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GiovanniJervis  
Ilbuon rieducatore. Scritti sugli usi della psichiatria e della psicoanalisi,Milano, Feltrinelli, 1977 
 
Ilrapporto con Basaglia 
Ilperiodo a Reggio Emilia  
IlManuale critico di psichiatria  
Ilmito dell'antipsichiatria  
 

Giovanni Jervis- ora docente di Psicologia dinamica a Roma -  è  statouno dei protagonisti che agiva in prima linea a Gorizia, negli anni trail 1966 e il 1968, a fianco di Franco Basaglia. Il gruppo realizzòun progetto pionieristico e molto ambizioso: il primo esperimento di unmanicomio aperto in Italia.  
Jervis dàuna diretta testimonianza di questo tormentato periodo ne Il buon rieducatoreun articolo che fornisce il titolo ad una raccolta di saggi sulla psichiatria- in cui rievoca in modo autobiografico le vicende di quel periodo e anche- seppur velatamente - ricordando le difficoltà che il gruppo originariocominciò ad incontrare ben presto nella gestione della comunitàdi Gorizia.  
La storiadi quel periodo è nota e voglio qui ricordare soltanto un momentoparticolarmente critico che rischiò di vanificare l'esperienza.Il tragico incidente in cui un paziente, rientrato per un breve periodoa casa, uccise la moglie, turbò profondamente Basaglia al puntoche   cominciò a parlare di fallimento dell'esperienzagoriziana. Jervis e Pirella si opposero fermamente all'ipotesi di chiusuradella comunità e Pirella rimase a dirigere la struttura al postodi Basaglia che successivamente si trasferì a Trieste. 
Col tempo Jervise Basaglia si allontanarono: il distacco fu dovuto ad un modo diverso diintendere l'abolizione del manicomio. Il disaccordo divenne totale poisulla legge 180, approvata nel  1978, due anni prima della morte diBasaglia. Riguardo proprio al rapporto con Basaglia, in un'intervista acura di L. Sica rilasciata al quotidiano  "La Repubblica" nel 1991,Jervis spiegava: 

    ioho sempre avuto, oltre che grande stima, molto affetto per Basaglia e credoanche lui per me. Era una persona intelligente, appassionata, generosa,con una forte personalità e un grande fascino. Qualche volta perònon era facilissimo andare d'accordo con lui. Era in un certo senso untipico leader carismatico. Alcuni lo hanno accusato di essere statosettario e dogmatico: in parte è vero, però bisogna direche non è mai stato un meschino. 
    Sidà facilmente la colpa a Basaglia. Le racconterò un aneddoto.Ricordo che a Gorizia una volta mi disse: "...Sono veramente stanco: misembra di essere un cocchiere al comando di una diligenza e dentro la diligenzac'è un sacco di gente che urla: più forte, più forte,più forte. E io dovevo frustare i cavalli sempre di più". Forse già alla fine degli anni '70 Basaglia si rendeva conto delpericolo di essere trascinato da un movimento che rischiava di perdereil senso della misura. E un po' questo è accaduto.
Sempre nel corsodi quell'intervista Jervis, spiega il motivo delle critiche che aveva mossoda tempo alla legge 180. Secondo il suo personale punto di vista la leggeera stata formulata in modo schematico e anche demagogico, e afferma chesostenere ancora oggi che la legge sia la migliore e la più avanzatadel mondo - ma che sia rimasta sfortunatamente inattuata a causa dell'inadempienzadei governi che non hanno predisposto strumenti adeguati - "significanon avere il coraggio di guardare in faccia la realtà". Il puntoprincipale è che la legge, oltre che tecnicamente sbagliata, sisarebbe rivelata socialmente ingiusta:  accentuando il divario trapazienti benestanti e quelli meno abbienti, e segnando un divario nettotra l'assistenza realizzata nelle regioni  ricche del nord e quelladelle regioni più arretrate e povere del centro-sud. 

Jervis parlasicuramente con cognizione di causa perché, sempre ne Il buonrieducatore, racconta anche della sua esperienza di conduzione deiservizi psichiatrici territoriali avviati a ReggioEmilia nel giugno 1969. Anche in quella situazione - per sua diretta ammissione- dopo un buon inizio, in cui nella équipe da lui diretta c'eranoanche giovani psichiatri volonterosi ed entusiasti,  cominciaronoinevitabilmente a sorgere alcuni problemi. L'esperienza di quel periodoera segnata ovviamente anche dal clima politico dell'epoca: "Dalle lottedel 68 e del '69 traevo la speranza e la fiducia che il mutamento di valoriin atto, e la potenzialità di rivolta dei giovani e della classeoperaia, cominciassero automaticamente a travolgere anche quei vecchi aspettidella vita civile che ancora alimentavano la discriminazione nei confrontidei 'diversi' e dei 'disturbati' ". Ma nonostante il clima politico favorevoleai cambiamenti istituzionali, prima o poi i nodi vennero al pettine:  

    Fuevidente il bisogno di verificare il problema delle tecniche terapeutiche,anche perché non potevamo non accorgerci che nel rapporto con ilpaziente e i suoi familiari si usavano 'comunque' delle tecniche, in ognimomento, anche senza saperlo. Appariva quindi evidente che quella interpretazionedella "cura", come e semplice e disarmato "prendersi cura", quell'orientamentosociologico di buon senso, con cui anch'io avevo creduto a Gorizia di potersostituire le tecniche curative e che ancora aveva avuto un significatoquando si era trattato soprattutto di scardinare la vecchia istituzionee liberare i ricoverati, qui a Reggio-Emilia mostrava tutti i suoi limiti,nel confronto dei "casi", spesso drammatici, di cui ci dovevamo occuparenei paesi, nei quartieri, nelle famiglie. 
La domanda centrale- che racchiude anche il senso della ricerca di quel periodo -  eche Jervis allora si poneva è: "se e  in che misuraera possibile, operando nel sociale, fare della psichiatria alternativa"  
Rispostepositive evidentemente non ne trovò nell'ambito del gruppo di lavoroche lui stesso aveva contribuito a creare, perché nonostante ReggioEmilia fosse una 'città ricca' e il governo della città fosseaffidato al Partito Comunista, per stessa ammissione di Jervis  lacrisi gli capitò addosso "nel bel mezzo del lavoro reggiano,nel 1972: e fu insieme politica, personale e professionale" 
Anche a Reggio Emilia si sentivano ovviamente le ripercussioni delle vicende nazionalie regionali: la crisi economica incombente, la mancata attuazione dellariforma sanitaria, l'avvicinarsi sul piano politico generale del 'compromessostorico', la contemporanea gestione da parte di uomini del Partito Comunistadi strutture psichiatriche indipendenti, che seguivano linee opposte (unalegata al vecchio manicomio, l'altra nata fuori dalle mura radicata nelterritorio, costituita da operatori critici verso la psichiatriatradizionale) erano tutte componenti che aprivano contraddizioni non facilida affrontare sul piano pratico.  
CosìJervis ricorda quel periodo: "venivamo sospinti con forza ad un assistenzialismoquantitativo: molti ambulatori, molti pazienti, molti sussidi, molti psicofarmacie tranquillanti, meno visite domiciliari e soprattutto meno discussionee meno politica".  
Che fineaveva fatto l'ideale eroico dell' antipsichiatria di marca basagliana? 
Jervis cercadi dare risposta  al suo interrogativo sia nell'articolo citato chenel saggio  Il mito dell'antipsichiatria del 1976, ma soprattuttonel celebre Manuale critico di psichiatria: il tentativo di sistematizzarel'esperienza maturata sino a quel periodo, una sorta di malattia creativacome lui stesso la definisce, che rappresentò il bilancio di duedecenni di psichiatria. Un primo ciclo - molto importante - si era dunqueconcluso. 

Il Manualecritico di psichiatria nasceva quindi direttamente dalle riflessionie dalle esperienze maturate da Jervis nel gruppo di lavoro di Reggio Emilia.Come già ricordato, l'esperienza psichiatrica nel territorio nascevacon l'intento di produrre materiale e conoscenza in antagonismo alla psichiatriacome scienza borghese, di produrre conoscenza che potesse serviread un lavoro psichiatrico alternativo: cosa questo significassenella pratica, alla luce poi degli eventi reali accaduti, è moltodifficile da comprendere. Sull'onda della interpretazione politicadella malattia mentale, molta responsabilità dell'insorgere dellapatologia mentale era attribuita all'organizzazione sociale e del lavoro;temi classici: le ricerche sull'alienazione prodotta dal lavoro in fabbricae sulla nevrosi operaia 
Ma ben prestosi pose anche un altro problema, quello della formazione degli operatoridella salute mentale: il passaggio essenziale era la de-psichiatrizzazionedei problemi umani e sociali. Bisognava quindi guardarsi dal cadere neltecnicismo terapeutico e assistenziale e l'antidoto naturalea questo pericolo, sempre incombente, era rivolgersi ai testi politiciper cercare la chiave dei disturbi psichici, anche se veniva riconosciutoche le discussioni sui 'casi' ponevano in ogni momento agli operatori problemitecnici 
Questo significavache le persone che si rivolgevano a quei servizi ponevano una domandadi cura a cui veniva proposta una terapia politica. 
Devo confessareche leggere oggi queste pagine crea una certa situazione di vertigine,pensando a quello che è l'effettivo risultato di questa impostazionevent'anni dopo. Spogliata di qualsiasi bagaglio tecnico, la psichiatriasociale  nella sua pratica nel territorio si è ridotta nelmigliore dei casi a mera  assistenza sociale e gran parte della psichiatriaitaliana, evidentemente consapevole di questo fallimento, si è prontamentericonvertita al riduzionismo biologico, piegandosi supinamente alle tendenzedella psichiatria nord-americana che con la classificazione delle patologieproposta dal DSM ricollocava i problemi psichiatrici sul piano puramentenosografico. 
In tuttoquesto lavorio culturale e politico, che ne era dei pazienti?  
Il progressivoimpoverimento sia culturale che operativo dei vari servizi psichiatriciterritoriali - pur tenendo conto delle debite differenze tra regione eregione - ha prodotto il gravissimo risultato di creare una situazionedi fatto di progressivo abbandono dei malati alle famiglie, di limitarela pratica terapeutica alla pura psicofarmacologia, senza offrire percorsidi riabilitazione e di gestione della cronicità dei malati.  
Questo statofallimentare della psichiatria sociale italiana, mai pienamente riconosciutodai suoi rappresentanti politici, è stato spesso denunciato dalleassociazioni dei familiari dei malati psichiatrici: tra le molte voci voglioricordare quella di Maria Luisa Zardini, presidente nazionale dell'ARAP,che raccolse molte di queste drammatiche testimonianze in un libro pubblicatonel 1986 dal titolo La tragedia psichiatrica
Inoltre alcunipsichiatri anglosassoni Kathleen Jones e Alison Poletti con un articolodel 1986 dal titolo L'esperienza italiana riconsiderata, pubblicatosul British Journal of Psychiatry compiono un'analisi  suiproblemi dei servizi psichiatrici in Italia, in occasione di una visitadiretta alle strutture esistenti nel 1985: ci sembra un'esperienza interessanteda cui partire per una rivisitazione critica dell'applicazione dellalegge 180 in Italia. 

Lo stessoJervis, sempre nell'intervista rilasciata a Repubblica nel 1991, intravedegran parte degli errori dell'anti-psichiatria di quel periodo: maquesto riconoscimento tardivo non è che l'auspicio per un ripensamentocritico da  parte della psichiatria italiana: tale riflessione deveessere ancora compiutamente sviluppata, e soprattutto deve ancora liberarsidalle incrostazioni dovute a schemi ideologici e assunti meramente propagandistici. 

 


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