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Matt Ridley : Il gene agile. La nuova alleanza fra eredità e ambiente. Adelphi, Milano, 2005, pp 483, 28 Euro

Questo saggio, all’insegna di una sorta di biologismo ecumenico, ha l’ambizioso proposito di porre fine ad ogni diatriba tra i sostenitori delle contrapposizioni tra innato ed acquisito, determinismo e casualità, eredità e ambiente.

Anche se l’autore spazia a tutto campo tra argomenti di etologia, psicologia, psichiatria, neurobiologia, evoluzionismo, biochimica metabolica e genetica, il protagonista è sempre il gene, tema centrale della speculazione biologica, ma anche in fondo di quella filosofica. Il gene viene definito, di volta in volta, come entità "che ha delle inclinazioni", archivio mendeliano, ricetta biochimica per la sintesi proteica e, più in generale, dispositivo per ricavare informazioni dall’ambiente. Sono inoltre importanti le sue precisazioni di ciò che il gene non è: le grossolane semplificazioni relative a presunti geni dell’omosessualità o della criminalità sono contestate in modo radicale e convincente.

L’influenza dell’ambiente sugli organismi è reversibile, ma quella dei geni non lo è e mentre i geni "sono alla mercè del nostro comportamento", l’inverso non è vero. Si sa che le diverse specie sono prodotte, almeno in parte, da combinazioni diverse di geni molto simili tra loro, mentre, per esempio, è noto che ben il 95% del nostro genoma umano è simile a quello degli scimpanzè. Che la natura umana sia il risultato dell’interazione tra geni ed ambiente è comunque sostenuto sia da biologi deterministi che da biologi anti-deterministi. Anche i geni sono "immersi nella causalità circolare" e se essi sono alla mercè delle azioni, è però vero anche l’inverso. Questa, come le precedenti, sono affermazioni di Ridley che cita gli studi sperimentali più diversi, da quelli sui gemelli, a quelli sulle arvicole, sulle scimmie antropomorfe, sui moscerini, sui vermi, sui topi, alternando dati scientifici con aneddoti divertenti ed annotazioni semiserie. Ai creazionisti, per esempio, è certamente dedicata la sua ironica ipotesi di un dispositivo organizzzatore del genoma ( Genome Organizing Device ), indicato con l’acronimo GOD, responsabile della costruzione di un cervello capace di esprimere un istinto.

Nelle molte pagine dedicate alla funzione mentale egli ricorda che, a partire da Kraepelin, la classificazione dei pazienti psichiatrici non si basa sui sintomi della loro malattia, nè su dettagli neuroanatomici, ma si costruisce a partire da una storia personale. In psichiatria non si può infatti parlare di cause ed effetti ed occorre considerare su un piano paritetico geni ed ambiente: gli effetti dei geni non sono separabili da quelli dell’ambiente in quanto la psiche "emerge" in modo imprevedibile dal processo dello sviluppo.

Molte attenzione viene riservata a utopie ed utopismi, in quanto mettono precipuamente in gioco la contrapposizione tra eredità ed ambiente, tenendo conto che, se il libero arbitrio è perfettamente compatibile con un cervello minutamente pre-specificato e controllato dai geni, l’ambiente conta quanto i geni.

Ridley deve certamente condividere la concezione per cui le ideologie sono deformazioni grottesche e talvolta tragiche delle idee se, come afferma, l’eugenetica si è prestata a giustificare il razzismo nazista, e la fallace dottrina dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti di Miurin e Lysenko, contrapposta al mendelismo, ha affossato per un lunghissimo periodo la ricerca biologica in URSS.

La tesi di base di Ridley, espressa reiteratamente in tutto il suo libro, è che in realtà "l’ambiente influenza gli individui attraverso i geni" e gli animali si evolvono regolando l’attività genica attraverso influenze ambientali.

Dal gene arcideterminista e rigido — "inténsement conserevateur, fermé sur soi-même, et absolument incapable de recevoir quelque enseignement que ce soit du monde extérieur", come lo definiva Monod nel suo celebrato saggio Le hasard et la nécessité del 1970 — si è arrivati al gene agile che supera la contrapposizione nature/nurture. Si pensa cioè oggi, e tutto il libro di Ridley lo documenta, che la nature si esprima attraverso la nurture (nature via nurture).

Non tutto è nei geni, nè tutto sta nell’ambiente. Ma oggi, più di mezzo secolo dopo la scoperta della doppia elica, dai due poli di una contrapposizione dialettica è emersa una nuova sintesi che sembra più adatta di ogni contrapposizione a risolvere l’enigma della natura umana che tanto ha affascinato letterati e scienziati della nostra modernità.

La determinazione della struttura del DNA ha prodotto inizialmente l’idea che tale struttura fosse rigida e che a questa rigidità strutturale dovesse corrispondere una rigidità funzionale. Tutto sembrava suggerire un modello ingegneristico di sistema che opera meccanicamente, come un orologio. In realtà, si affermò gradualmente l’idea alternativa che esso fosse invece flessibile. Gli orologi di una simile analogia potevano essere solo quelli surrealisti e ameboidi di Salvador Dalì, la cui funzione non può avere nulla, o ben poco di meccanico.

Certo è che, per chi — come lo scrivente — all’epoca del saggio di Monod sosteneva posizioni anche moderatamente antideterministe e veniva considerato quasi come un pericoloso sovversivo, le concezioni attuali sono particolarmente benvenute e, in certo senso, liberatorie.

Come spesso accade, una traduzione letterale del titolo inglese del testo — Nature via nurture. Geni, esperienze e quello che ci fa umani — rifletterebbe molto più esattamente del titolo italiano il contenuto del libro di Ridley, che riguarda somiglianze e differenze tra noi e gli animali, oltre al fatto che nella mente umana si possono trovare, tra le altre cose, l’evoluzione di Darwin, l’eredità di Galton, gli istinti di James, i riflessi di Pavlov, la storia di Kraepelin, l’esperienza formativa di Freud, la divisione del lavoro di Durkheim, lo sviluppo di Piaget, l’imprinting di Lorenz e la cultura, mescolate le une alle altre.

L’esposizione è scorrevole e chiara anche se riporta i molti e complessi dati dell’ultima biologia molecolare, la cui frontiera è, e sarà per lungo tempo, la decifrazione dell’espressione genica, ovvero l’organizzazione altamente complessa delle procedure con cui si attua il passaggio dalla codificazione genetica alla costruzione del fenotipo.

Temi ricorrenti del discorso di Ridley sono l’antinomia tra innato ed acquisito, la relazione tra istinti e ragionamento, i rapporti tra somiglianze e differenze, il paragone tra uomo ed animali, i determinanti o, meglio, i correlati biochimici dei comportamenti anche più complessi come l’innamoramento, la natura dell’apprendimento e quella della cultura. Divertenti sono, tra le altre, le divagazioni sul mito del QI e sulle correlazioni tra dimensioni dei testicoli o del pene e la presenza di un recettore cerebrale collegato alle funzioni olfattive.

Il risultato più importante degli studi sulle relazioni tra biochimica e comportamento è forse la definizione che differenzia il cosiddetto "genotipo codificato" trasmesso per eredità dal "genotipo effettivo", che è il prodotto dello sviluppo dell’interazione sociale.

Nelle parole con cui si conclude il libro di Ridley, i geni sono definiti come "quintessenza della sensibilità", cioè come "mezzi con cui gli organismi possono essere flessibili, i vassalli stessi dell’esperienza. La contrapposizione nature versus nurture ha fatto il suo tempo. Lunga vita, dunque, a nature via nurture, l’alleanza tra geni e ambiente".

Come si vede, molto è cambiato rispetto alle concezioni iniziali della biologia molecolare in cui si parlava di dogmi centrali e forse ancora più cambierà quando si diraderanno le nebbie dell’ignoranza che occultano la comprensione di gran parte dell’effettiva funzione genica.

Un libro che vale la pena di leggere e di meditare.

Lauro Galzigna

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