art. 204 C.P., che aveva appunto introdotto nell'ordinamento penale il principio della pericolosità presunta, ed ha esplicitamente stabilito che tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che chi ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa.
  2. La rottura del principio della pericolosità presunta non avrebbe comportato comunque, di per sé sola, la rottura del sistema, se essa non si colloca, come è doveroso fare, nel contesto in cui essa è avvenuta, cioè se non si tiene conto che nel frattempo, a livello scientifico, era mutata profondamente la nozione di infermità psichica, non più ritenuta una condizione definitiva ed irreversibile del soggetto, ma uno stato patologico transitorio, come tale curabile e in molti casi anche sanabile. Il legislatore, per parte sua, aveva recepito nell'ordinamento questa nuova visione della malattia, aveva disposto, con la legge n. 180/78, la soppressione degli ospedali psichiatrici civili, ed aveva disciplinato successivamente, con la legge n 833/78, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, il nuovo trattamento dei sofferenti psichici, nella prospettiva del loro pieno recupero nel contesto sociale. A questo punto, il parallelo malato di mente da custodire nel manicomio civile-malato di mente criminale da internare nel manicomio giudiziario veniva meno e veniva conseguentemente meno la coerenza del sistema. I manicomi civili, poi denominati ospedale psichiatrici, erano destinati a sparire, ed in effetti oggi dovrebbero essere già tutti chiusi, essendo stata fissata la data della loro definitiva chiusura per il 31-12-97. I manicomi giudiziari, attualmente denominati ospedali psichiatrici giudiziari, appaiono sempre più come cattedrali nel deserto, del tutto disancorati dalla realtà scientifica del settore ed isolati nella coscienza collettiva. Essi sono ormai degli autentici ingombri lungo la via di un autentico rinnovamento nel settore e di un ripensamento degli istituti giuridici che sono alla base del sistema.
  3. In realtà, sulla chiusura in prospettiva degli ospedali psichiatrici giudiziari, a livello dottrinale ed anche a livello di opinione pubblica, oggi sussiste, dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici civili, un ampio consenso. Si tratta peraltro di un consenso più apparente che reale, perché la richiesta di chiusura di tali istituti non si accompagna, generalmente, all'impegno di affrontare seriamente il problema del "che fare" di fronte a persone affette da disturbi psichici che comunque commettono delitti, talvolta molto gravi. Così, la prospettiva della chiusura si allontana e continua a permanere la rilevata contraddizione, tra le mutate concezioni scientifiche sulla malattia e le conseguenti riforme attuate o in via di attuazioni in sede civile, da un lato, e la realtà giudiziaria, dall'altro. La risposta alla domanda del che fare, di fronte al problema degli infermi di mente che commettono reati, si risolve, nei fatti, nel mantenimento del vecchio sistema, al quale si perviene, non più attraverso la comoda via della presunzione di pericolosità, ma con forzature interpretative sulla nozione stessa di pericolosità. Ed è intorno a questa nozione che si avviluppano le contraddizioni del sistema attuale. Infatti, nel momento in cui occorre accertare, volta per volta, la sussistenza della pericolosità attuale dell'infermo di mente, per disporre o revocare nei suoi confronti la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o in casa di cura e custodia, si è posto ai giudici un problema al quale erano culturalmente impreparati, quello di stabilire, loro, quando l'infermo di mente possa qualificarsi socialmente pericoloso. Doveva essere chiaro, ma non lo è stato, che la pericolosità non potesse più consistere puramente e semplicemente, in base alle nuove concezioni scientifiche, nel tipo di malattia di cui era affetto il soggetto, al momento del fatto delittuoso e al momento dell'esame in sede processuale, ma che essa dovesse essere determinata secondo i criteri fissati dall'art. 203 C.P., in quanto tali criteri valgono per tutte le diverse ipotesi di pericolosità previste nel codice. I giudici, invece, hanno ritenuto di rimettere la valutazione al perito, lo stesso perito incaricato di stabilire la sussistenza o meno nel soggetto, al momento del fatto, di un vizio parziale o totale di mente. E qui il sistema è saltato. I periti più attenti alle problematiche del settore si rifiutano di rispondere a questo specifico quesito, affermando trattarsi di problema rimesso esclusivamente al giudice, cui essi - dopo aver concluso che una persona, al momento del fatto, era del tutto incapace, per infermità psichica, di intendere e di volere - non possono e non debbono rispondere, esulando la risposta dalla loro professionalità. I periti che accettano invece di rispondere al quesito, spesso cadono in contraddizione e finiscono per giudicare una persona pericolosa, non sulla base di sue specifiche caratteristiche personologiche, o di precisi elementi che lo riguardino direttamente, ma in base ad elementi del tutto estranei al soggetto, quali, ad esempio, le carenze dei servizi assistenziali della zona dove egli risiede. In realtà, il concetto di pericolosità in questi ultimi anni è entrato in crisi. Secondo l'art. 203 C.P., comma 1, è socialmente pericolosa la persona, "anche se non imputabile", che ha commesso reati "quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati". E il comma 2 dello stesso articolo precisa: "la qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell'art. 133". La pericolosità quindi, secondo il dato normativo, è una qualità eventuale del soggetto autore di reato, sia esso imputabile, non imputabile o semi-imputabile. Seguendo il dato normativo (il legislatore non aveva presente, al momento della sua formulazione, il problema degli infermi di mente, risolto a parte con la normativa specifica sulla presunzione di pericolosità), il proscioglimento dovrebbe comportare spesso, con il venire meno della presunzione, la liberazione degli imputati riconosciuti affetti da vizio totale di mente, e perciò non imputabili, perché difficilmente essi, ancorchè autori di gravissimi reati, potrebbero ritenersi socialmente pericolosi in base ai criteri fissati dall'art. 133 C.P.. Una soluzione del genere verrebbe peraltro ad urtare la sensibilità della opinione pubblica e susciterebbe intuibili reazioni di rigetto. Così, e non altrimenti, si spiega la forzatura della nozione di pericolosità sociale, che porta, spesso, i periti a definire socialmente pericolose persone che tali non sono, e i giudici ad adagiarsi, acriticamente, su quelle valutazioni. Si tratta di valutazioni che trovano il loro fondamento, espresso o inespresso, nell'interesse presunto del soggetto, per sottrarlo ad eventuali azioni di ritorsione e per consentirgli cure che all'esterno della struttura manicomiale i servizi assistenziali non potrebbero garantirgli, e nell'interesse presunto della società, perché il matto, abbia o non abbia commesso reati, continua comunque a spaventare.

Prospettive di riforma.

1. Non sussiste il minimo dubbio, a questo punto, che per ridare coerenza al sistema non si possano mantenere quegli istituti penali ( la pericolosità sociale e la misura di sicurezza ), che sono oggi alla base della contraddizione. La Regione Emilia Romagna, in verità, nel suo progetto di proposta di legge alle Camere, già citato in nota, si muove su una linea diversa e ritiene che il problema qui in discussione si possa ragionevolmente risolvere, senza intaccare la sostanza dei predetti istituti. Il progetto porta un titolo, " Superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari", chiaramente indicativo di quale fosse la volontà dei proponenti, all'atto della sua formulazione. Ma questa volontà, proprio perché i proponenti tendono ad eludere i nodi di fondo, non sembra tradursi in un articolato coerente al fine perseguito. Esso prevede infatti "la abolizione della nozione della seminfermità mentale come causa di vizio di mente"; mantiene invece, sostanzialmente negli stessi termini attuali, la nozione di non imputabilità per chi ha commesso il fatto in stato di incapacità di intendere e di volere per vizio totale di mente; mantiene conseguentemente la nozione di pericolosità sociale, che è l'altro cardine dell'attuale sistema, anche se si sforza di definirla in termini precisi ; propone infine per quelle persone ( e lo sbocco della proposta era inevitabile, date le premesse ) la misura di sicurezza della assegnazione in istituti chiusi, di piccole dimensioni e diffusi nel territorio, con funzioni custodiali e terapeutiche. Di fronte a questa conclusione, non ci si può sottrarre alla suggestione che, al di fuori certamente delle intenzioni dei proponenti, ci si avvii a costruire dei manicomi, più piccoli e più efficienti ma pur sempre manicomi. In definitiva, il progetto pare limitarsi a realizzare gli auspici espressi dalla Commissione permanente del Senato nel corso della XI Legislatura, nel quadro di una iniziativa che tendeva a razionalizzare il sistema esistente, con marginali ritocchi, senza tenere conto che quegli auspici non sono stati realizzati in tanti anni, non per cattiva volontà di alcuno, ma semplicemente perché non si può costruire un nuovo edificio su fondamenta fatiscenti e costituite da materiale friabile.

  1. Su un piano diverso e più radicale si muoveva il disegno di legge n. 177/83 presentato il 29 settembre 1983 al Senato, nel corso della IX Legislatura. Il titolo del disegno di legge ("Imputabilità del malato di mente autore del reato e trattamento penitenziario del medesimo. Abrogazione della legislazione penale per infermi e seminfermi di mente" ) appariva già radicalmente innovativo. Il contenuto, era del tutto coerente al titolo ed aveva suscitato, all'epoca, reazioni generalmente negative. Queste reazioni risultano oggi, ad una più meditata lettura, largamente immotivate, come vedremo, ma del tutto comprensibili. I tempi erano diversi. Il disegno di legge si collocava infatti sulla scia di riforme non ancora "digerite" dal sistema ( si tratta delle riforme introdotte, in campo psichiatrico, dalla c.d. legge Basaglia, e nel settore della esecuzione delle pene, dall' ordinamento penitenziario ). Le incrostazioni culturali erano tante, gli interessi corporativi connessi al sistema, assai diffusi. In questo caso, le incrostazioni a livello di cultura psichiatrica hanno trovato riscontro nelle incrostazioni a livello di cultura giuridica, sembrando assai azzardato incidere su alcuni principi cardine del nostro ordinamento, quali quelli costituiti dalla imputabilità, dalla pericolosità sociale, dalle misure di sicurezza. Da allora, la situazione è profondamente cambiata. Abbiamo verificato quanto sia scivoloso il concetto della non imputabilità, e più ancora della semi-imputabilità degli infermi di mente (non a caso il progetto della Emilia e Romagna ha abolito la nozione di vizio parziale di mente ed ha cercato di restringere la nozione di vizio totale ). Abbiamo anche visto, dopo la abrogazione normativa della nozione di pericolosità presunta, quali e quanti sforzi siano stati compiuti dalla giurisprudenza - nella direzione sbagliata, e cioè attraverso la manipolazione, che arriva allo stravolgimento, della nozione di pericolosità - per dare comunque una risposta al quesito del "che fare" di fronte a soggetti, affetti da disturbi psichici, che commettono reati, anche gravi. Abbiamo visto, infine, come i tentativi di dare una risposta al problema attraverso la razionalizzazione dell'esistente, operato dalla Regione Emilia-Romagna e perseguito dalla Amministrazione penitenziaria, secondo quanto si rileva dalla audizione in Parlamento del suo direttore generale, non possono portare alla soluzione del problema, per l'insanabile contrasto tra il duplice fine perseguito ( custodialistico e terapeutico ) e gli strumenti, giuridici e materiali a disposizione, trattandosi di strumenti pensati ed attuati in un diverso contesto e con un diverso fine.
  2. Quel disegno di legge tendeva sostanzialmente a riportare coerenza nel sistema, armonizzando la disciplina penalistica alle novità introdotte, sul piano terapeutico, dalla legge Basaglia. Il dato di partenza era costituito infatti dalla concezione della infermità mentale come stato patologico transitorio, come tale curabile e in qualche caso anche sanabile, e dalla conseguente abrogazione della nozione di incapacità di intendere e di volere. In particolare, il disegno equiparava il soggetto infermo di mente che commette reati a chi commette reati in stato di ubriachezza, di stupefazione o in stato emotivo e passionale. Esso prevedeva, altresì, la abrogazione della pericolosità del malato di mente autore di reati e, conseguentemente, delle misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia. La conseguenza di queste due abrogazioni erano inevitabili: per l'infermo di mente non più misure di sicurezza ma le stesse pene previste per gli altri. Il problema dell'infermo di mente autore di reati si spostava dalla fase di cognizione alla fase della esecuzione e qui si prospettavano piani di cura all'interno e all'esterno del carcere, la creazione all'interno del carcere di sezioni attrezzate, non diverse da quelle poi attuate nei confronti dei malati di AIDS, un ricorso più ampio alle misure alternative alla detenzione, con attenzione mirata ad un trattamento individualizzato ( da notare che il settore delle misure alternative non aveva, all'epoca della proposta, il rilievo che esso ha attualmente, sotto il profilo normativo e sotto il profilo applicativo ).
  3. Questa proposta, come si è rilevato, ha suscitato reazioni negative, variamente ispirate, e non ha trovato, in ogni caso, un convinto sostegno neppure nell'area politica alla quale appartenevano i parlamentari che l'avevano presentata. Così, quasi senza dibattito, la proposta stessa si è rapidamente arenata. Le critiche che si conoscono, provenienti dal mondo scientifico, in verità non sembrano convincenti. Il prof. Gatti, noto studioso della materia, riconosce, ad esempio, che il sistema richieda una radicale trasformazione, condivide l'opinione che gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari siano strutture arcaiche, repressive e antiterapeutiche, contesta la serietà scientifica di una valutazione clinica della pericolosità sociale, ma ritiene che non si possano raggiungere finalità di responsabilizzazione del soggetto infermo di mente, autore di reati, " attraverso una artificiosa e rigida affermazione di una sua piena capacità di intendere e di volere". Il prof. Bandini, altro noto studioso, si colloca sostanzialmente sulla stessa linea, ma rivolge al disegno di legge critiche più radicali, sostenendo in particolare che il trasferimento della valutazione psichiatrica dal momento dei fatti al momento della esecuzione della pena, "innesca tutta una serie di pericolose dinamiche, difficilmente controllabili, che possono portare i detenuti a simulare la malattia mentale, a enfatizzare disturbi psichici, addirittura a contrarre vere e proprie infermità psichiche, analoghe in qualche modo alle cosiddette sindromi da indennizzo". Bandini, nell'articolo citato, dopo queste sue critiche - che, in verità, non hanno alcun contenuto specifico, prestandosi la situazione attuale ad analoghi rilievi - individua due possibili soluzioni al problema. La prima, proposta da un gruppo di operatori psichiatrici ad un convegno svoltosi ad Arezzo nel 1979, prevede, insieme al mantenimento della nozione di non imputabilità, la soppressione degli O.P.G. e l'affidamento dei soggetti infermi di mente, autori di reati e riconosciuti non imputabili, alle normali strutture sanitarie, attraverso l'intervento di un organo giudiziario non penale. La seconda soluzione, è quella di prevedere comunque una sanzione penale, anche se attenuata, per il reo infermo di mente. Questa seconda soluzione, si avvicina a quella contenuta nel disegno di legge n.177/83, ma se ne differenzia notevolmente, secondo Bandini, "in quanto colloca la valutazione della imputabilità al momento dei fatti, ai fini della concessione di benefici piuttosto che l'accertamento della malattia mentale durante la esecuzione della pena".
  4. Le opinioni critiche che sono state esposte, risalgono ad una epoca di poco successiva alla pubblicizzazione del disegno di legge. Da esse si rileva che i suoi estensori condividono sostanzialmente le valutazioni negative sul sistema vigente espresse nel disegno, condividono altresì la proposta di abolizione dell' O.P.G., riconoscono priva di fondamento la valutazione clinica di pericolosità sociale, ma si rifiutano di trarre, da quelle valutazioni e da quel riconoscimento, le conseguenze ad essi strettamente connesse. Non sappiamo se quegli illustri studiosi, a distanza di alcuni anni da quelle loro critiche, abbiano cambiato opinione. Certamente, i fatti sono andati nelle direzione contraria ai loro auspici. Gli ospedali psichiatrici continuano a esistere e le proposte di renderli più piccoli e funzionali sono proprio quelle soluzioni di compromesso che si paventavano e si volevano evitare, i giudici continuano sostanzialmente a delegare al perito psichiatra la scelta del ricovero o meno dell'infermo di mente nell'ospedale psichiatrico giudiziario, affidandogli impropriamente, insieme al quesito sulla sua eventuale incapacità, anche quello sulla sua eventuale pericolosità sociale, i periti più impegnati a livello giudiziario, continuano a rispondere al quesito, nonostante il generale consenso della scienza psichiatrica sulla mancanza di valenza scientifica di tale valutazione, gli infermi di mente, riconosciuti non imputabili e pericolosi, continuano a finire negli ospedali psichiatrici giudiziari, sulla base di una valutazione priva di dignità scientifica, ma del tutto rispondente alle aspettative dei giudici, della opinione pubblica e, talvolta, dei loro stessi parenti, che sperano così di risolvere, liberandosi di un congiunto scomodo, anche i loro comprensibili problemi ( certamente esistenti, ed inoltre aggravati dalla generale inefficienza del servizio pubblico ). Oggi sussistono i presupposti per risolvere il problema alla radice, tenendo conto dell'esito infelice del tentativo di risolverlo razionalizzando il sistema esistente, degli indubbi progressi realizzati per la attuazione dei nuovi principi in materia di cura e dall'ampio spettro assistenza degli infermi di mente ( anche se l'obbiettivo perseguito è ancora lontano ), degli spazi aperti, sul piano di un eventuale trattamento penale degli infermi di mente autori di reati, delle misure alternative alla reclusione, previste attualmente dall'ordinamento penitenziario ( ed altre si possono introdurre sulla scia di quelle esistenti ), tenendo conto, infine, della attuazione all'interno degli istituti penitenziari di sezioni speciali riservati a particolari tipi di malattia.
  5. La situazione sopra sinteticamente descritta spiega perché sia stato recentemente riproposto un disegno di legge che ricalca le linee essenziali di quello presentato nel 1983. Il disegno di legge, come si è già accennato in nota, porta la firma del deputato Corleone, è stato presentato nella XII legislatura e ripresentato nella legislatura successiva, il 9 maggio 1996. A livello propositivo, la relazione prospetta le stesse soluzioni di cui al disegno di legge n. 177/83, nella relazione espressamente richiamata: imputabilità del malato di mente autore di reati, trattamento penale differenziato in carcere, misure alternative alla detenzione. In definitiva, non esistono punti di contrasto tra i due disegni di legge, tra di essi si rilevano soltanto marginali differenze terminologiche. Nel progetto Corleone, si trovano inoltre gli aggiornamenti conseguenti alle modifiche nel frattempo intervenute nella normativa penale, processuale e penitenziaria.

Osservazioni conclusive.

1. Dalle considerazioni svolte, appare che la linea tracciata nei due disegni di legge richiamati, quello presentato nel 1983 e quello pendente attualmente alla Camera dei deputati, sia attualmente l'unica che consenta, attraverso il riallineamento del sistema penale al sistema civile, di dare una risposta coerente al problema del che fare di fronte agli infermi di mente autori di reati più o meno gravi. Una osservazione peraltro si impone, per consentire di portare a compimento un progetto di soluzione del problema di fondo, destinato a trovare ostacoli lungo la strada della sua realizzazione. La osservazione si appunta, per ragioni metodologiche, sull'articolato del disegno Corleone, l'unico oggi, per la sua attualità, al centro dell'attenzione. Essa riguarda la visione settoriale del problema delle misure di sicurezza, che si riscontra in quegli articoli che tendono ad abrogare soltanto le misure di sicurezza relative agli infermi di mente. Questa impostazione, che sostanzialmente si risolve nel mantenimento di tutte le misure di sicurezza al di fuori di quelle previste per gli infermi di mente, si pone in singolare simmetria con quella che si ravvisa nello schema di riforma del codice penale, che tende invece ad escludere tutte le misure di sicurezza dal nostro ordinamento, al di fuori di quelle previste per i soggetti non imputabili (tra di esse, rientrano ovviamente quelle previste per gli infermi di mente). Lo schema predetto risale al 1992 ( risulta pubblicato in Documenti Giustizia n.3 del marzo 1992 ), più recentemente, un progetto di riforma dell'ordinamento penitenziario si colloca sulla stessa linea e prevede espressamente l'abrogazione di tutte le misure di sicurezza, ad eccezione di quelle relative agli infermi di mente.

2. Di fronte a queste contrastanti tesi, tendenti ad eludere il nodo del problema, si impone la esigenza di una risposta globale. La proposta di ridurre le misure di sicurezza alle ipotesi relative agli infermi di mente, contenuta nello schema del nuovo codice e nel progetto dei magistrati milanesi, e quella, contraria, di escludere soltanto quelle ipotesi, contenuta nel progetto Corleone, appaiono espressione di uno stesso equivoco concettuale. Nell'uno e nell'altro caso, infatti, non ci si rende conto che il problema non è quello di limitare le misure di sicurezza ad alcune ipotesi, rispetto a quelle attualmente previste, ma di verificare se il concetto di pericolosità sociale che è alla base di esse, e il sistema del doppio binario, che ne è la inevitabile conseguenza, abbiano ancora una loro valenza ed una loro reale utilità. La Costituzione, come è noto, recepisce ma non impone il sistema attualmente vigente, certamente ha fissato dei caratteri e dei limiti alle misure di sicurezza, che hanno finito per sgretolare il vecchio sistema ed hanno seriamente posto il problema della necessità o meno della loro sopravvivenza. Senza entrare nel merito del dibattito che ha diviso la dottrina in passato sulla valenza in astratto delle predette misure, si può osservare, in concreto, che la vera e propria rivoluzione attuata nel sistema delle pene, dopo quel lungo dibattito e dopo l'entrata in vigore della Costituzione, in particolare il passaggio dalla nozione di pena rigida a quella di pena flessibile e la correlata introduzione nel sistema di una vasta gamma di pene alternative, hanno reso privo di alcun significato il mantenimento delle misure di sicurezza. I contrastanti progetti che sono stati sopra-riferiti, tendenti a mantenere o a escludere le misure di sicurezza soltanto per gli infermi di mente, paradossalmente vengono a convergere, di fatto, sul dato della loro inutilità. La conclusione che si trae dalla proposta osservazione è questa: nel nostro sistema, dopo le radicali modifiche attuate nel sistema delle pene, non vi è più spazio per misure di sicurezza di qualsiasi tipo.

3. Ultimo problema, in ordine espositivo ma non per importanza, riguarda il "che fare" nella fase procedimentale, quando ci si trovi di fronte ad una persona, indagato o imputato, che non sia in grado, per le sue condizioni psichiche, di partecipare coscientemente al processo. Non sussiste il minimo dubbio, per ragioni elementari di giustizia, che in questo caso non si possa procedere, al di fuori della ipotesi in cui si debba pronunciare, nei confronti del soggetto, una sentenza di proscioglimento che non comporti per lui conseguenze negative, di alcun tipo. Sotto questo profilo, appare interessante, per le sue implicazioni, un confronto tra la situazione attuale e quella prospettata nel disegno di legge in esame.

  1. Nella situazione attuale, il problema normalmente non si pone per chi è stato riconosciuto affetto, al momento del fatto, da vizio parziale di mente, si pone invece per chi è stato riconosciuto affetto da vizio totale, ma non in tutti i casi, non ad esempio quando la infermità allora rilevata non persista al momento del processo e neppure quando persista, se l'imputato è comunque in grado di rendersi conto di quel che sta avvenendo nei suoi confronti. Al centro della attenzione, ai fini della procedibilità della azione, la normativa vigente non pone infatti la imputabilità del soggetto, che ha rilievo in sede decisoria, ma la idoneità o meno del soggetto stesso a partecipare coscientemente al processo. Quando non vi sia questa idoneità, e si tratti di inidoneità dovuta a infermità mentale, infermità risalente o sopravvenuta, il processo è sospeso. Con la sospensione, il giudice può oggi adottare, in via di urgenza, il provvedimento cautelare indicato nell'art. 286 c.p.p., e cioè la misura della custodia cautelare in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero, in sostituzione della custodia in carcere, quando le condizioni di salute particolarmente gravi dell'indagato non consentano le cure necessarie in stato di detenzione. Nella prassi giudiziaria, in verità, questa misura viene disposta assai raramente, preferendosi applicare provvisoriamente all'infermo di mente, già nella fase delle indagini preliminari, la misura di sicurezza del ricovero in O.P.G. ( art. 312 c.p.p. ), ravvisandosi quasi sempre, per le ragioni esposte, la sua pericolosità sociale ( residuo strisciante, ma diffuso, della nozione abrogata di pericolosità presunta). Il ricovero, in questa fase, ha carattere provvisorio, ma può protrarsi indefinitamente, se persiste la pericolosità del soggetto e la sua inidoneità a partecipare coscientemente al processo.
  2. Nel progetto Corleone, è prevista ugualmente ( art.10, che modifica l'attuale art. 70 c.p.p.) la sospensione del procedimento "quando l'imputato a causa di infermità psichica non sia in condizione di partecipare al processo, se non derivandone pregiudizio alla salute". Con la sospensione, peraltro, il giudice non può adottare alcuna misura autoritativa, ma deve limitarsi ad informare l' autorità competente "per la adozione delle misure previste dalle leggi sulla assistenza sanitaria".

  1. La differenza tra le due situazioni assume un rilievo marcato e qualificante. Come si è sottolineato, la soluzione oggi più comunemente adottata, in casi del genere, è quella del ricovero provvisorio dell'infermo di mente in O.P.G., ex art. 312 c.p.p., ricovero che può protrarsi indefinitamente, se persistono la sua pericolosità e la sua inidoneità a partecipare coscientemente al processo. Nel progetto Corleone, invece, negli stessi casi, non è prevista alcuna misura autoritativa del giudice, ma soltanto la informazione alla autorità competente "per la adozione delle misure previste dalle leggi sulla assistenza sanitaria". Il confronto tra le due situazioni, dà il segno della diversa logica di fondo. La normativa attuale, rivela l'intento del legislatore di perseguire come suo primo obbiettivo quello della difesa sociale, attraverso il ricovero provvisorio, e indefinito, dell'infermo di mente, che non sia in grado di partecipare coscientemente al processo, in O.P.G.. La normativa proposta, apparentemente più severa prevedendo la imputabilità del soggetto, persegue come suo primo obbiettivo quello di salvaguardare la salute e la dignità del soggetto stesso, escludendo la possibilità di qualsiasi misura punitiva nei confronti di un infermo di mente fino a quando egli non sia in grado di difendersi, partecipando coscientemente al processo.
  2. In definitiva, la soluzione qui prospettata nei suoi diversi aspetti, alla domanda del "che fare" nei confronti dell'infermo di mente autore di un reato, consente di raggiungere due obbiettivi, senza inutili forzature e senza incidere sui principi costituzionali che regolano la materia dei delitti e delle pene:

  1. l'obbiettivo di salvaguardare le esigenze di sicurezza collettiva, dando una risposta penale adeguata al delitto commesso da una persona affetta da disturbi psichici, nel momento in cui la stessa manifesta spazi di coscienza e responsabilità e sia in grado di avvertire il peso della sanzione (situazione che si verifica molto più frequentemente di quanto si ritiene, tanto da potere ragionevolmente ipotizzare, in termini numerici, assai limitati, in concreto, i casi di sospensione del procedimento);
  2. l'obbiettivo, non contrastante con quello di cui sopra, di salvaguardare le esigenze di cura del soggetto attraverso un trattamento penale fortemente individualizzato che preveda, secondo le diverse esigenze, la detenzione in carcere (eventualmente in sezioni specializzate distrettuali), la detenzione domiciliare, l'affidamento al Servizio di Salute mentale ed altre possibili misure alternative, nel quadro degli interventi che caratterizzano oggi, nella fase della esecuzione e sotto il segno della legalità, la risposta penale ai fenomeni criminosi.
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