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Federico Leoni

Psyché / ethnos. Per una critica filosofica dell'etnopsichiatria

Lezione tenuta il 24 aprile 2002 all'interno del corso di "Storia del pensiero scientifico", del prof. Mario Galzigna (Università di Venezia, Facoltà di Lettere e Filosofia)

Gran parte delle difficoltà (filosofiche, epistemologiche, e quindi terapeutiche, e quindi politiche) in cui l'etnopsichiatria si dibatte sembra derivare dal paradosso, per lo più inavvertito come tale, sul quale essa sembra essere interamente costruita. L'etnopsichiatria è nata, in primo luogo, come etnopsicopatologia (solo successivamente si è posta, cioè, la questione terapeutica): in primis la domanda è quindi stata, diciamo così, fenomenologica, descrittiva. Ora, descrittiva di che? Lo dice il termine stesso: descrittiva dei pathemata, dei perturbamenti e delle malattie della psyché dell'altro, dell'altro ethnos. Ecco allora il punto, ecco il modo in cui il paradosso di cui prima potrebbe essere espresso: già la forma di questa domanda determina il contenuto di ciò che la descrizione crederà di trovare sul campo. Essa decide infatti preliminarmente che, là dove si incontrano uomini, se ne incontrano le dimensioni della psiche e dei perturbamenti o delle malattie psichiche. Decide, cioè, che l'esperienza è esperienza psichica. Il problema etnopsichiatrico, etnopsicopatologico diventa allora quello di una comparazione (Vergleichende psychiatrie, così suona il titolo di un celebre, a suo tempo, testo di Emil Kraepelin, in qualche modo inaugurale rispetto a tutto il progetto dell'etnopsichiatria). Di una comparazione tra le diverse forme che la cultura imprime a questa comune materia che è lo psichico, e a questa comune problematica che è quella della malattia o del perturbamento psichico. Ma non ha forse cominciato a comprendere l'Europa che quella della psiche, lungi dall'essere la materia prima e originaria dell'esperienza, è semplicemente la forma che l'esperienza ha assunto sotto la pressione di alcuni eventi epocali che sono quelli della cultura europea stessa, quella in cui essa si risolve quasi senza residuo? Il castello di carte di questa comparatistica, allora, crolla. Non si stava comparando nulla: si proiettava semplicemente, per dire così, "noi" sugli "altri".

È istruttivo vedere come questa curiosa vicenda si trovi confermata e acuita proprio nel momento in cui con più forza — e, va detto, con più coraggio — la psichiatria si è ritrovata decisa a difendersi da se stessa e dalla propria storia. Storia che, si sa, è pesantemente segnata dalla servitù nei confronti di un'intera costellazione di premesse positiviste, evoluzioniste, razziste, la reazione alle quali determina ancora in larga parte le problematiche e le prospettive attuali del lavoro etnopsichiatrico. Per limitarsi, di nuovo, all'essenziale: all'origine dell'etnopsichiatria sta la negazione di una qualsiasi prossimità dei modi di vita di pensiero africani ai tratti, alle caratteristiche, agli standard dell'umanità europea. Il che andava inteso, naturalmente, in senso negativo: quelle africane sono popolazioni prive di psiche, cioè ferme ad uno stadio evolutivo biologico inferiore a quello europeo, lontane mille miglia dalla raffinata civiltà, dalle complesse espressioni, dai molteplici modi di sentire e pensare, gioire e soffrire che sono fioriti a nord del Mediterraneo.

Comprensibile, quindi, il fatto che reagendo alla brutale violenza ermeneutica di queste tesi — e delle pratiche ripugnanti dello schiavismo, della colonizzazione, dello sfruttamento che ad esse si accompagnavano (traendone pretese giustificazioni) — l'etnopsichiatria abbia proceduto per rovesciamenti successivi: non è affatto vero che quelle africane siano civiltà prive di raffinatezza; non è affatto vero che la vita sociale e culturale e personale che vi si svolge sia ignara di profondità; non è affatto vero che non vi sia anche laggiù, per usare una vecchia parola, anima. Anche l'Africa conosce le vibrazioni e i turbamenti dell'interiorità, anche l'Africa si ammala esistenzialmente. Anche l'Africa, di più, conosce qualcosa di simile a quella Stimmung così eminentemente europea, così rarefatta e, nel suo dramma, superiore, che è la melanconia. Il tentativo di rintracciare e dimostrare l'esistenza di un typus melancolicus africanus è così diventato una sorta di experimentum crucis: epistemologicamente decisivo per la psicologia e la psichiatra europea, e umanamente salvifico per la buona coscienza scientifico-politica dell'Europa ancor prima che per l'Africa.

Anche l'Africa, si è quindi concluso, ha una psiche. Ora, senza voler mettere in dubbio gli intenti, nobilissimi, di questo tragitto, è difficile resistere alla sensazione che qualcosa di diverso e di troppo, rispetto a quel che si aveva di mira, sia stato così ottenuto. Per mostrare cioè che l'africano non è inferiore all'europeo, gli si è attribuito qualcosa di così irriducibilmente europeo come la psiche. Si è dato per scontato che la forma europea dell'esperienza, la forma psichica, sia la forma universale dell'esperienza. Al limite, che quella melanconica sia la forma universale dell'esperienza psicologica-psicopatologica (un discorso a margine, in parte sovrapponibile a questo, meriterebbe la schizofrenia). Sicché la giusta ambizione ad una comprensione dell'altro juxta propria principia è sfociata — ecco il paradosso — in un suo fraintendimento radicale: in un fraintendimento il cui eurocentrismo universalista non è meno profondo, benché meno aspro, all'apparenza, di quello passato.

Che fare? Che fare, di più, nel momento in cui la categoria dell'interiore e dello psichico mostra la corda persino in Europa? Che fare quando è chiaro che non solo la geografia del mondo contraddice la presunta universalità della forma psichica, mostrando che altri luoghi hanno dato vita ad altre umanità dotate di altri modi d'esperienza, ma anche la storia europea ha fatto questo, almeno a partire da Snell, Onians, Kereny? Che, cioè, anche in Europa la psiche non è sempre stata di casa, forse non lo sarà più, e non lo è mai stata compiutamente? Che ne è, che ne sarà di una psicologia e di una psicologia senza psiche, che sembrano talvolta il traguardo più necessario in termini di libertà e felicità per gli uomini (non europei ed europei, in effetti), oltre che di verità delle loro teorie?

Si obietterà: che in Africa ci sia dell'interiorità, questo però è davvero qualcosa che, empiricamente, lavorando sul campo, emerge con chiarezza (così come con chiarezza emerge che c'è dell'interiorità in Europa, al di là di ogni critica all'universalismo coscienzialista dell'Europa). Esaminiamo allora queste evidenze raccolte sul campo. Si sa, difatti, quanto importante e quanto prezioso sia, anche per la filosofia, il lavoro empirico delle scienze umane. Ascoltiamo allora ciò che dicono le culture africane in questione nel momento in cui parlano di esperienze "interiori", di esperienze "psichiche", vuoi comuni, abituali, vuoi eccezionali e, diremmo noi, patologiche. Ascoltiamolo, naturalmente, con tutte le cautele dovute all'ignoranza nostra di queste lingue, e al rischio che la questione della traduzione sempre comporta, qui aggravato dalla distanza abissale dei modi di vita che essa deve accostare, accostando lingue diverse, gli uni agli altri.

Ecco qualcuna almeno di queste espressioni raccolte sul campo: kinde lei lei, "il cuore due due"; ku-kommu, "la testa legata" (cioè, noi diremmo, "avere un'idea fissa"); kinde yamu, "cuore guastato, rovinato". Così presso i Dogon del Mali, studiati tra l'altro dall'italiano Roberto Beneduce nel corso di alcuni anni di lavoro etnopsichiatrico e di riflessioni recentemente confluite in un bel saggio cui rinvio. Ora, domandiamoci appunto in che senso ci sarebbe, in tutto questo, qualcosa di "interiore", o di "psichico", come spesso è dato leggere, sia pure, talvolta, tra imbarazzate virgolette, tra etnologi ed etnopsichiatri. Da dove ci viene quest'idea circa l'"interiorità", circa il carattere "interiore", di queste esperienze? Dal fatto che è con la "testa" che si pensa? Ma per chi è vero che è con la testa che si pensa? Per chi è vero che il "cuore" è un organo che sta dentro di noi e che "metaforizza" certe funzioni, stati d'animo e così via, cioè infine che "somatizza" qualcosa che è quindi non-somatico e che origina e trae senso da un presunto "altrove" (la "testa", appunto)? Può essere vero che è con la testa che si pensa per quella stessa persona che in un'altra circostanza attribuisce al cuore il suo essere "due due", spezzato, o "debole", o altro ancora? O è piuttosto vero per noi — noi europei, noi platonico-cartesiani, noi psicologi… — e solo per noi? Oppure si sta sostenendo che è questione, qui, di interiorità, perché il cuore è "dentro di noi"? Ma che significa appunto "dentro di noi"? "Noi" chi? In che senso è "mio" questo cuore? In che senso questo cuore che batte ora all'impazzata nel mio petto "sono io", è la mia interiorità, è "i miei pensieri" e la "mia" "testa"? In che senso questo battito che mi travolge viene dalla mia intimità, se è anche qualcosa che — diciamo solitamente, senza neppure comprendere quel che diciamo — la investe come da fuori o da altrove, la scuote alle radici, la pone "fuori di sé", in una condizione in cui non è dato sperimentare alcun "governo" o alcuna esperienza di "proprietà"? Ancora, come questo cuore che è "due due" è però ancora il "mio" cuore, se appunto si sta dicendo che "io" sono questo "mio" cuore ma anche che questo cuore è "doppio"? Anche l'io, qui, diventa "due due". Ma qualcosa che è "due due" come può mai coincidere con qualcos'altro, e può mai essere una proprietà, un "sé", un essere "suo" o "tuo" o "mio"?

Non appena si tenti di guardare con minimale rigore fenomenologico ciò che si sta dicendo e ciò che si sta provando e osservando "sul campo", le nostre categorie e abitudini di pensiero si avvolgono in paradossi inestricabili. Quella che a Descartes pareva la salda roccia su cui costruire il suo edificio si rivela a sua volta labile sabbia. Quella che sembrava potere e dovere essere l'ancora di salvezza di un'etnopsichiatria nata dalla negazione della psichicità degli africani, dunque della loro dignità di uomini, ci svanisce tra le mani. E insieme ad essa svanisce — non avremo modo di occuparcene, in questa sede — l'ancora che doveva salvare anche la psichiatria europea, nei suoi rapporti con le psicosi europee, da quell'altra brutale riduzione, di identica radice positivista, per dire in fretta, che era la riduzione della psichiatria alla neurologia, o l'instaurazione della psichiatria come mera filiazione, appendice, specificazione del ceppo neurologico.

(A margine. Dico non a caso "la psichiatria europea nei suoi rapporti con le psicosi europee". Non è infatti anche questa, la nostra psichiatria, la psichiatria "pura e semplice", una etnopsichiatria? Salvo che, in questo caso, l'ethnos siamo noi e quindi ci ignoriamo come tali, ci prendiamo come anthropos tout court. Ma se è così, e se da un lato è necessario, si diceva, rintracciare la genealogia della psyché europea (a partire da Omero o Platone; poco fa facevo i nomi di Snell, Onians, Kereny), non meno importante è rintracciare la genealogia della nozione, ancora una volta europea, di ethnos (diventa necessario, ad esempio, leggere Erodoto, che per certi versi e riguardo certe decisioni fondanti, come questa che rende "invisibile" e "ingiudicabile" l'ethnos che vede e discute degli altri popoli, ancora parla nell'etnografia di oggi, in Lévi-Strauss per esempio). E, con quella di ethnos, è importante ricostruire il tragitto dell'idea che ne è la sorella gemella: l'idea di Europa, cioè, l'idea dell'umanità europea come unica umanità non-etnica, universale, a partire da cui ciascun ethnos emerge come tale (cioè come umanità particolare, o, tendenzialmente, come non-umanità: come umanità incompiuta, imperfetta, e in ogni senso "privata".)

Dunque, ripartiamo di qui: tentiamo di guardare davvero ciò che "sul campo" abbiamo raccolto e, grazie al lavoro etnopsichiatrico, etnografico, antropologico, abbiamo ora sotto i nostri occhi. Naturalmente, senza dimenticare che anche questi "nostri occhi" vanno messi in conto, con il loro carico di abitudini, deformazioni, storia... Quel che si tratta di fare, per cominciare, è ascoltare davvero ciò che abbiamo già provato ad ascoltare: "il cuore due due", "la testa legata", "il cuore debole"… Formuliamo un'ipotesi minimale: la dimensione d'esperienza cui tutto questo si riferisce non è quella dell'interiorità, ma quella dell'emozione. Si obietterà, di nuovo: ma non è forse il medesimo che si sta dicendo? L'emozione non è forse l'emblema, il tratto più proprio dell'interiorità? Emozione e interiorità non sono in qualche modo sinonimi? Tutt'altro. Le cose non stanno affatto così. L'inciampo in cui i nostri saperi della psiche e della psicopatologia sono impigliati è, anzi, proprio questo. Potrebbe essere riformulato in questi termini, infatti: si tratta dell'inciampo di chi non sa pensare (non sa più pensare, vedremo tra poco perché) l'emozione che come esperienza interiore. Di chi non può più pensare, più precisamente, l'emozione che come esperienza psichica, o mentale, o come altro si voglia dire — cioè corporea, sensibile, e così via. Questi termini (corporeo, sensibile…) sono semplicemente i correlati dei primi (interiore, mentale…), e non si può credere di essere sfuggiti alla presa dell'architettura occidentale dell'interiorità solo perché si è fatto appello a ciò che dell'interiorità è il necessario correlato, la dimensione residuale, l'altro con-costituito con lo stesso e nello stesso, in virtù di una medesima decisione o costruzione culturale). Ma, si vedrà, pensare l'emozione come interiore è non solo e in senso generico un'imprecisione, ma, più alla radice, una contraddizione assoluta.

Dunque, se poco fa si diceva che il punto sta nella possibilità eventuale di pensare una psicologia senza psiche, una psicologia al di là della psiche, ora potremmo precisare il progetto in questi termini: il punto sta nella possibilità eventuale di pensare l'emozione (l'emozione delirante così come l'emozione non delirante, l'ambito che abitualmente diremmo psicologico così come quello che diremmo psicopatologico) altrimenti che come esperienza interiore. O anche: pensare l'emozione o l'affetto altrimenti che come "sentimento". È un'impresa possibile? È un'impresa sensata? Quel che si tratta di fare è, di nuovo, semplicemente ascoltare. O, per giocare con le parole, quel che si tratta di fare è ascoltare semplicemente: il più semplicemente possibile. Proviamo.

Che cosa diciamo quando diciamo emozione? Che cosa dice la nostra stessa lingua quando dice emozione? Proviamo a pensare e scrivere così: e-mozione. E-mozione nomina allora, se volessimo esprimerci nel modo più elementare, più disarmato, un movimento che viene da fuori: e-motio, ex-motio. Consideriamo allora, prima di compiere altri passi, la costellazione di senso entro cui incontriamo, nella lingua latina, questi elementi. Motus è, naturalmente, il movimento; tra i primi esempi di motus, in un dizionario si troverà, ad esempio, solis et lunae motus, il movimento del sole e della luna; motus corporis, il gesto; terrae motus, il movimento della terra, alla lettera il terremoto; motus animi, moto dell'animo; mentis motus è invece, piuttosto, non un moto ma un turbamento della mente. Motio indica a sua volta un movimento, un impulso, più precisamente. Suaves motiones, l'espressione è di Cicerone, sono delle piacevoli impressioni; motio, in alcuni contesti, è invece il brivido o il tremito della febbre. Infine, la particella e, ex: essa indica, in primo luogo, un moto da dentro a fuori. Questo sembrerebbe anzitutto riportarci a ciò che dicevamo essere inadeguato, e che proprio sul filo dell'etimologia del termine e-mozione speravamo di decostruire e riportare alla luce nel suo statuto originario. Ex indica un movimento da dentro a fuori. Il che significa, però, in primo luogo, che ciò che stiamo via via pensando sul filo del termine emozione, implica che si dia — nel punto più intimo dell'esperienza, nel punto più interiore, se vogliamo attenerci a questa lettura cui siamo nostro malgrado riportati — un rapporto essenziale con l'esterno. Incontriamo un uscire da dentro a fuori, appunto. Non è tutto. Più profondamente, la cosa sta così: se non ci fosse un tale fuori cui il dentro si indirizza, non ci sarebbe neppure questo dentro; la relazione tra dentro e fuori è una relazione originaria, cioè una relazione che precede e istituisce, e non che segue, i termini che in essa si trovano correlati.

Si tratta, in altri termini, di pensare la dynamis di questa relazione, non la sua energheia, non la sua attualità, non il suo essere già in atto. Se non c'è un fuori cui il dentro si indirizzi, non c'è neppure un dentro. Sicché non si deve pensare il dentro come originario, ma come derivato, o, almeno, come co-originario, come con-costituito. (Sottolineo appena la provenienza fenomenologica di questi due ultimi termini: tutta la questione dell'intenzionalità non è che questo stesso gioco del dentro e del fuori (spesso invece ridotto alla sua formulazione più rapida, e perciò incompresa, e perciò fraintesa in senso unilaterale, unidirezionale: "la coscienza è intenzionale, la coscienza è sempre coscienza di qualcosa, e di qualcosa che è, naturalmente, fuori di essa, che è l'oggetto intenzionato".)

Torniamo però ancora alla particella ex. Potrebbe venir fatto di pensare come originario il fuori, come in effetti poco fa è capitato. Anche così infatti l'ex potrebbe essere pensato, in uno dei suoi molti significati secondari, e entro una delle costellazioni di senso cui è legato: extra, ecc. Ma, di nuovo, come pensare questo fuori originario, senza qualcosa che sia fuori dal suo essere fuori, cioè dentro? Neppure il fuori è originario, dunque. Anche in questo caso non è sufficiente (Heidegger lo ha visto e insegnato definitivamente) rovesciare semplicemente la posizione che si rivela a un dato momento inadeguata alle "cose stesse". Rovesciare significa mutare di segno qualcosa che si rischia però di riprodurre tale e quale. Rovesciare rischia di prendere le misure da ciò che viene rovesciato. Ciò che, per noi, ora, si tratta forse di mettere a fuoco è, invece, il movimento, appunto, la motio, la dynamis che mette il fuori fuori da sé, partorendo con ciò il dentro, per dire così. E, insieme, il movimento che mette questo dentro dentro al suo fuori, dentro a sé stesso come fuori.

Ciò che si tratta di mettere a fuoco è, cioè, questo movimento di oscillazione tra dentro e fuori (questa co-originarietà, si diceva, questa con-costituzione) nel momento in cui non c'è in effetti né dentro né fuori, tuttavia, ma solo un congiunto divenire-fuori e divenire-dentro (un congiunto divenire-fuori del dentro e divenire-dentro del fuori). Nota bene: un congiunto divenire-dentro e divenire-fuori che non è né dentro né fuori, un divergere unitario di uno stesso, certo, ma di uno "stesso" che appare uno stesso solo nella differenza e nell'alterazione accaduta.

Un qualsiasi motus corporis, ecco poi di che si tratta quando si parla di "movimento": due mani che si sfiorano, una carezza o uno schiaffo, uno sguardo… Ciascun gesto è un tale movimento e una tale relazione originaria, ciascun gesto è tutt'uno con questa originaria e-mozione (non una sua "espressione", il che presupporrebbe troppe cose, ma il suo evento, il luogo della sua, diciamo così, perfetta non-presupposizione). Questo movimento divergente e dialettico, questa non coincidente coincidenza con sé, e nient'altro, è l'e-mozione nel suo senso fenomenologicamente originario, è il movimento originario dell'esperienza.

(Non ripeto, qui, le molte analisi che si sono occupate, con via via crescente precisione, di questo scambio o di questo intreccio originario del dentro e del fuori; mi limito a fare qualche nome: Husserl, nel II libro delle Ideen; Merleau-Ponty, nel Visibile e l'invisibile; Sini, nel Simbolo e l'uomo; mi limito ad accennare che tutte queste analisi hanno via via compreso e ritrasformato, peraltro, il senso di questo "originario", mostrando come esso non sia da intendersi come un "originario in sé", un "originario assoluto", dunque come un fondamento indubitabile e universale, ma come l'indeterminato di quel determinato che noi e le nostre categorie e forme d'esperienza siamo, come quel luogo genealogico cui è dato pervenire nella decostruzione della trama della nostra fisionomia e a partire dalla nostra fisionomia e dalla nostra comprensione della fisionomia dell'altro).

È forse questo "movimento" — infine, tornando a noi — quel luogo non psicologico della psiche, quella consistenza non-sentimentale dell'affetto di cui eravamo in cerca: lo spazio non soggettivo a partire da cui si dà soggetto (e si dà oggetto), a partire da cui si dà sé (e si dà mondo), nella miriade dei modi in cui essi si danno (cioè nella miriade di linguaggi, gesti, pratiche, forme-di-vita entro cui via via si traduce quel movimento, sino a originare in certo luogo e certo tempo ciò che chiamiamo "psiche" e ciò che chiamiamo "mondo"). È, in ogni caso, questo movimento il "rimosso", per dire così, delle nostre scienze psichiche (delle nostre scienze umane, più in generale) cui si tratta di fare ritorno. A partire dalla riscoperta e dal confronto con questo "rimosso" esse possono forse provare a riguadagnare il senso e la consapevolezza perdute della propria stratificazione e costruzione, concettuale e esperienziale. E a riguadagnare, con ciò, il senso della propria finitezza, e, con esso, la consapevolezza della finitezza del proprio senso: finitezza epistemologica, ma anche, e più radicalmente, umana e politica.

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