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I "CRIMINI PROFONDI" DEI GIOVANI E L'AUTOCRITICA DEGLI ADULTI

di Mario Galzigna

Delitti giovanili spietati, rivolti spesso contro i familiari: difficilmente interpretabili, apparentemente privi di movente, oppure, in certi casi (penso alla vicenda di Maso), riconducibili ad un movente assolutamente sproporzionato all'entità e all'efferatezza del gesto. Lo scenario di Novi turba le nostre coscienze. E turba, innanzitutto, la coscienza dei giovani. In tanti anni di insegnamento universitario non ho mai visto, da parte degli studenti, una reazione emotiva così intensa, un bisogno di capire così radicale, uno sgomento così profondo, direttamente proporzionale all'impossibilità di attribuire questi crimini efferati al marginale, al deviante, al delinquente incallito, al diverso o all'immigrato. Questi "mostri ragionevoli" — come li definiva l'alienista parigino Etienne Georget, nel lontano 1826 — abitano lo spazio della nostra quotidianità, della nostra normalità, del nostro ambiente familiare e sociale; e proprio per questo fanno paura: non soltanto portano alle soglie della coscienza fantasie distruttive che appartengono ad ognuno di noi, ma le trasformano, entro particolari condizioni, in un gesto estremo, in un'azione concreta, in un crimine. La spiegazione sociologica, a questo livello, ci dice assai poco. I delitti dei "mostri ragionevoli" si ripetono, in tempi ed in luoghi differenti, secondo modalità spesso molto simili tra loro: dal parricida Pierre Rivière, studiato da Michel Foucault, fino a Maso ed ai fidanzati di Novi. Edgar Allan Poe parlava, per casi simili, del deep crime, del crimine profondo, apparentemente gratuito e privo di moventi. Gli alienisti francesi del primo Ottocento, coniavano, parallelamente, nuove categorie nosografiche: mania senza delirio (Pinel), monomania omicida (Esquirol), follia lucida (Trélat). Oggi le categorie sono mutate. Romolo Rossi, ad esempio, per il serial killer Donato Bilancia, ricorre alla sindrome da narcisismo maligno (malignant narcisism), forse applicabile anche a molti giovani assassini: i delitti, qui, trovano la loro spiegazione in una sorta di esigenza di risarcimento da ferite narcisistiche arcaiche. Al di là della differenza delle tipologie, colpisce, in tutte queste vicende, la coesistenza di ragione e follia, la capacità di razionalizzare — o di descrivere razionalmente — l'agìto: e dunque, come avrebbe detto Pinel, l'assenza di delirio.

Sappiamo, oggi più di ieri, anche grazie a due secoli di pensiero psichiatrico, che il nostro bagaglio pulsionale è abitato da spinte distruttive e da inclinazioni perverse; l'inferno del nostro inconscio — uso qui un'espressione di Freud — non è lastricato di edificanti propositi e di buone intenzioni. Lo stesso Freud, non lo si dimentichi, tematizzò, a partire dal 1920, un istinto di morte (Thanatos), che appartiene strutturalmente, insieme ad Eros, alla nostra specie. L'Io, in questa prospettiva, è un costrutto: è il risultato di una mediazione, di un compromesso tra spinte pulsionali ed etica sociale dominante. La coscienza morale e l'orizzonte dei valori condivisi (il freudiano Super-io) - i cui primi vettori sono, per il bambino, le figure genitoriali - rappresentano l'unico argine possibile, l'unica maniera, per il soggetto, di trovare un equilibrio con se stesso, con gli altri, con l'ambiente circostante. Addomesticare le pulsioni, filtrarle, trasformarle, favorendo così il processo di incivilimento e mettendo in scacco la distruttività che appartiene a tutti noi: questa, a ben guardare, dovrebbe essere sia la finalità esplicita di ogni azione educativa, di ogni strategia terapeutica efficace, sia la premessa di ogni dialogo possibile tra il mondo adulto e l'adolescenza. Solo in alcuni soggetti — criminali spietati, folli omicidi, giovani assassini, omicidi seriali — salta la distinzione, saltano le barriere tra mondo fantastico interno, conscio ed inconscio, e realtà esterna. La psicologia di tali soggetti, tra loro assai diversi, è dominata dall'acting out, dalla acted sadistic fantasy; presenta, dunque, un denominatore comune: una lacerante dissoluzione dei confini tra fantasie distruttive interne e mondo esterno.

A ridosso dei fatti di Novi, si moltiplicano, nei giornali e nei dibattiti pubblici, gli inviti al dialogo: si sollecitano adulti e famiglie a dialogare con i bambini, con gli adolescenti, con i giovani.

Per evitare che questi richiami alla necessità dell'ascolto e del dialogo, in se stessi ineccepibili, mettano capo ad una retorica vuota ed inutile, è lecito porsi qualche interrogativo preliminare. In quale misura i genitori, e, più in generale, il mondo adulto, sono in grado di aprire questo dialogo? Esistono, oggi, nel mondo adulto, valori condivisi e profondamente radicati che possano favorire l'efficacia e la produttività di tale dialogo? Vorrei invitare il lettore ad uno sguardo d'assieme, qui necessariamente sommario, su alcuni dei "valori" dominanti e condivisi della nostra vita collettiva: la corsa al danaro, l'accesso ai simboli di stato, ai gadget, ai consumi, la logica dei rapporti di potere, la spinta ad "apparire", il tentativo, spesso patetico, di diventare uniformi, tutti eguali, "conformi alla regola", come diceva Nietzsche; ma non solo: nella famiglia media, "normale", troviamo molto spesso la paura delle emozioni, l'anestesia degli affetti, la difficoltà a riconoscere e a dare spazio ai sentimenti, alla passione amorosa, alle ambivalenze, agli alti ed ai bassi, alle luci ed alle ombre — ai piaceri e alle disillusioni — che tutte queste dimensioni fatalmente implicano. Questo mondo anestetizzato ed emozionalmente povero, vuoto, terribilmente vuoto sul terreno dei valori — e quindi incapace di incanalare e di mediare le pulsioni aggressive — è il brodo di coltura della incomunicabilità, della violenza, del gesto trasgressivo ed efferato. Aprire il dialogo con i giovani — predisporsi, dentro e fuori dalle famiglie, alla comprensione ed all'ascolto — implica, da parte dell'adulto, un atto di coraggio: una radicale autocritica, una reale capacità di mettersi in discussione, una effettiva disponibilità a mettere a fuoco la nostra complicità con questo disperante vuoto di valori; un vuoto che marchia a fuoco la vita delle nostre istituzioni, dei partiti, della politica, ed anche la vita quotidiana e familiare di ognuno di noi. In tanti anni di attività didattica, prima nella scuola, poi nell'università, ho verificato personalmente la necessità imprescindibile di questo atteggiamento autocritico: se si vuole avere qualche possibilità di accedere al mondo interno dei giovani con cui si entra in contatto, occorre mettere anzitutto in gioco e in discussione se stessi. Il cosiddetto vuoto di valori, a torto considerato come appannaggio del mondo giovanile, non è che lo specchio disperante del vuoto di valori che scandisce la vita individuale e collettiva degli adulti. Solo a partire da questa tragica consapevolezza sarà forse possibile aprire un dialogo capace di migliorare entrambi gli interlocutori.

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