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Paola Monaci (a cura di), Tossicodipendenza e immigrazione. Un approccio psicosociale, L’Harmattan Italia, Torino 2002, EURO 18,59

Paola Monaci ha curato un testo importante nel panorama attuale dei servizi per le tossicodipendenze (ma direi per tutti i servizi), offrendoci importanti spunti per una riflessione culturale, nel senso antropologico del termine, attorno al fenomeno della migrazione.

Non c’è bisogno di sottolineare come il fenomeno della migrazione caratterizzi la contemporaneità e provochi interrogativi e risposte operative che spesso non sono basate su analisi scientifiche ma su pregiudizi e demagogie.

Questo libro, al contrario, fonda su basi analitiche un "approccio psicosociale" – come recita il sottotitolo – assolutamente indispensabile per affrontare con cognizione di causa un intervento in questo campo.

Anche in Italia – credo sia importante ricordarlo – gli operatori del campo delle tossicodipendenze (soprattutto quelli che lavorano in carcere) hanno ormai avuto a che fare con il fenomeno dei migranti.

E’ ormai nota la situazione di carceri affollate di migranti accusati di spaccio di sostanze stupefacenti o di altri reati. Qui ci sono le prime richieste di intervento e di trattamento e si presentano problemi difficili da risolvere: ad esempio quello della clandestinità.

E’ evidente che nell’area della clandestinità si producono dipendenze patologiche da eroina o da cocaina che non arrivano ai servizi.

Solo il fatto acuto – l’overdose o talora la psicosi da cocaina – può arrivare al pronto soccorso di un ospedale, ma poi gli strumenti per la costruzione di un progetto di intervento sono carenti.

Nel suo libro Paola Monaci ci descrive dettagliatamente le politiche di intervento europee e nordamericane nei confronti dell’immigrazione ed indica alcune modalità di intervento che potrebbero diventare linee-guida nei confronti dei migranti tossicodipendenti.

Questa parte del libro è particolarmente interessante: in particolare la differenza fra la tipologia di intervento del "Race and Drug Project ", basato sul modello del "Race Equality Approach" di matrice inglese ed in modello etnopsicoanalitico diffuso in Francia da Devereux e continuato da Thobie Nathan.

Il primo modello critica i concetti di razza , etnia e cultura dal punto di vista, a me sembra, dell’interazionismo simbolico. Infatti si sostiene che questi concetti sono un prodotto della interazione umana e non forme naturali che esistono indipendentemente dalla cultura.

In questa ipostazione l’etnia è una costruzione simbolica che può essere imposta dall’esterno e produrre i comportamenti attesi.

Come è noto, un concetto sviluppato dalla scuola sociologica di Chicago e sviluppato dalla etnometodologia è il concetto di "indessicalità": concetto che ci dice che le identità non esistono a priori ma sono il risultato di una interazione in una situazione data.

Così dunque i programmi di intervento del "Race Equality Approach" non utilizzano categorie etniche nelle ricerche ma piuttosto si focalizzano su altri aspetti quali il razzismo e le pratiche di discriminazione sociale. E’ un po’ l’approccio di J.P.Sartre quando diceva:

"non è l’ebreo che crea l’antisemita, ma l’antisemita che crea l’ebreo".

Questo approccio ha portato alla definizione del progetto "Race and Drug" avviato nel 95 in quattro stati europei (Francia,Portogallo,Inghilterra e Olanda) per organizzare pratiche di pari opportunità nei servizi pubblici. Si tratta di un progetto di ricerca-intervento a cui ha partecipato anche la città di Reggio Emilia.

Il secondo modello di intervento permette di affrontare anche il livello clinico della problematica che, secondo Paola Monaci, non è ben considerato nel primo modello.

Si tratta dell’orizzonte etnopsichiatrico elaborato da G.Devereux e successivamente sviluppato e modificato da Thobie Nathan.

Questo approccio, quello di Nathan, parte dalla considerazione che i soggetti sono "fabbricati" dalla cultura di appartenenza, che produce il soggetto ed anche una specifica psicopatologia con una particolare forma terapeutica.

L’assunto di Nathan è che se una migrante del Magreb soffre per quella che lui pensa essere un attacco di djinn è inutile e pericoloso tradurre questo attacco nelle forme della psicopatologia occidentale ed ipotizzare ad esempio una paranoia.

Questa operazione – con la conseguente somministrazione, ad esempio, di un neurolettico – non farà altro che confondere il quadro del soggetto, che peggiorerà.

A suo avviso è necessario un dispositivo diagnostico molto elaborato, con la presenza di terapeuti tradizionali per proporre un percorso terapeutico specifico per la crisi di quella specifica soggettività. La terapia si dovrà avvalere di rimedi tradizionali ed in qualche caso si potrà proporre il ritorno nella terra di provenienza per effettuare la cura necessaria.

Come si vede si tratta di un approccio che non può essere criticato per eurocentrismo.

Tuttavia, a mio avviso, questo approccio può essere una sofisticata manipolazione della problematica del migrante.

Mi sembra che l’assunto della soggettività come il risultato di una "fabbricazione" sia quanto meno debitore al concetto di codificazione utilizzato da Deleuze e Guattari ma, mentre per gli autori di Millepiani, la decodificazione, ossia la fuga dalla cultura di appartenenza, è un processo di liberazione della produzione desiderante verso un orizzonte in costruzione, per Nathan la decodificazione necessita di essere di nuovo ricodificata nel vecchio codice di appartenenza.

Grave errore. Il migrante che ritorna malato e sconfitto alla propria mitica terra di appartenenza ci segnala la punizione dell ’ybris, e cioè la colpa di avere abbandonato per un sogno la propria terra. La ricodificazione in senso nettamente subalterno nella comunità che era stata abbandonata per cercare un altrove presuppone un concetto culturale di etnia immodificabile: quasi una struttura originaria, matrice dell’identità.

E’ invece possibile un'altra via, evidente nella produzione di culture meticcie ma anche di sottoculture che permettono il mescolamento e la fabbricazione di altre soggettività.

Da questo punto di vista penso a progetti di prevenzione non totalmente istituzionali che nel libro non ci sono.

Mi riferisco ad esempio ad interventi in collaborazione con il movimento Hip Hop o a interventi di ricerca-azione con i ravers e con tutti quei movimenti di migranti e di culture giovanili che non ricercano il "fondamentalismo" dei padri mitici ma che costruiscono o provano a costruire "la comunità che viene".

Questo libro di Paola Monaci mi sembra essenziale per avviare una discussione culturale e per produrre ricerche-azioni nei servizi e nella società.

Un bel modo per iniziare questa discussione sarebbe presentare il libro con un dibattito.

Leonardo Montecchi

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