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Liborio Dibattista, J.-M. Charcot e la lingua della neurologia, Cacucci Editore, Bari, 2003, pp. 320 + Cd-rom, Euro 28,00.

Nell’universo della ricerca scientifica non meno che nel mondo della creazione artistica, l’apertura di nuovi orizzonti si accompagna spesso alla nascita di nuovi linguaggi; senza necessariamente dover sposare le tesi di un costruttivismo radicale, si può infatti constatare come l’emergere di nuove parole contribuisca a creare nuove realtà, anche nell’ambito dell’indagine fenomenica operata dalla scienza. ‘Battezzare’, in questo senso, non rappresenta mai un’operazione innocente. Si pensi, come esempio, alle espressioni ‘sindrome maniaco depressiva’ e ‘dementia praecox’, coniate da Kraepelin alla fine del XIX secolo e con cui entravano in scena nel campo della patologia psichiatrica due disturbi ‘nuovi’, il cui ruolo sarebbe risultato cruciale nella storia della psichiatria del Novecento.

Nonostante la sua importanza, l’analisi dei linguaggi non ha riscosso molta fortuna nel campo storiografico. Come ha sottolineato Émile Benveniste, infatti, "la storia della scienza non concede ancora la giusta attenzione a queste creazioni che sembrano non interessare che ai lessicografi". Per questo il lavoro di Liborio Dibattista può essere considerato come un contributo per rimediare a tale lacuna: nel suo volume, infatti, l’autore si ripropone di affrontare un capitolo fondativo della storia della neurologia analizzando con metodologia computazionale il linguaggio di uno dei ‘padri fondatori’: Jean-Martin Charcot.

Nel quadro della letteratura esistente su questo personaggio, storiograficamente ‘rilanciato’ a partire dagli anni ottanta del 900, il libro di Dibattista rappresenta un’iniziativa originale perchè attraverso l’analisi linguistico computazionale dei tre tomi delle Leçons sur les maladies du système nerveux (datati al 1873, 1877 e 1887) mette a disposizione dello storico un lessico la cui esplorazione risulta funzionale non solo all’esame della struttura del pensiero di Charcot, ma anche — e soprattutto — a quell’operazione di traduzione su cui anche Kuhn si è soffermato prendendo in esame il problema della comunicazione fra passato e presente della scienza.

Della necessità di tradurre, del resto, si era in qualche modo avvertito il bisogno anche in passato, come dimostrano le parole pronunciate nel 1911 da Jules Dejerine in occasione della sua nomina a titolare della cattedra di clinica delle malattie nervose della Salpêtrière : "Se un clinico del 1850 tornasse fra noi, la terminologia scientifica che impieghiamo oggi sarebbe per lui quasi del tutto priva di senso (…). Non si parlerebbe più la sua lingua, ma quella di Charcot". L’impresa del neurologo francese, dunque, fu da subito percepita come un’operazione ‘fondativa’. Ed è proprio da qui che Liborio Dibattista comincia il suo percorso, illustrando al lettore la figura di un clinico rivoluzionario.

Pur sostenendo la causa della medicina scientifica di Claude Bernard — di cui risulterà senz’altro un "entusiasta adepto" - Charcot non ne acquisisce tuttavia la prospettiva metodologica interamente centrata sulla sperimentazione. Per lui, infatti, "il primato della clinica rimane indiscusso": analogamente a quanto intrapreso da Théodule Ribot nel campo della psicologia, anche nella neurologia di Charcot l’indagine e l’osservazione di malati e malattie rappresenta una sorta di ‘esperimento della natura’ di pari rilevanza della ricerca di laboratorio.

Usando le parole del neurologo inglese Jackson, la figura di Charcot può dunque essere descritta come quella di un "clinico a trecentosessanta gradi". L’indagine linguistico-computazionale effettuata da Liborio Dibattista consente di mettere bene in rilievo questo aspetto. L’esame degli indici di frequenza dei termini — verbi e sostantivi — rivela infatti sia la preponderanza di espressioni come ‘vedere, far vedere, descrivere, giudicare dalle osservazioni’, sia il modo proprio di Charcot di intendere la clinica neurologica: uno studio dei malati mirato a correlare i sintomi patologici con particolari lesioni del sistema nervoso.

Né lo strumento della linguistica computazionale si arresta al piano quantitativo della enucleazione degli indici di frequenza. Passando ad un livello più propriamente qualitativo di indagine, infatti, l’applicazione del processore linguistico rende possibile focalizzare l’ attenzione su quelle che Dibattista definisce come le "traversie semantiche" del linguaggio scientifico. Queste emergono, per esempio, dall’esame delle diverse e variabili associazioni di parole, dallo scomparire di termini specifici, dal battesimo di concetti inediti. In tal senso, studiare le relazioni reciproche fra i diversi cambiamenti lessicali, e cioè puntare l’attenzione sugli slittamenti terminologici, sulla struttura fluida e reticolare del bagaglio linguistico, può consentire di tracciare una sorta di ‘storia naturale’ del pensiero di Charcot. Ne risulta l’immagine di una ricerca scientifica contrassegnata da un insieme di rigore e plasticità, che ben rispecchia peraltro anche la figura di Charcot per come essa viene delineata nel libro.

Proprio a questo proposito va segnalato, fra i meriti dell’autore del volume, anche l’aver preso le distanze dai luoghi comuni presenti della storiografia.

In primo luogo, Liborio Dibattista contesta l’immagine di uno Charcot come affabulatore e istrione, quasi più occupato a mettere in scena la sua disciplina attraverso l’esibizione plateale delle isteriche che a legittimarla e fondarla obbiettivamente su metodologie e concetti scientifici. Veicolata soprattutto dall’opera di Ellenberger (nonché ripresa, in Italia, da Roberto Speziale- Bagliacca nel fascicolo de "Le Scienze" su Sigmund Freud ), tale suggestiva lettura ha finito di fatto per focalizzare tutta l’attenzione sull’eccentricità del personaggio, dimenticando di considerare come l’esibizione del patologico fosse nella didattica della medicina una pratica assai diffusa e di antica tradizione. In questo senso, nemmeno l’usanza propria di Charcot di mostrare le isteriche al pubblico dopo averle adornate con cappelli e costumi di piume va ricondotta al primato della teatralità. In realtà, gli originali ‘costumi’ con cui il neurologo era uso vestire le proprie ammalate avevano la funzione non già di spettacolarizzarne le esibizioni, quanto piuttosto di amplificare i tremori della crisi affinché questa potesse essere più chiaramente registrata. Del resto, non bisogna dimenticare l’impegno profuso da Charcot alla Salpêtrière per lo sviluppo e l’impiego delle nuove tecniche cronofotografiche di registrazione delle crisi isteriche; "Quindi — conclude Dibattista — al di là della nota immagine di Charcot che infila copricapo con lunghe penne alle sue pazienti (…) esiste uno Charcot preoccupato più che di mettere in scena, di mettere in grafica i sintomi delle malattie che studia".

Un altro punto centrale delle critiche ai tradizionali clichè storiografici riguarda il mito di Charcot come maestro e precursore di Freud. In particolare, nel suo libro Dibattista contesta gli effetti di questa linea di continuità, che a suo avviso consisterebbero nell’aver contribuito ad enfatizzare la figura di Charcot come "grande psichiatra" anziché ‘grande neurologo’. Di qui deriverebbe appunto l’oblio storiografico del fondamentale contributo del ‘Cesare della Salpêtrière’ alla nascita della neurologia moderna.

Va peraltro rilevato, a questo proposito, come nel primo Novecento siano stati proprio gli specialisti di malattie mentali a favorire la diffusione dell’immagine di uno Charcot psichiatra. Si potrebbe parlare, a questo proposito, quasi di strategia: in un momento di crisi della psichiatria, allora decaduta al rango di "cenerentola delle scienze", non furono pochi, fra gli psichiatri, coloro ai quali parve opportuno rivendicare con orgoglio la paternità charcotiana della disciplina: del resto, non era forse la neurologia, fra le discipline contigue alla psichiatria, quella più rigorosamente medica? In quest’ottica, indicare nella figura dello studioso francese uno dei fondatori della psichiatria sarebbe equivalso a rilanciare la dignità scientifica della disciplina. Assumendo un simile punto di vista non sembrerebbe azzardato supporre che il mito di charcot psichiatra abbia tratto alimento, quasi per una sorta di capovolgimento storiografico, proprio dalla forza della fama del neurologo, anziché dal suo oblio.

Per concludere: l’opera di Liborio Dibattista rappresenta un prezioso contributo nell’ambito della storia delle ‘neuroscienze’ e dimostra l’opportunità di estendere l’ impiego degli strumenti informatici ad un sempre maggior numero di opere scientifiche, allo scopo di ampliare le possibilità di confronti e ‘traduzioni’. Lo stesso dibattista del resto, riservando un capitolo del suo libro a "la lingua della neurologia prima e dopo Charcot: Duchenne de Boulogne e Jules Dejerine", sembra voler procedere in questa direzione.

Sarebbe inoltre auspicabile l’estensione di questo metodo anche in campi disciplinari diversi: penso, per esempio, ai possibili impieghi e alle inaspettate prospettive che deriverebbero dalla sua applicazione alla psichiatria il cui lessico, particolarmente accidentato nonché sfumato e policromo, rappresenta l’esempio di un territorio ancora vergine e tutto da esplorare.

Ciò che è certo, comunque, è che la linguistica computazionale, ancorché fungere da ‘strumento freddo’ dell’analisi storica, può aiutare a mettere in luce ciò che, con un’accezione quasi militare , potremmo definire come le ‘zone sensibili’ della scienza: quelle già citate "traversie semantiche" su cui, per altri versi e con altri metodi, si concentra anche la storia delle idee.

Roberta Passione

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