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La sfida del paziente informato

Come cambia il vocabolario relazionale dei medici nella società dell'informazione

Sergio Manghi

[L’articolo di Sergio Manghi, inedito, che qui presentiamo ai lettori di POL.it, verrà inserito nel seguente volume di prossima pubblicazione:

Alessandra Pozzi e Mattia  Toscani (a cura di), Forme dell'oralità e della scrittura nella  surmodernità, Unicopli, Milano, in corso di stampa]

Il fatto che il paziente sia più informato richiede da parte mia maggiori spiegazioni, richiede più tempo, tendo comunque sempre a spiegare molto.

Un medico di base

Le parole dei nostri discorsi di tutti i giorni sono solo magia attenuata.

Sigmund Freud

1. Il medico di fronte al paziente informato

La scena della cura, alla quale tutti noi prendiamo parte attiva momento per momento, si sta rapidamente trasformando. Ridurla alla diade microsociale medico-paziente, come un’abitudine antica c’induce ancora a fare, è ormai ingannevole. Più spaesante che appaesante. Ogni singolo evento della cura è ormai, sempre più visibilmente, il frutto di interazioni comunicative molto complesse, e a propria volta retroagisce su queste interazioni in modi complessi, spesso imprevedibili.

Gli attori in scena si moltiplicano: tipologie di pazienti sempre più differenziate e sempre più esigenti, categorie di medici a loro volta sempre più differenziate e specializzate, medicine complementari che s’intrecciano con quella tradizionale, titolari di tecnologie diagnostico-terapeutiche fattesi ormai reti capillari che vincolano fortemente le relazioni, familiari e parenti che affiancano variamente pazienti non autosufficienti, infermieri sempre più professionalizzati, nuove figure di sostegno psico-sociale e assistenziale, amministratori e dirigenti che immettono nel processo di cura parametri organizzativi e finanziari stringenti, fonti informative e mediatiche pervasivamente influenti, associazioni volontarie che tutelano e promuovono gli interessi dei pazienti, agenzie legali e assicurative sempre più implicate nella regolazione delle interazioni medico-paziente-familiari…

Ma non è solo una moltiplicazione delle figure implicate, a trasformare la scena della cura. È la trama costitutiva stessa della scena a mutare profondamente. A non potersi più descrivere secondo le ordinate architetture gerarchizzate che solo fino a pochi anni fa ci apparivano come naturali e intramontabili, con il medico-luminare al vertice, indiscusso. La trama quotidiana che fa la scena della cura appare sempre più come un flusso ininterrotto, e debolmente gerarchizzato, di interazioni sociali e interpersonali tra numerosi attori e codici comunicativi eterogenei.

I processi demografici, economici, tecnologici e culturali che hanno condotto a questa profonda trasformazione sono svariati, ma qui non possiamo occuparcene. In queste note ritaglieremo piuttosto un segmento circoscritto di questi processi. Ci soffermeremo, precisamente, sugli effetti che la diffusione crescente di informazioni biomediche produce sulle interazioni comunicative quotodiane medico-paziente-altri. Ancor più in dettaglio, focalizzeremo l’attenzione sui mutamenti che la nuova figura sociale del paziente informato produce nelle aspettative relazionali dei medici; su come i medici. Ci chiederemo pertanto come i medici tendano a rappresentarsi la dinamica dell’interazione comunicativa nella nuova scena della cura, e come tendano a rappresentarsi, dunque, la parte che a loro tocca svolgere in tale complessa dinamica. Il fuoco della nostra attenzione, espresso in forma di domande, potrebbe essere sintetizzato così: quali saperi relazionali e comunicativi guidano la percezione che i medici hanno delle loro esperienze interattive quotidiane? Quale "sociologia implicita" dell’interazione comunicativa presiede alle loro percezioni dei conflitti che sperimentano, degli atteggiamenti dei pazienti e degli altri soggetti coinvolti nel processo di cura, del proprio stesso modo di reagire ai mutamenti in corso?

Su queste domande cercheremo di ragionare, discutendo alcuni risultati di una ricerca svolta nella provincia di Parma tra il 2001 e il 2002, che ci ha condotto a intervistare 55 medici, 25 ospedalieri e 30 di base. Agli intervistati veniva chiesto di raccontare la loro esperienza interattiva quotidiana, in relazione a quattro ambiti: la diffusione dell’informazione biomedica di massa; la crescente sensibilizzazione verso il diritto alla salute; l’incalzante progresso tecnologico e il connesso proliferare degli specialismi; i recenti processi di aziendalizzazione dei servizi sanitari. I risultati principali di questa ricerca sono compendiati in un volume pubblicato di recente (Manghi, 2005°, 2005b; Manghi, Tomelleri, 2004;). Qui ci proponiamo di approfondire l’analisi, in particolare, del primo di questi ambiti: il diffondersi dell’informazione biomedica di massa; senza dimenticare naturalmente che nessuno degli ambiti elencati può essere meccanicamente scorporato dagli altri.

Il paziente informato è una figura sociale che tende sempre più a sovrapporsi alla figura del cittadino tout court, in quanto la questione della salute è ormai sempre più indistinguibile dalla più ampia questione del benessere (Ingrosso, 2004). Non è certo un caso se nei bilanci pubblici e nei programmi elettorali la spesa sanitaria è un capitolo sempre più centrale. Com’è stato osservato, la politica è sempre più biopolitica. I servizi sanitari hanno cessato da tempo di essere (se mai lo sono stati) servizi di portata settoriale, e sono ormai agenzie sociali che concorrono direttamente alla formazione della cittadinanza, alla formazione permanente di tutti noi. Interrogarsi pertanto sugli effetti che la figura sociale del paziente informato ha sulla dinamica interattiva dei processi di cura non è fare soltanto sociologia della medicina e della salute, ma anche, al contempo, sociologia tout court: sociologia dei nostri modi di rappresentare il mondo quotidiano in cui viviamo, e dei nostri modi di concorrere attivamente a fare di questo mondo quel che esso va diventando.

2. Considerazioni metodologiche

La ricerca di cui discuteremo, al fine di indagare sui saperi relazionali dei medici, si è concentrata sulle loro narrazioni delle loro esperienze interattive. In altri termini, si è concentrata sulle loro parole. Le parole degli intervistati, nell’analisi dei testi delle interviste, non sono state assunte come descrittori testimoniali di come le interazioni descritte si svolgono "realmente", ma come indizi di come i medici tendono a descriverle. Come espressione delle premesse date per scontate nelle loro descrizioni e nelle loro pratiche. Come "sintomi", potremmo dire, dei saperi relazionali che fungono spontaneamente da filtro nella loro percezione dei contesti interattivi in cui sono coinvolti.

Tale criterio metodologico è stato adottato a partire dall’ipotesi teorica, ormai ampiamente condivisa nell’ambito delle scienze sociali, che il linguaggio umano non sia un mero strumento per descrivere "neutralmente" il mondo cosiddetto "oggettivo", ma sempre azione volta a costruire e ricostruire il mondo di cui si è parte (Rorty, 1994; Fabbri, 1998). Attraverso tale ipotesi, assumeremo pertanto che le interazioni comunicative alle quali si partecipa prendano le forme che prendono, quali che esse siano, in funzione delle narrazioni che i partecipanti attivano di esse partecipandovi. Ovvero, in funzione dei saperi relazionali, largamente inconsapevoli, che i partecipanti si sono formati nel corso della loro vita passata e che continuano a formarsi e riformarsi anche nel corso delle loro interazioni presenti, co-ordinandosi ininterrottamente "dall’interno" con gli altri (cfr. Manghi, 2004).

Da questo punto di vista, naturalmente, anche le descrizioni che produrremo attraverso la nostra ricerca, ri-descrivendo sulla base delle nostre assunzioni teoriche le descrizioni fornite dai medici nei loro resoconti, sono da considerarsi interpretazioni attive, "manifatture" prodotte attraverso tali assunzioni, e non mere constatazioni "neutrali" (Latour, Woolgar, 1979).

Sul piano metodologico, dobbiamo ancora precisare che, in vista del rapporto di ricerca finora più completo (Manghi, 2005), il contenuto delle interviste deregistrate è stato analizzato attraverso due modalità differenti e coordinate. Da un lato, si è adottata l’interpretazione da parte dell’équipe di ricerca, analizzando ogni testo attraverso il confronto fra tre diversi ricercatori. Dall’altro, si è fatto ricorso a un programma informatico per l’analisi qualitativa del contenuto, denominato T-LAB (Lanza, 2004). In questa sede ci limiteremo ad alcuni risultati che sono stati ottenuti con quest’ultima modalità. Si tratta di risultati non inclusi, per ragioni estriseche al merito della ricerca (cioè allo scopo di ottenere una pubblicazione relativamente agile), nel volume in cui abbiamo compendiato gli esiti principali dell’indagine.

Tra le opzioni offerte dal T-LAB, abbiamo impiegato, in particolare, quella per l’ analisi delle corrispondenze, in quanto essa consentiva di esplorare i rapporti di mutua somiglianza e differenza lessicale tra i quattro diversi gruppi di medici in era suddiviso il campione dei 55 intervistati (cfr. supra, n. 1):

  • medici ospedalieri dei reparti di emergenza (chirurgie),
  • medici ospedalieri dei reparti di degenza,
  • medici di base di area urbana,
  • medici di base di area extraurbana.

Il lessico analizzato, ribadiamo per chiarezza, è il lessico con il quale i medici discorrono dei mutamenti introdotti nella pratica comunicativa quotidana dal diffondersi dell’informazione biomedica di massa.

Come evidenzia il graf. n. 1, ottenuto tramite il T-LAB, il lessico relazionale risulta:

- significativamente differenziato tra medici ospedalieri (O) e medici di base (B);

- significativamente differenziato anche tra medici ospedalieri dei reparti di emergenza (O-EMERG) e medici ospedalieri dei reparti di degenza (O-DEG);

- non significativamente differenziato tra medici di base di area urbana (B-CITTA’) e medici di base di area extraurbana (B-PROV).

I risultati, in altri termini, pongono in evidenza che i medici non hanno un modo univoco di far fronte, nelle loro interazioni di cura, al diffondersi dell’informazione biomedica. Non soltanto nel senso che, ovviamente, ciascuno di essi porta nella pratica comunicativa quotidiana la sua formazione personale e professionale, ma anche nel senso che essi tendono a portare in quella pratica immagini delle interazioni di cura tendenzialmente convergenti con quelle dei colleghi con i quali condividono la posizione organizzativo-istituzionale. Più precisamente, le tre "nuvole" di lemmi del graf. n. 1 pongono in evidenza la tendenziale differenziazione dei medici intervistati in tre gruppi, ciascuno dotato di un vocabolario relativamente specifico:

- medici ospedalieri dei reparti d’emergenza ("nuvola" intorno a O-EMERG);

- medici ospedalieri dei reparti d’emergenza ("nuvola" intorno a O-DEG);

- medici di base ("nuvola" intorno a B-CITTA’ e B-PROV, quasi coincidenti).

3. Controllo dell’interfaccia tecnica-pazienti: il vocabolario "emergenza ospedaliera"

Come mostra la "nuvola" di lemmi che prende forma tra i medici ospedalieri dei reparti d’emergenza (O-EMERG), il loro vocabolario relazionale appare orientato in prevalenza al controllo impersonale dell’interfaccia tra il malato e i mezzi messi a disposizione dal progresso tecnico per curarlo. I lemmi che porremo in evidenza sono: intervento, usare, serve, entrare, malato, domanda, ambulatorio, informazione.

3.1. Un medico "risolutore".

La pregnanza di termini come intervento, serve, usare, si può facilmente intuire, segnala un marcato accento sugli aspetti pragmatico-organizzativi della cura. Essi richiamano, come abbiamo argomentato altrove (cfr. Manghi, 2005a, p. 80), un’immagine del medico come "risolutore". Un medico, cioè, che raffigura il processo terapeutico nei termini di una sequenza di segmenti ordinati lungo un circuito prevedibile ("una catena di montaggio", dice un intervistato), e che in tale processo assegna a se stesso un compito tecnico-esecutivo, l’intervento, esercitato in un segmento circoscritto del circuito, nel quale si tratta di saper usare efficacemente tecniche, farmaci, strumenti e altre risorse. Anche il ricorso al verbo entrare, riferito all’ingresso del paziente in reparto, ovvero in ambulatorio, evidenzia l’attenzione agli aspetti organizzativi del processo di cura.

Grafico n. 1: Informazione biomedica di massa e immagini delle interazioni di cura. Corrispondenze lessicali secondo quattro tipologie di medico

Legenda:

O-EMERG.: medici ospedalieri, reparti d’emergenza; O-DEG.: medici ospedalieri, reparti di degenza. B-CITTA’: medici di base, area urbana; B-PROV.: medici di base, area extraurbana.

In termini statistici, gli assi delle X e delle Y sono i fattori discriminanti dell’analisi. Il grafico è lievemente modificato al fine di rendere più leggibili le tre "nuvole" formate dai lemmi, che nella versione automatica del T-LAB apparivano spesso sovrapposti. Ciò comporta lievi imprecisioni grafiche, che non compromettono però una corretta lettura delle "nuvole".

Valori-test (punti z) assegnati ai lemmi dal T-LAB (solo quelli con punteggio minimo di +2.00 o — 2.00 (corrispondente a un valore di significatività statistica di .05).

Valori test Asse X.

Polarizzazione tra medici di base e ospedalieri

Valori test Asse Y.

Polarizzazione tra emergenza-degenza (med. osp.) e città-provincia (med. base)

Polarità positiva

Polarità negativa

Polarità positiva

Polarità negativa

esame

4.78

lavorare

-3.47

domanda

5.29

medico

-3.52

medicina

4.50

punto

-3.06

intervento

3.89

atteggiam.

-2.38

farmaco

3.87

atteggiam.

-3.01

ambulatorio

3.68

creare

-2.25

casa

3.72

ospedale

-3.00

serve

3.20

credo

-2.25

prescrivere

3.34

malattia

-2.90

maniera

3.17

patologia

-2.10

spiegare

3.16

situazione

-2.80

entrare

3.12

   

med. di base

2.95

lavoro

-2.69

avvenire

2.80

   

anziano

2.63

livello

-2.68

informaz.

2.62

   

parlare

2.57

conto

-2.60

usare

2.50

   

risolvere

2.47

consenso

-2.55

malato

2.36

giovane

2.39

informare

-2.51

facile

2.35

   

richiesta

2.34

intervento

-2.42

caso

2.29

   

facilitare

2.32

persona

-2.35

chirurgo

2.27

   

conoscenza

2.27

associaz.

-2.32

concetto

2.27

   

prendere

2.19

struttura

-2.32

curare

2.21

   

giusto

2.11

Parma

-2.32

bello

2.19

   

fatto

2.01

ospedaliero

-2.26

operare

2.17

   

specialista

2.05

aspetto

-2.16

ecografia

2.12

   

salute

2.03

possibile

-2.12

realtà

2.02

   
   

facile

-2.10

       
   

difficile

-2.09

       
   

paziente

-2.08

       
   

malato

-2.05

       
   

figura

-2.02

       
   

gestire

-2.02

       
   

fatica

-2.01

       
   

tribunale

-2.01

       

B-CITTA’

9.85

O-DEG

-18.59

O-EMERG

18.12

B-CITTA’

-0.9

B-PROV

15.16

O-EMERG

-5.24

   

B-PROV

-3.6

           

O-DEG

-10.24

Tale segmento non appare marcatamente coinvolto da problematiche relazionali con il paziente. A quest’ultimo ci si riferisce spesso con la parola malato, termine che porta con sé una sottolineatura del carattere di destinatario passivo assegnato al paziente nel corso dell’intervento. Tutto ciò è ben evidenziato, fra numerosi altri, dal seguente brano d’intervista:

Vent’anni fa il malato entrava molto tempo prima dell’intervento in ospedale, stava molto in terapia intensiva e nelle degenze, in tutto anche un mese contro i cinque giorni di oggi, quindi si conosceva tutto del malato che tendeva a scaricarti addosso tutti i problemi, anche quelli familiari. Adesso non c’è il tempo per conoscerlo, io non li conosco proprio per nulla. Gli unici rapporti che mi riesce di instaurare sono i rapporti con quelli che hanno delle complicanze e devono stazionare in terapia intensiva (circa un giorno), perché con cinque interventi al giorno fai fatica a conoscerli. Una persona entra in Ospedale, segue il suo percorso, un po’ come un circuito, e ne esce il prima possibile. (M-51)

Tutti gli intervistati pongono in luce la cattiva qualità, o addirittura la malafede, dell’informazione biomedica di massa, anche se tale connotazione non concerne i mass media in linea di principio, ma in linea di fatto: per il modo sbagliato, cioè, in cui essi vengono impiegati concretamente oggi. I seguenti tre brani sono assai rappresentativi dell’orientamento comune:

Alcuni pazienti si immaginano delle cose che in realtà non sono così; i giornali la fanno molto facile anche su interventi di cardiochirurgia, quasi una cosa routinaria, ma invece loro si ritrovano con lo sterno tagliato, fanno fatica a rimettersi in piedi, hanno dolori ogni volta che respirano o tossiscono, dopo lo stress iniziale non hanno le basi che ti aiutano a recuperare... (F-47)

Io ho trovato dei pazienti che mi chiedono "Ma lei usa il laser o il robot?". Io rimango stupito e poi scopro che me lo hanno chiesto perché guardano la tv, dove vengono date delle informazioni premature o delle primizie, come per esempio l’impianto di cellule staminali per la rigenerazione del muscolo cardiaco. Mi chiedono se lo facciamo, quando si tratta per lo più di sperimentazioni che sono fatte ancora sui topi. L’informazione dovrebbe svolgere un altro compito. Ad esempio dovrebbe spiegare che la cura della malattia arteriosclerotica è una specie di cura alternativa perché uno la può fare solo se modifica le abitudini di vita, dalle abitudini alimentari, alla maggiore attività fisica. (M-55)

Io personalmente preferisco avere a che fare con una persona informata. Perché mi obbliga anche a rapportarmi in maniera più paritaria con il paziente. Purtroppo poi ci sono una moltitudine di informazioni propagandistiche. Questo è il punto. Non c’è un’informazione come quella della pubblicità progresso. No, è tutta informazione propagandistica, e quindi distorta. Tutti i signori che vanno in televisione a parlare dell’artrosi o altro lo fanno per prima cosa per farsi pubblicità, pubblicità alla propria clinica, al proprio ospedale, al proprio ambulatorio. Anche le trasmissioni più serie hanno di fondo questo vizio… (M-52)

Un intervistato richiama l’attenzione, più che sulla funzione negativa dell’informazione di massa, sulle insufficienze dei medici di base, che — sostiene — dovrebbero fare da filtro e da orientamento positivo del paziente. Il resoconto d’esperienza di questo intervistato è particolarmente rilevante perché si riferisce a uno dei casi più clamorosi, negli anni scorsi, di influenza mediatica su questioni biomediche, come il cosiddetto "caso Di Bella":

Per quella che è la mia esperienza, l’informazione è molto filtrata: dai medici di famiglia, per esempio. Faccio un esempio che per noi è stato un caso molto importante, il caso Di Bella. Noi ci siamo trovati di fronte a pazienti che rifiutavano le nostre terapie perché volevano quella, e noi non eravamo disposti a fare quella terapia. Si cerca di mediare, ma non le nascondo che a volte ci sono delle difficoltà. (49-M)

3.2. Irrilevanza del "paziente informato".

Nell’immagine "d’emergenza" del processo di cura, la centralità dell’intervento fa sì che l’incontro con il "paziente informato" non risulti particolarmente imbarazzante ("pochi ci fanno domande"), neppure nel caso in cui tale paziente risulti agli occhi del medico male informato:

Su 100 pazienti 90 non sono al corrente. La maggior parte dei nostri pazienti arrivano impreparati all’intervento; impreparati nel senso che una cosa così devastante non se l’aspettavano. (F-47)

Pochi ci fanno domande su che cosa succederà. In più adesso i pazienti stanno poco in reparto e quindi è difficile in generale informarli e conoscerli. Ultimamente instauro un rapporto di un certo tipo solo con quelli che hanno delle complicanze e devono rimanere in terapia intensiva… (M-51)

Noi chirurghi non seguiamo più i pazienti dalla diagnosi alla convalescenza, ma ci occupiamo dell'intervento. Questo è il nostro lavoro, direi il passaggio più importante di tutta la permanenza del malato in ospedale; ma sinceramente, pochi ci fanno domande su che cosa succederà. Non so, non mi sembra che i pazienti siano più informati nel vero senso del termine. Effettivamente sono aumentati i programmi e le riviste… tutti oramai si occupano di salute e benessere, ma poi effettivamente cosa si capisce in merito ad ambiti come la cardiochirurgia? Quando un malato arriva qui per essere operato non sa molte cose e si affida alle mani del chirurgo. (M-51)

A me che il paziente sia più o meno informato non cambia molto: io il paziente sveglio non lo vedo pressochè mai! (M-51)

La rapida trasformazione del contesto comunicativo dell’intervento in una dinamica operativa impersonale comporta, in altri termini, che le domande poste dai pazienti siano percepite come irrilevanti, residuali, persino infrequenti, o comunque non tali da configurare "contrattazioni" tra medico e paziente:

Mah, le cose sono cambiate, ma se io sono un cardiochirurgo ho la casistica, le metodiche e le capacità per cui ai pazienti spiego uno, due, tre cose… chiedo se hanno domande… dopo loro decidono in piena libertà se farsi operare, da chi, quando… Nel nostro settore non c’è nessuna contrattazione di nessun genere, allora come oggi. Magari oggi pretendono più informazioni, io cerco di darle e quindi non ci sono problemi. (M-48)

A dire la verità a me di domande ne fanno pochissime… poi, insomma, i malati da svegli noi li vediamo veramente poco. Ecco, mi capita la domenica, quando sono di turno in degenza, che il malato mi faccia delle domande, che denotano, non so come dire, una specie di richiesta di rassicurazione, ma timida…. "Eh, dottore, cosa dice, me la cavo o no?" (F-47)

Il medico-risolutore non si avverte dunque come destinatario di domande particolarmente problematizzanti. Queste, peraltro, non cessano di esistere, osserva uno degli intervistati, ma semplicemente si dirigono verso altri destinatari, all’interno del più ampio contesto di cura, e precisamente gli infermieri:

Spesso i familiari fanno domande su come andrà l’operazione, ma raramente vengono direttamente da noi. Di solito si rivolgono e si sfogano con il personale paramedico. I familiari che vivono con preoccupazione la degenza del paziente fanno molte domande, vogliono sapere esattamente le eventuali complicazioni e i rischi. (M-51)

4. Rapporto medico-paziente: il vocabolario "degenza ospedaliera"

La "nuvola" di lemmi emergente tra i medici ospedalieri dei reparti di degenza (O-DEG) configura, ci sembra, un vocabolario relazionale diverso da quello di "emergenza ospedaliera", in quanto non orientato alla soluzione tecnica dei problemi, ma piuttosto al mantenimento del rapporto medico-paziente. I lemmi che in questo caso porremo in evidenza sono: informare, informazione, atteggiamento, rapporto, consenso, lavoro.

4.1. Conflitti medico-paziente.

I pazienti tendono ormai a informarsi, attraverso varie fonti, e questo incide sui loro atteggiamenti nel rapporto con i medici, portando anche conseguenze sugli atteggiamenti di questi ultimi. Ciò pone ai medici nuovi e rilevanti compiti informativi e contro-informativi, spesso stressanti:

Capita a tutti i medici che uno dopo aver sentito una trasmissione telefona disperato perché è convinto di avere quella malattia, capita spessissimo, credo sia capitato a tutti. Quello è sempre un po’ il problema dell’informazione, che, se da un lato è giusta, dall’altro molto spesso genera reazioni incontrollate. (F-54)

Sicuramente spesso il paziente arriva che conosce già le possibili opzioni terapeutiche. Arriva già informato e spesso con una sua idea, una sua preferenza. Se questa sua preferenza non collima con le idee che gli sono suggerite, allora si apre una contrattazione tra medico, paziente e familiari, ed è necessario un impegno e un convincimento. Anni fa la figura del medico aveva un ruolo diverso, nel senso che illuminava il buio del paziente che non sapeva nulla di queste cose, gli indicava una direzione, che generalmente non era contestata anche perché non esisteva questa varietà di opzioni possibili. (M-50)

Beh, da quando ho cominciato io è cambiato tantissimo. Nel 1977 il medico era il medico. Non era possibile metterlo in discussione. Era una figura che veniva guardata dal basso all'alto, però in quest'ultimo periodo c'è la possibilità di accedere ad informazioni, alla conoscenza attraverso internet, quindi tutti leggono e sanno un po’ di tutto, spesso interpretando malamente; però nonostante questo hanno spesso degli argomenti di discussione, di richiesta. E quello che vedo è che sul medico forse ci sono delle richieste da parte di una certa parte dei pazienti che sono veramente molto assillanti e spesso anche prepotenti. (M-49)

Si lavora talmente di corsa, con talmente tante attività… purtroppo il tempo per fermarsi col malato, per spiegargli un po’ bene la situazione, per cercare di valutare anche dal punto di vista psicologico qual è la sua situazione, questo diventa difficile da gestire. La qualità che dobbiamo offrire non è soltanto una qualità medica. C’è soprattutto da instaurare il dialogo con il paziente, perché il rapporto tra medico e paziente è una delle cose principali per noi. (M-49)

Pur nella comune percezione della novità sfidante costituita dal "paziente informato", tra i medici ospedalieri dei reparti di degenza possiamo tuttavia osservare una netta polarizzazione tra due diversi tipi di reazioni: quella di chi tende a raccogliere positivamente la sfida in atto M-46) e quella di chi ne patisce fortemente le implicazioni conflittuali (F-45):

È necessario un atteggiamento nuovo. Il mio atteggiamento è quello di pormi nei confronti del paziente e dire: "Sono pronto ad ascoltare e a valutare qualsiasi cosa tu mi sottoponga". Ecco, questo atteggiamento ho visto che tutto sommato crea quantomeno nel paziente la tranquillità nel dire: "Be’, questi qui non vanno per la loro strada, con i loro farmaci in testa, e tutto il resto è irrilevante". Molte delle informazioni che vengono date sono informazioni facilmente commentabili, a volte confutabili, a volte anche assumibili nella terapia generale. L’importante è saper guidare il paziente anche su delle informazioni corrette. Diciamo che le cose più preoccupanti sono i giornali, questo sì. Loro per forza devono dare una notizia forte. (M-46)

Sì, adesso è in atto questo grande cambiamento. Prima il paziente subiva di più. Adesso molti si informano in modo a volte errato, presumendo di saperne più del medico perché hanno letto l’enciclopedia, perché hanno visto la tal trasmissione o il sito internet. E allora pensano di saperne più del medico e hanno molta paura di essere imbrogliati. Hanno un atteggiamento proprio di sfiducia. Adesso poi nei confronti dei medici c’è questa caccia alle streghe, nel senso che se qualcosa non va c’è subito una denuncia: "io posso denunciare", "posso fare"… Ecco, non è piacevole, non si vive senz’altro tranquillamente. Prima c’era questa quasi impunibilità in ogni caso, impunibilità eccessiva. Adesso si è passati all’eccesso opposto. (F-45)

In particolare, numerosi resoconti pongono in luce l’emergere di una difficoltà che caratterizza la nuova identità lavorativa del medico, caratterizzata, da un lato, dall’esigenza di una maggior attenzione al rapporto con il paziente, ma dall’altro, al contempo, dalla necessità di corrispondere ad aspettative standardizzanti, di natura burocratica, imposte dalla riorganizzazione in senso aziendalistico dell’Ospedale. Questa difficile condizione operativa è ben espressa, fra altre, dal brano che segue, tratto dalla stessa intervista, citata poco sopra, di un medico medico ben disposto verso il "paziente informato" ("È necessario un atteggiamento nuovo..."):

Io cerco sempre di avere degli spazi adeguati per parlare con i pazienti. Questi spazi ci sono, però sempre meno, questa è la verità. Dobbiamo fare le cose in fretta. La burocrazia richiede molto tempo. Compilare tutta la modulistica è un lavoro necessario per arrivare a mettere ordine nelle cose, per rendere più trasparenti certe pratiche, io penso anche per migliorare, però ci assorbe tantissimo tempo. Io, poi, il mio tempo ai pazienti lo dedico ugualmente, cerco di parlare, di spiegare, ma mi rendo conto che a volte è più difficile farlo, ricavare — e si tratta proprio di ricavare — gli spazi necessari. (M-46)

4.2. Il consenso informato: quasi una routine, in parte difensiva

La frequenza del lemma consenso non segnala tanto l’attenzione verso la ricerca dell’accordo con il paziente, ma più specificamente verso la necessità della procedura detta "consenso informato", ovvero verso l’obbligo di chiedere al paziente la firma su moduli che lo informano sulle cure di cui usufruirà e sui rischi connessi. Nei resoconti dei medici, l’incidenza del diffondersi dell’informazione biomedica su questa procedura di consenso sembra essere percepito come debole, anche quando si sottilinea la funzione difensiva che il consenso infformato ha per il medico nei confronti delle eventuali azioni legali del paziente:

Alla fine dei conti, proprio per la crescita dell’utente che si informa, che vuole garantirsi, c’è una capacità di autodifesa, che è il consenso informato. Questo passo è stato una crescita per tutte e due le parti, credo che complessivamente la situazione sia diventata più complicata, ma il rapporto è sempre lo stesso, il medico ha sempre lo stesso ruolo, di gestore della salute. Certo c’è probabilmente più attenzione all’aspetto legale. (M-50)

Se possiamo fare da 1 a 100, [l’informazione di massa] complica [il rapporto medico-paziente] per il 10% e lo facilita nel 90%. Adesso, per comportarsi correttamente da un punto di vista clinico, c’è l’utilizzo del consenso informato. Mi ricordo le prime volte che si chiedeva di firmare questi consensi, la cosa suscitava molte diffidenze da parte dei pazienti: "Perché mi fa firmare, cosa succede?" Adesso è molto più difficile che capiti. È passata anche nei pazienti una cultura di ricerca, di innovazione, di sperimentazione. Il famoso "Non farò da cavia" è molto più difficile trovarlo adesso che non 20 anni fa. Poi, se devo dire la verità, non è che [íl consenso informato] abbia cambiato molto le cose, perché facendo delle sperimentazioni, in una qualche maniera, nel rapporto con il paziente… glielo spiegavi, almeno io personalmente, sì. Quindi non ho fatto altro che codificare per iscritto quella collaborazione, quell’informazione che davo verbalmente anche anni fa. (M-52)

5. Mediazione Sanità-pazienti: il vocabolario "medicina di base"

I termini che selezioneremo nella "nuvola" lessicale relativa ai medici di base sono i seguenti: parlare, spiegare, informazione, farmaco, medicina (comprendente "Medicina" come insieme di pratiche di cura e "medicina" come sinonimo di farmaco), casa, anziano, esame (inclusivo di risonanza, dal momento che questo termine si riferisce all’esame clinico detto, appunto "risonanza magnetica").

Come si intuisce immediatamente, questa "nuvola" configura un vocabolario relazionale alquanto diverso da quello che prevale nei contesti "emergenza ospedaliera" e "degenza ospedaliera". Il fulcro di questo vocabolario, pur sensibile anche ai mezzi tecnici (farmaco, medicina, esame, risonanza), non appare essere la soluzione tecnica di problemi di malattia, in quanto appare specialmente sensibile ai mezzi discorsivi: parlare, spiegare. Ma il suo fulcro, a rigore, non appare essere neppure il mantenimento del rapporto medico-paziente, proprio del vocabolario "degenza ospedaliera". Pur includendo l’attenzione al paziente, indirettamente evocato dal lemma casa come soggetto che s’immagina parte di un contesto familiare, il vocabolario in questione si direbbe incentrato sul fulcro di una rete più ampia di agenti e servizi, della quale il rapporto medico-paziente è un sottoinsieme. In quella rete sono inclusi anche i familiari del paziente (come evidenzia appunto la parola casa), da un lato, e la Medicina dall’altro, vista come insieme di ambulatori, sportelli, laboratori di analisi e altre opportunità, alle quali alludono le parole Medicina (Medicina generale, Medicine alternative, ecc.) ed esame. Il medico, in questo senso, viene rappresentato come figura di mediazione tra pazienti e Sanità. Il seguente brano d’intervista mette bene in luce questa rappresentazione:

[L’informazione di massa] si è tradotta in una maggiore richiesta di esami strumentali e di supporti tecnologici. La presenza della famiglia incide molto. Se l’anziano viene da solo, ha meno richieste, ma se viene accompagnato dai figli le richieste aumentano. L’anziano si accontenterebbe della visita clinica, mentre i figli sono più esigenti, chiedendo di approfondire di più la diagnosi.

Rende più complessa [la comunicazione con il paziente] quando c’è da parte del paziente una richiesta, non motivata da sintomi reali, di tutta una serie di analisi. E allora devo spiegare che non ha senso fare una risonanza magnetica per una sciatalgia di prima diagnosi. Bisogna perdere un attimo di tempo per spiegare perché si parte con certi esami e non con altri. Quando il paziente si è fatto un’idea diversa, magari guardano la televisione che fa programmi medici a tutte le ore, a volte è più difficile relazionarsi con lui perché devi contenere le richieste, che a volte sono motivate, ma a volte non lo sono. Questo, alcuni anni fa, non accadeva. Nessuno si sognava di chiedere al medico di fare un esame piuttosto che un altro. (F-45)

Come nel caso del vocabolario "degenza ospedaliera", trattato in precedenza, la figura del paziente informato viene rappresentata come fonte di cambiamenti rilevanti nel lavoro del medico, e come in quel caso le reazioni a tali cambiamenti si polarizzano tra due estremi opposti, uno che dell’informazione biomedica di massa sottolinea le opportunità, l’altro che ne sottolinea le implicazioni problematiche e negative.

5.1. Il mediatore possibilista: informazione di massa come opportunità

Per molti intervistati l’informazione biomedica diffusa, pur essendo spesso fonte di problemi, non conduce il paziente ad accentuare gli atteggiamenti conflittuali nei confronti del medico di base. Questi si trova, in effetti, a dover impiegare più tempo e attenzione a "guidare il paziente a capire cos’è che va bene per lui", come riferisce un intervistato, ma nell’ambito di un rapporto fiduciario che rimane sostanzialmente inalterato:

I pazienti guardano la televisione, leggono i giornali, e sentono anche i vicini di casa… uno che è andato a fare un esame a Firenze o a Milano.... Poi vengono dal medico e dicono: "Sa, dottore, ho sentito che…". Cercano di orientarsi un po’ in questo ammasso di informazioni. Ma non sempre queste informazioni sono corrette, o non sempre adatte a quel singolo caso. Insomma, bisogna tener conto anche della storia del paziente. È qui che il medico di famiglia dovrebbe aiutare, guidare il paziente a capire cos’è che va bene per lui. [La maggior informazione] facilita [la comunicazione] nella misura in cui il paziente arriva con le sue informazioni ma poi si fida del suo medico, altrimenti il medico diventa solo uno che a comando prescrive… Tutto sommato devo dire che con i mei pazienti succede così, soprattutto con quelli con cui c’è un rapporto di fiducia, soprattutto con le persone più anziane, che vedono il medico come quello che ti deve dire cosa devi fare. (M-48)

L’intervistato, si noterà, pur accennando all’influenza di informazioni "non sempre corrette", non adotta i forti toni accusatori che abbiamo avvertito in numerosi dei resoconti citati in precedenza. Non solo, richiamando la rilevanza dei "vicini di casa", esprime una rappresentazione che potremmo chiamare estesa dell’interazione comunicativa alla quale prendono parte usualmente medici e pazienti. La stessa rappresentazione viene posta in luce, anche più nettamente, dalle parole di un altro intervistato, il quale sottolinea l’influenza negativa dei media nell’alimentare aspettative del tutto irrealistiche, fino all’immortalità, sia la funzione di filtro attivo svolta dalla rete dei vicini di casa, specie in un contesto rurale, come appunto quello in cui l’intervistato stesso si trova a operare:

Più che la televisione, ne parla molto spesso la gente, con il vicino di casa… Secondo me sta scomparendo il concetto di malattia, la gente pensa che non ci si ammali più. Con le nuove tecniche, con le nuove medicine, la gente pensa che sia possibile guarire tutto, addirittura non ammalarsi proprio! C’è una richiesta enorme di salute, che è anche in parte una specie di consumismo della salute. Secondo me uno deve adattarsi, capire anche le esigenze dei pazienti. Più che altro ti fanno capire che da un medico di medicina generale richiedono di essere capace di capire la situazione, anche la situazione personale del paziente. Molto spesso i pazienti decidono loro di scegliersi un percorso da seguire per la loro malattia, altre volte si affidano completamente al medico. Comunque da noi, qui in un paese di campagna, le informazioni circolano molto di più di bocca in bocca, perché tra la gente ci si parla ancora, poi vengono dal medico per capire meglio, per trovare conferma a quello che hanno sentito dire. (M-59)

5.2. Il mediatore problematico: informazione di massa come ostacolo

All’altro estremo del continuum in esame troviamo il medico che tende a rappresentare i mezzi di informazione come agenti sociali deleteri, i pazienti come permeabili all’influenza mediatica, e il medico come costretto a perdere tempo in spiegazioni. Due esempi fra altri:

Quello che io vedo è la pseudo-informazione medica giornalistica, che ha veramente danneggiato. Io mi arrabbio moltissimo il lunedì mattina perché la domenica sera c’è una trasmissione che veramente crea dei messaggi anomali. Tu devi essere quello che, oltre a farti spiegare, sei quello che impedisce al paziente di fare certe cose… che toglie al paziente la possibilità di fare un esame a cui non ha diritto. Secondo me bisogna dare al paziente, quando fa delle richieste, tutte le informazioni in merito…. Io di solito parlo molto con i miei pazienti, e non mi stanco di spiegare tutto quello che serve. A volte il paziente viene qua addirittura consigliandomi quello che devo prescrivere! Questa è una cosa che mi fa veramente arrabbiare. Non è tanto un problema di comunicazione, perché poi basta parlare… è che pone il paziente a dettare delle leggi… e spesso ci si trova in conflitto… (F-50)

Vengono con delle richieste, perché hanno visto una trasmissione e mi chiedono se sarebbe il caso di fare quell’esame. Un tempo il paziente era più passivo e si fidava di più di quello che gli dicevo, oggi sono loro che mi propongono gli esami: "Dottore… e se facessimo una tac?". I pazienti non hanno una vera conoscenza del loro stato di salute. Più che altro [l’informazione biomedica diffusa] è una difficoltà. Non è una semplificazione del rapporto, perché non si traduce mai in una reale acquisizione di un sapere da parte del paziente. È solo tempo che si perde a spiegare al paziente. (M-52)

Ci sono, per esempio, quei pazienti che sentono parlare di emicrania allora hanno l’emicrania, sentono parlare di gastrite e allora hanno la gastrite… insomma l’informazione presa qua e là, delle notizie prese qua e là, magari mentre stavano a veder la televisione… si alzavano per vedere se gli spaghetti erano cotti e quindi magari non hanno neanche seguito il filo logico del discorso. In questo modo non è così efficace. (M-50)

6. Conclusioni

Nei resoconti della loro esperienza interattiva quotidiana i medici registrano un’influenza crescente dell’informazione biomedica di massa. Il "paziente informato" viene rappresentato, quanto meno nella grande maggioranza dei casi, come un agente che modifica la scena comunicativa a lungo interpretata come familiare. Che i racconti parlino di modificazioni benvenute oppure malsopportate, è pur sempre di inevitabili modificazioni che si tratta.

Da questa conclusione sembrerebbero rimanere esclusi quei medici, come i chirurghi, che si descrivono come sostanzialmente immuni alle sfide del "paziente informato". Il vocabolario relazionale che abbiamo chiamato "emergenza ospedaliera" li descrive infatti intenti a risolvere problemi pratici, a rendere il più possibile efficiente e impersonale l’interfaccia tra i problemi da risolvere e i mezzi messi a disposizione dal progresso tecnico, senza che sulla scena della cura si affaccino nuovi problemi relazionali. Parrebbe anzi che il progresso della tecnica e le concomitanti riforme organizzative vadano azzerando gli spazi d’interazione medico-paziente-familiari presenti in precedenza nella realtà ospedaliera anche più tecnicizzata.

Ma se allarghiamo lo sguardo alla scena della cura presa nel suo insieme, un insieme sempre più allargato, articolato e complesso, del quale il momento "risolutivo" dell’intervento chirurgico non è che un segmento parziale, ci accorgeremo facilmente che questa percezione di "immunità relazionale" è resa possibile dal fatto che le sfide del paziente informato vengono semplicemente polarizzate su altre parti della stessa scena: sul personale infermieristico e sui medici di base, per rimanere alle due figure professionali richiamate espressamente nelle interviste che abbiamo citato.

Quella che da una certa angolazione risulta essere "immunità" alle sfide relazionali del paziente informato, è leggibile pertanto, da un’altra angolazione, presumibilmente dal punto di vista di altri attori della scena della cura (pazienti, familiari, infermieri, medici di base), come un effetto di presbiopia. Come frutto, insomma, dell’abitudine a concentrare lo sguardo sull’intorno più prossimo, che comporta una percezione sfuocata della scena d’insieme della cura, e dunque delle complesse danze interattive che connettono il paziente anche al chirurgo più efficacemente tecnicizzato.

Assumendo pertanto che loro interazioni quotidiane, nella scena ormai allargata della cura, siano ormai influenzate irreversibilmente dal diffondersi dell’informazione biomedica, avanziamo qui, a mo’ di conclusione, ovviamente provvisoria, l’ipotesi che l’adattamento dei medici alle nuove condizioni sia un processo già intensamente avviato per tutti, e che tale adattamento possa essere proficuamente descritto secondo due criteri distintivi differenti: a) il particolare fulcro d’attenzione, nell’ambito della scena della cura, sul quale è orientato il loro vocabolario relazionale; b) la connotazione, tendenzialmente positiva oppure problematica, dell’opera dei mezzi di comunicazione di massa.

6.1. Vocabolario relazionale: tre orientamenti

Il vocabolario relazionale del medico di "emergenza ospedaliera" appare orientato a controllare, attraverso una funzione eminentemente tecnica e impersonale, l’interfaccia tecnica-pazienti, coerentemente con la tendenza più generale, rilevata nel più ampio rapporto di ricerca che abbiamo citato (Manghi, 2005), a massimizzare l’efficacia operativa della funzione-azienda. La figura del "paziente informato", in questo vocabolario, mostra un peso scarsamente rilevante, in rapporto a quello degli altri due vocabolari, nei quali hanno notevole importanza, infatti, parole come "consenso", "informare", "parlare" e "spiegare".

Nel vocabolario relazionale "degenza espedaliera" le sfide del "paziente informato" hanno invece un’influenza decisamente rilevante. Il medico si rappresenta in questo caso come chiamato a un impegno comunicativo crescente, informativo e controinformativo, che trasforma l’identità del medico. Il suo vocabolario appare tendenzialmente orientato allo scopo di mantenere le condizioni per la continuità del rapporto personalizzato medico-paziente. Anche in questo caso, il risultato appare coerente con il più generale vocabolario rilevato nel rapporto di ricerca più ampio, funzionale alla gestione delle interazioni di reparto.

Il "paziente informato" incide fortemente anche sul vocabolario relazionale "medicina di base". Più che al mantenimento della relazione personalizzata tra medico e paziente, tale vocabolario appare orientato a coordinare ininterrottamente la rete interattiva che connette il paziente ai vari servizi e presidî medico-sanitari, includendo in questa rete spesso anche i familiari del paziente e immaginando di dover tenere conto, in certi casi, della comunicazione sociale tra i suoi vicini e conoscenti. Ciò non significa, ovviamente, che la micro-relazione medico-paziente appaia trascurabile, ma piuttosto che essa è rappresentata da questi medici come parte di una scena della cura più allargata, nella quale ad essi vengono richiesti compiti crescenti di raccordo interattivo e comunicativo — a conferma, anche in questo caso, delle risultanze riportate nel citato rapporto più generale, riassunte nella formula: mediazione tra pazienti e reti dei servizi sanitari.

6.2. I mass media, tra ostacolo e opportunità

La rappresentazione degli effetti che l’informazione biomedica di massa ha sulle interazioni comunicative quotidiane medico-paziente-altri può essere descritta attraverso una schematica suddivisione in tre diverse connotazioni: una neutra, una positiva, una negativa.

Come abbiamo già osservato, la connotazione neutra, che non vede in sostanza nel "paziente informato" né un’opportunità né un ostacolo alla pratica medica quotidiana, si concentra in particolare nel gruppo professionale dei medici ospedalieri dei reparti d’emergenza. L’aggettivo "neutro", è il caso di ricordare, non concerne tanto il giudizio sulla qualità dei mezzi d’informazione di massa, che questo gruppo professionale tende a considerare per lo più assai negativamente, quanto il giudizio sulle implicazioni dei mezzi d’informazione di massa verso l’interazione comunicativa quotidiana, implicazioni che vengono ritenute trascurabili.

Gli altri due gruppi professionali, i medici ospedalieri dei reparti di degenza e i medici di base, giudicano invece rilevanti tali implicazioni. Entrambi inoltre appaiono polarizzati tra quanti connotano positivamente il "paziente informato", come un’ulteriore opportunità professionale, e quanti lo connotano negativamente, come ostacolo allo svolgimento di un’efficace pratica professionale.

6.3. Parole scritte, immagini, parole parlate

Dai resoconti dei medici ospedalieri e da quelli, ancor più marcatamente, dei medici di base, emergono indizi di profonde trasformazioni in corso nella relazione medico-paziente-altri. Molte sono le suggestioni provocate da questi indizi. Oltre a quelle già abbozzate in queste note, vorremmo qui nominarne ancora una, sia pur sinteticamente, relativa al destino della parola parlata nei processi di cura della salute. Processi che, come abbiamo sottolineato, sono sempre meno "settoriali" e pervadono sempre più capillarmente le nostre esistenze quotidiane.

Gli apparati dell’informazione di massa hanno ormai introdotto irreversibilmente nei processi di cura enormi masse di parole scritte e di immagini. Si tratta di segni visivi, che nel momento della loro fruizione stimolano e attivano forme di attenzione imperniate sul senso della vista e sulle elaborazioni neocorticali, di ordine cognitivo. Nel caso dell’informazione radiofonica e televisiva è coinvolto naturalmente anche l’udito, ma ciò avviene in larga misura nel contesto di strutture comunicative unilaterali.

Nell’interazione comunicativa diretta medico-paziente-altri, invece, assume inevitabilmente un’importanza notevole la parola parlata in presenza, e con essa il senso dell’udito. La parola parlata in presenza è diversa da quella letta su carta o su schermo, e anche da quella emessa dalla radio o dalla televisione, per il fatto di essere già segnata, nel momento stesso della sua emissione, dalle aspettative relazionali del destinatario, e già-da-sempre pronta a reagire, adattandosi, alle reazioni del destinatario. È segnata in profondità sia nella scelta dei lemmi da esprimere in suoni sia, forse ancor più, nei toni, nel ritmo e nella grana della voce, accompagnati dalla prossemica dei gesti, della mimica, delle posture.

Nella parola parlata in presenza gli aspetti cognitivi sono intimamente connessi a quelli emotivi. E il flusso comunicativo ha un carattere continuo, non scomponibile in sequenze lineari, dove le azioni non siano anche reazioni. È la parola intrisa di quella "magia attenuata" alla quale si riferiva Sigmund Freud, nella citazione riportata in esergo. Ciò premesso, potremmo chiederci, conclusivamente: cosa ne è, nell’attuale scena della cura, di questa "magia attenuata"? La massiccia introduzione di informazioni scritte e iconiche nei processi di cura comporta una svalutazione, un potenziamento o una ridefinizione del peso della parola parlata "in presenza"? Del peso, cioè, che hanno le azioni del medico volte a spiegare, informare, persuadere, ascoltare, reagire eccetera? E insieme del peso che ha anche la "magia attenuata" delle parole dei pazienti, dei familiari, degli infermieri e di tutti gli altri attori di quella rete dinamica che è oggi il processo di cura?

La nostra indagine, crediamo, induce a scartare la prima risposta e a dirigerci preferenzialmente verso un mix fra la seconda e la terza: potenziamento e ridefinizione della parola in presenza. E crediamo inoltre che ciò comporti l’urgenza di metter mano a una profonda riforma dei percorsi formativi dei medici, nonché del personale sanitario nel suo insieme. Una riforma basata sulla riqualificazione dei saperi relazionali e sociali rispetto a quelli tecnico-cognitivi, che oggi il primato dell’evidence based medicine tende a presentare come risolutivi. Ma approfondire questa suggestione richiederebbe ben altro spazio, e ci limiteremo qui pertanto a insistere sulla domanda, sperando di aver fornito elementi di riflessione utili a chi desideri raccoglierla.

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