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Le visioni di uno psicoanalista di Giuseppe Riefolo, 2006, Antigone Edizioni, Torino, 13 euro.

In questi ultimi anni, le pubblicazioni e le produzioni video sul cinema e sui suoi rapporti con la psiche si sono arricchiti di contributi significativi, l’interesse per questo campo è in continua evoluzione ed è caratterizzato da grande vivacità.

In questo ambito, valgono in particolare la pena di essere lette, "le visioni" di Giuseppe Riefolo, psichiatra e psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana, autore tra l’altro, con Paolo Boccata, di cortometraggi. Si tratta di una raccolta di testi narrativi che avvolgono il lettore in una particolarissima atmosfera dove si "vedono" intrecciare storie di film e storie di persone, del paziente e dell’analista, e nel contempo si sentono evocare teorie psicoanalitiche e riferimenti letterari.

Parte di questi testi sono elaborazioni di lavori già pubblicati in alcuni siti web e riviste, ma la loro "visione" d’insieme permette di connetterli tra loro in un intreccio di storie e riflessioni che rendono conto dell’evoluzione del pensiero dell’Autore e si arricchiscono reciprocamente. Ognuno di essi è introdotto e spesso si conclude con citazioni tratte da opere di psicoanalisti, di poeti e scrittori (da Freud a Bion, da Proust e Rimbaud a Calvino, solo per citarne alcuni), che ne impreziosiscono il contenuto. Un altro loro pregio è che le trame dei film non sono raccontate all’interno dei lavori, ma sintetizzate in schede riportate alla fine del libro, cosicché per chi ha visto il film la lettura diventa particolarmente scorrevole, e per chi non l’ha visto induce la curiosità a farlo (e può comunque andare a leggersi la trama).

Il termine "visioni" usato nel titolo, rimanda, letteralmente, a diversi significati: dalla percezione di stimoli luminosi, all’osservazione accurata per ricavare informazioni utili, al significato di "idea", alla percezione miracolosa o al frutto di un’allucinazione mentale; può avere un senso ironico, a proposito di fantasticherie o idee utopistiche, può riferirsi ad una apparizione veritiera, contrapposta al sogno (come nelle tragedie greche) o al sogno stesso, nel senso di Artemidoro o, infine, ad uno spettacolo di incomparabile bellezza. Ma è una parola che si riferisce specificamente anche ai film, anche se ormai i cinema di "seconda visione", quelli con le sedie di legno o di velluto rosso scomode, non esistono quasi più.

Il titolo allude quindi ad una serie di significati, che confluiscono negli scritti di Riefolo con grande "leggerezza". Quella leggerezza "della pensosità" che richiede vivacità e mobilità dell’intelligenza, passione e consistenza, che richiede l’esperienza del peso della concretezza delle cose, dei corpi e delle sensazioni, di cui mirabilmente ha scritto Italo Calvino.

Riefolo ha una sua particolare originalità nel trattare di cinema, per questo autore non è interessante valutare che un film "sia buono o meno" (p. 55), non va al cinema per farsi "raccontare" storie, né tanto meno per "trovare riscontro alle categorie psicoanalitiche: "L’appuntamento con il film mi serve per scoprire un mio proprio film che non sapevo di possedere e che il film dello schermo ha autorizzato attraverso infinite risonanze" (p. 12). Andare al cinema diventa quindi "l’incontro con infinite immagini che sono di un altro, ma che avranno senso solo perché toccheranno mie potenziali immagini" (p.11).

Ed è quello che, secondo Riefolo, accade nell’incontro tra analista e paziente, potenzialmente già lì insieme ad infiniti altri, così come le scene che sgorgano dal campo dell’analisi erano già lì, e che possono diventare testimoni delle infinite potenzialità della mente e degli incontri, ridonando senso e fiducia. Queste scene possono anche chiamarsi sogni, se le intendiamo come la felice possibilità di osservare le cose da nuovi ed insoliti vertici e ci rendono possibile appropriarcene, per dare nuovi significati alla nostra storia e a quella delle persone con cui condividiamo la nostra esistenza.

Gli occhi di ognuno di noi sono rivolti alle immagini filmiche ed alle voci che le animano, l’attenzione rimane fluttuante, ugualmente distribuita sulla superficie dello schermo, ma si sorprende pronta ad agganciarsi a quell’immagine, a quella scena, a —perché no? — a quel sogno che attrae perché si aggancia a ad uno schermo interiore, dove ne è già impressa un’impronta.

Il film propone ad un’immagine che rimanda ad un’altra, e si integrano in un senso complessivo i contenuti di entrambe.

Riefolo sembra quindi utilizzare i film come costruzioni metaforiche, che sottendono l’incontro tra visioni e pensieri operanti contemporaneamente, la cui interazione può mutare dinamicamente significati e mettere in luce nuovi aspetti.

I titoli dei lavori non corrispondono ai titoli dei film a cui si ispirano, non sempre è la visione di un film ad evocare la propria storia personale o quella di un paziente, ma può accadere che sia il discorso dell’analista o del paziente a rimandare a quelle scene viste al cinema, che consentono di avvicinarci in modo diverso al paziente e alle nostre stesse emozioni, con rinnovata curiosità e possibilità di comprensione.

Questo aspetto è tanto più importante per il fatto che Giuseppe Riefolo lavora anche nella cosiddetta "Istituzione", nell’ambulatorio dei Servizi Psichiatrici e, attraverso i pazienti, ha contatti con i Reparti di Diagnosi e Cura, i Day Hospital e le varie "strutture intermedie", dove la possibilità della "visione" viene troppo spesso offuscata dalla pesantezza di concrete e difficili realtà, dove "la riflessione sui cambiamenti e su chi deve promuoverli" (p. 148) è un’emergenza quotidiana.

L’autore ci conforta sul fatto che anche in quei luoghi di cura, non solo nella stanza d’analisi, grazie alle risonanze che le immagini filmiche possono avere dentro di noi, è possibile portare e trovare qualcosa che ha "significato e sentimento di sogno" (Winnicott, 1971).

Elisabetta Marchiori

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