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GIULIO GIORELLO, Ibi cubavit Lamia [ Postfazione a: S. MORIGGI, Le tre bocche di Cerbero, Bompiani, Milano 2004 ]

[ per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo questa postfazione, che darà, ai lettori di POL.it, un’idea più completa del libro di Moriggi ]

 

 

 

 

 

Molto ho imparato tra le persone di quassù, in fatto di sconsideratezza e di raziocinio.

Thomas Mann, La montagna incantata

 

 

 

"La vigilia del 24 giugno, giorno in cui ricorre la festa di San Giovanni Battista, compatrono di Triora riaccendono ogni anno, a notte iniziata, dei fuochi di fascine di legna detti falò nell’interno dell’abitato di Triora e paesi circonvicini, e sul colle antistante alla chiesa di S. Zane (da Zuane, uguale Giovanni) sul Monte Ceppo". Così leggo alla pagina 10 di Le streghe e l’Inquisizione di Francesco Ferraironi [un classico, 1955, di storia della stregoneria] cui attinge anche Stefano Moriggi in questa descrizione del suo cammino verso ed entro il borgo del Ponente ligure. Poiché si tratta di zona geografica che mi è abbastanza nota (la famiglia di mio padre era dell’alta Val Bormida e un tempo, soprattutto a primavera avanzata, amava la lenta discesa dal Colle del Melogno verso il mare — fino ad Albenga, o a San Remo, o alla stessa Taggia), mi ha richiamato i falò che, come tanti punti lucenti, costellavano le colline, quasi a voler rompere il buio notturno e a regalare ancora frammenti dello splendore di quei giorni che sono tra i più lunghi dell’anno. Il buon reverendo Ferraironi scrupolosamente aggiunge subito che tutti quei fuochi "che si accendono in Liguria per la festa di San Giovanni […] non hanno alcuna relazione con la stregoneria", in quanto si limitano a esprimere "gioia popolare": il che mi riconforta, perché debitamente aiutato e/o sorvegliato da mio nonno e da mio padre, da ragazzino ne accendevo uno anch’io in un campo della nostra casa di campagna — e mi spiacerebbe passare (insieme con Babbo Carlo e nonno Giulio) per uno che fa parte di una qualche "ribalda" setta di stregoni (o come diavolo si chiamino da quelle parti). Sono abbastanza vecchio da ricordarmi di un’infanzia in cui, quando in quella casa mancava anche per qualche ora la luce, l’anziana zia accendeva il lume a petrolio o, per risparmiare, qualche candela, e come fosse affascinante allora il gioco delle ombre sulla parete, mentre si deformano i contorni degli oggetti più abituali, e il silenzio veniva rotto solo dal suono della pendola che evocava antiche malie. Stavo soprattutto in quello che veniva chiamato (impropriamente) il salone di casa, e talvolta, da una stanza vicina giungeva il bisbigliare di una qualche comare che raccontava "che qualcuna doveva aver fischiato, perché lui aveva mandato la grandine", o che la tal ragazza "un po’ scapestrata" aveva lasciato il paese, e forse "lui l’aveva portata via". Non si faceva mai il nome, ma chi venisse denotato dal pronome l’avrà ben capito colui che abbia dato almeno un’occhiata alle pagine di questo volume di Moriggi. Dopotutto, il detto che "Quando insieme ci sono pioggia e sole, si sposan le volpi" era diffuso anche da questa parte del Passo, e non solo in quel di Triora o di San Remo, come ricorda, tra l’altro, lo stesso Ferraironi. Che poi il riferimento all’animale fosse una sorta di eufemismo per indicare di malefiche di cui anche Moriggi ricostruisce le gesta, sarà ormai chiaro al paziente lettore.

Sono abbastanza vecchio da ricordarmi con una certa nostalgia di quando, giovanotto tra liceo e università, divoravo le pagine del Ramo d’oro di Frazer (allora pubblicato nella prestigiosa Serie viola prima di Einaudi e poi di Boringhieri) dove i falò della vigilia si San Giovanni vengono segnalati un po’ dappertutto in Europa. Cosa che il buon Ferraironi pure nota, laddove sottolinea peraltro che "altrove la notte di San Giovanni è stata sempre considerata come propizia agli stregoni", e come al Battista ci si potesse riferire proprio perché ritenuto capace di "fugare i demoni". Trovo curioso che a un indagatore scrupoloso come Ferraironi, così attento al folclore delle parti sue, sfuggisse un tipico meccanismo di rovesciamento. E tra i modi in cui può trovare espressione la "gioia popolare" ce ne sono alcuni che non sono affatto incompatibili con quelle tradizioni che sarebbero dovute venir represse, o addirittura estirpate, dagli zelanti funzionari le cui imprese Moriggi ci ha raccontato.

Stefano Moriggi è una sorta di Candide post-illuministico che non si fida troppo dei fanatici (i magistrati, laici o religiosi che siano, che assurgono a deuteragonisti del suo racconto — perché il protagonista nell’ombra resta sempre lui); che contro di loro fa propria l’ammonizione dell’illuminato gesuita Friedrich von Spee ("chi poi si sentisse ardere di indignazione contro il delitto di stregoneria tenti di controllarsi un poco e unisca a sì gran zelo razionalità e ponderazione", Questione II del suo Cautio criminalis); che non ama l’evocazione né di un Dio né di un Diavolo "tappabuchi", come non la amavano Hume o Voltaire; che non esita a ricorrere alla critica filosofica di Ludwig Feuerbach quando vuol mostrare che tralasciare la componente diabolica finisce col "mutilare violentemente" il Cristianesimo stesso (vedi L’essenza del Cristianesimo, [319-320] e soprattutto [322]: "La negazione del Diavolo è stata considerata ateismo al pari della negazione di Dio"); che nello smontare l’ideologia sottostante della caccia alle streghe si serve dei sofisticati strumenti dell’epistemologia contemporanea, dopotutto, "se ci lasciamo trascinare dagli impulsi e dalla presunzione di sapere tutto, e rifiutiamo di imparare, perché stupirci se poi in molti casi la verità ci sfugge?" (attenzione, però, la battuta non è di John Stuart Mill o di Karl Popper, ma ancora di von Spee); che tuttavia per smorzare gli eccessi iper-razionalistici di quest’ultima si avvale dell’ironia filosofica di Paul Feyerabend (autore, guarda caso, di un celebre Addio alla Ragione), salvo poi attingere alla teoria dei memi di un naturalista come Richard Dawkins anche per contenere gli effetti di una lettura troppo relativistica della faccenda… Ma che infine tempera alcune delle sue considerazioni più speculative (circa il Maligno che aleggia sulla Triora del tardo Cinquecento, come su altri luoghi "segnati" dell’Italia post-novecentesca) con il riferimento al suo Papa preferito, quel Paolo VI che, con la sua audace ammonizione circa la presenza del Demonio, non aveva avuto esitazione a sfidare il senso comune di laici e cattolici troppo "secolarizzati".

Certo, alcune delle ricostruzioni, di necessità congetturali, che l’autore propone in questo Le tre bocche di Cerbero, e forse non poche delle sue tesi circa il ruolo svolto dal Maligno nella formazione della moderna coscienza europea, potranno sembrare incompiute, o addirittura appena abbozzate al lettore che sia piuttosto esigente o magari abbia diversi valori intellettuali, o semplicemente altri gusti. E ciò non solo perché ogni autentica ricerca è interminabile (questo è il senso del progredire, come ama puntualizzare anche un altro Papa, Giovanni Paolo II; vedi, per esempio, Corriere della Sera, 23 agosto 2004); e nemmeno, nella specifica questione di Triora, per la non disponibilità di molti fonti dirette o altro prezioso materiale (come hanno legittimamente lamentato anche Claudio Coppo e Gian Maria Panizza, autori di un serissimo ed elegante saggio dedicato a La pace impossibile tra le casate trioresi, lavoro che Moriggi debitamente utilizza), ma proprio per il carattere intrinsecamente ambiguo di quell’Aleph (come lo chiama Quirino Principe) dello spazio-tempo della geografia italica ed europea che viene normalmente etichettato come la caccia alle streghe (ma c’era anche un maschietto!) trioresi. Ma Stefano Moriggi ha il dono della chiarezza e della piacevolezza di stile; né c’è da stupirsene, visto che si è formato all’Università di Milano con un docente di estetica come Stefano Zecchi. Questo mio riferimento a una materia accademica che sembrerebbe a prima vista piuttosto lontana da quella che io insegno, epistemologia, non paia così peregrino. Le due discipline hanno in comune uno dei problemi più difficili e affascinanti di quello che un nostro vecchio comune maestro, Enzo Paci, chiamava il "problema dell’Enciclopedia" — intesa non come uno statico rendiconto di nozioni, ma come una maniera dinamica in cui continuamente il sapere ripensa se stesso: il continuo va e vieni dal locale al globale, che è anche il gioco a cui l’autore di Le tre bocche di Cerbero si espone con coraggio ogni qualvolta dalle alture trioresi, dove il cane infernale avrebbe lasciato cadere la sua bava affinché potessero germogliare i fiori della trasgressione, idealmente spicca il volo a indagare le strutture di fondo dell’immaginario e della sua censura, della politica e della sua sublimazione teologica, del rapporto mente-corpo e delle elusive connessioni tra visibile e invisibile.

Ai due Stefano (Moriggi e Zecchi) mi piace dedicare, a proposito di città arroccate sui monti ma che guardano lontano verso il mare, un passo di un autore che so che entrambi molto amano: il Thomas Mann della Montagna incantata — un passo che la dice lunga su come anche la società più perfetta abbia difficoltà a rinunciare alle proprie streghe con le loro peculiari abitudini alimentari. Nell’episodio "Neve" del capitolo VI del romanzo (tr. it. e introduzione di E. Pocar, Corbaccio, Milano 1992, pp. 437-465), un Hans Castorp, sempre meno dis-incantato ma sempre più sicuro sugli sci, si avventura in un’escursione e viene sorpreso dalla tormenta. Stordito, quasi assiderato, ha la visione di un felice "popolo solare", in una indefinita regione ove "i monti si allungavano in promontori, irti di boscaglia, protesi nel mare". Ma mentre contempla fanciulli e adolescenti "belli, sani, saggi", un giovane di "una serietà quasi petrigna" gli accenna l’entrata di un tempio "massiccio, grigio verdognolo per l’azione del tempo". Cautamente Castorp lo esplora, "pieno di angoscia e di presentimenti" fino a spingersi nella cella più segreta di esso. E allora

alla scena che gli si presentò il poveretto si sentì quasi spezzare le ginocchia. Due donne grigie, seminude, coi capelli scarmigliati, i seni da streghe penduli e i capezzoli lunghi un dito, erano impegnate là dentro, tra sfiaccolanti padelle di fuoco, in un lavoro orribile. Sopra un catino sbranavano un bambinello, lo sbranavano con le mani in un silenzio sinistro — Castorp vide teneri capelli biondi lordi di sangue — e ne divoravano i pezzi facendo scricchiolare tra i denti i fragili ossicini, mentre il sangue sgocciolava dalle loro labbra selvagge. Un gelido spavento lo fece inorridire. Voleva coprirsi gli occhi e non poteva. Voleva fuggire e non poteva. Quelle intento, nella loro orrenda bisogna, avendolo già scorto lo minacciavano coi pugni insanguinati, lanciando insulti afoni.

Ma è solo un sogno e Castorp si ritrova "coricato su un braccio nella neve, la testa contro la capanna, le gambe lunghe distese con i piedi allacciati agli sci". A quella visione "deliziosa e terrificante" resterà grato: poiché lo ha spinto a riflettere

I sogni non nascono soltanto dalla propria anima, direi, ma possono essere anonimi e comuni, sia pure a modo loro. La grande anima, della quale sei soltanto una particella, sogna, sì, talvolta per opera tua, a suo modo, cose che in segreto sogna sempre, …la sua giovinezza, la sua speranza, la felicità, la pace…e il suo banchetto cruento.

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