Editoriale Gennaio 1997

Contributo alla discussione di Albertina Seta

La scadenza del 31-12-96 per la chiusura degli OOPP, decretata dalle Legge Finanziaria '95, ha sollevato e continua a sollevare un vivace dibattito.

Nella chiusura degli OOPP, molti vedono l'auspicato epilogo di un processo di "riforma" delle strutture psichiatriche secondo le direttive della legge 833 (artt 33,34,35,64,65) del 1978, meglio nota come "riforma Basaglia" o "legge 180". Molti inoltre ritengono che ciò avvenga con un ritardo più o meno colpevole ed in una situazione di carenza nell'attuazione delle "strutture alternative" che la stessa legge prevedeva in sostituzione alla degenza negli OOPP.

La chiusura degli OOPP rappresenta solo uno dei due aspetti nodali della "riforma" in questione, l'altro essendo costituito dalle norme per il ricovero. Di queste ultime, per ora, sembra si parli molto meno in sede giornalistica.

Le ragioni per cui la questione della chiusura degli OOPP sembra suscitare un maggiore interesse della stampa e della opinione pubblica sono molteplici. Ne indicherei qui sostanzialmente due: una è il suo carattere emblematico: la chiusura dei manicomi è stata vista per molti anni (e da molti viene ancora vista così) come il segno tangibile di una chiusura con il passato, il riscatto da una vergogna nazionale, un atto umanitario necessario per porre fine all'ingiustizia di inutili sofferenze inflitte a nostri simili tenuti in uno stato di segregazione e di abbandono.
La seconda è rappresentata dalla preoccupazione per il destino degli attuali degenti. Come si provvederà a loro? In quali strutture verranno accolti? I dati ufficiali stimano l'attuale popolazione degli OOPP in 16 mila(Min.Sanità), 17 mila(I.Med.Soc.), 20 mila (Associazioni Familiari) unità, ovvero un numero consistente di malati che "uscendo" andrebbero a gravare sulle strutture sanitarie esistenti, già difficilmente in grado di rispondere alle esigenze dei cittadini.

Entrambe queste ragioni, per quanto genericamente condivisibili potrebbero, ad un esame più approfondito, rivelarsi inesatte o mal poste, o quanto meno meritare approfondimenti e precisazioni. L' esame di alcuni dati a nostra disposizione può forse aiutarci a comprendere meglio i termini del problema.

Dunque, fermo restando che:
1) la chiusura degli OOPP resta il fatto emergente al centro della discussione,
2) che ciò sollecita doverose risposte istituzionali (e non solo) consistenti in soluzioni per questi malati e per le loro famiglie,
3) che la dimissione di questi pazienti, come più volte indicato, dovrà essere gestita dalle attuali strutture sanitarie pubbliche e
4) che ciò potrà influire sull'efficienza di tali strutture sollecitando risposte ad ulteriori problemi

ci si chiede quanto sia opportuno proporre un approccio un po' più avvertito a queste problematiche, che peraltro indubbiamente richiedono soluzioni urgenti, concrete e, perchè no? posizioni non pessimistiche.

Passando ad un esame dei dati, oltre a quello già citato del numero degli attuali degenti (16-17-20 mila), andrebbe valutato il dato diagnostico. Ora più che secondo una diagnosi psichiatrica, questi pazienti il più delle volte sono raggruppati secondo categorie di tipo socio-assistenziale (a seconda dell'autosufficienza o meno, della necessità di assistenza 24h/24, della inseribilità o meno in strutture riabilitative) e questo perchè, e la cosa non viene detta quasi mai con chiarezza, essi per la maggior parte sono affetti da patologie fisiche (handicap) o rientrano nell'ambito della cosiddetta psicogeriatria, ovvero non possono essere considerati dei veri e propri pazienti psichiatrici.

In una intervista a "Panorama della sanità"(n.36-38) il prof. Scapicchio dichiatra che solo il 15-20% degli attuali degenti negli OOPP rientra nella categoria di malati di mente, il resto sono anziani o portatori di handicap. Il che gli fa concludere che la chiusura dei manicomi consisterebbe in una migliore gestione (in piccole comunità di una ventina di persone) di circa due o tremila pazienti psichiatrici, per il resto si tratterebbe di prevedere la riconversione delle strutture esistenti, ove sia possibile, o il trasferimento in luoghi di lungodegenza.

Il dato ulteriore, su cui sia Ministero della Sanità che l'Istituto di Medicina Sociale concordano, che l'età media dei degenti si aggira attorno ai 65 anni di età, ci fa capire, inoltre come anche nel caso di pazienti psichiatrici, si tratti di una popolazione di cronici anziani e dunque difficilmente inseribile in programmi di riabilitazione, ad esempio lavorativa.

Questi dati dovrebbero consentire di capire meglio l'affermazione, apparentemente provocatoria o paradossale e che qui mi sento di poter fare, che la chiusura degli OOPP non è un problema della psichiatria.

In effetti la questione sembra sollevare problematiche di carattere socio-assistenziale, piuttosto che medico-terapeutico. C'è a mio avviso una grossa differenza tra questi due ambiti di attività che per il momento sono entrambe di pertinenza delle strutture sanitarie pubbliche e che spesso, sbagliando, vengono confusi.

Il problema della chiusura degli OOPP si configura come problema di assistenza e non può in nessun modo essere confuso con quello della cura e della possibile prevenzione della malattia mentale.

Detta questa prima cosa, che mi sembra venga detta poco, c'è un altro dato che mi colpisce. Esaminando i risultati di una ricerca dell'Istituto di Medicina Sociale sullo stato di attuazione del PON del Ministero della Sanità ('94-'96), in particolare di un censimento condotto nel '94 sulle strutture presenti sul territorio nazionale, si scopre che non si è poi così indietro rispetto a quanto previsto dal PON.
Nonostante le prevedibili differenze tra regioni e l'arretratezza del meridione (peraltro compensata da un più alto tasso di incremento nella attuazione delle strutture), in particolare le regioni del centro Italia risultano sufficientemente adempienti rispetto alla attuazione dei presidi previsti .

Complessivamente si assiste allo spostarsi del baricentro dai luoghi di ricovero alla gestione territoriale, il che è testimoniato, oltre che dal ridimensionamento delle strutture asilari, dalla riconversione delle case di cura private in strutture riabilitative .

Si può dire inoltre che si assiste ad una crescente integrazione tra pubblico e privato, o meglio al sorgere di un nuovo tipo di "privato" che è stato denominato come "privato sociale" e che raccoglie molte cooperative e associazioni di volontariato.

Quanto detto sembra sfatare un'altra affermazione che spesso si è sentita a proposito della legge 180, ossia che la legge era buona, ma ne veniva boicottata l'attuazione. Sembra che i dati indichino all'opposto un andamento in linea con la filosofia della legge ed in molti casi una pressoché piena attuazione del PON (oltre all'Emilia Romagna, all'avanguardia, tutto il centro Italia e sopratutto la regione Lazio appare abbastanza avanti nell'attuazione delle famose "strutture territoriali)

Sembra di poter prevedere, inoltre, alla luce di questi dati, che soluzioni alla assistenza dei pazienti in dimissione possono essere cercate, e verranno presumibilmente trovate facendo ricorso ad una mediazione tra "pubblico" e questo nuovo "privato sociale", cooperativistico e volontario cfr.il già citato intervento di Scapicchio).

Senza volere con ciò liquidare la problematiche che questo processo di integrazione apre, vorrei però sottolineare come la possibilità di trovare soluzioni concrete ai problemi di coloro che ancora soggiornano negli OOPP, esiste, e non solo sulla carta.

Mi permetterei invece di riportare l'attenzione sul fatto che a questa emergenza della dimissione dagli OOPP non si può ridurre il problema della psichiatria oggi che con queste problematiche ha poco a che vedere.

Il problema vero della psichiatria non può che essere quello della cura e della prevenzione della malattia. O per lo meno della ricerca in questo campo.

Esiste infatti oltre alla questione su cui ci stiamo soffermando della attuazione della Basaglia tutto un ambito che la legge non considera. Problemi che nel frattempo si sono posti alle strutture territoriali. Da quello della cosiddetta"nuova cronicità", a quello della domanda, spesso indifferenziata (ci si rivolge alle strutture, spesso in modo improprio), che sarebbe aumentata del 1000 %.

Il problema è come le strutture possano rispondere agli utenti se non ci si pone quanto meno il problema di distinguere tra "bisogni" assistenziali ed "esigenze" (di cura, di ricerca, di formazione degli operatori).

Viene da chiedersi se non si corra il rischio di lasciare indietro, senza risposta richieste, provenienti ad esempio dalla popolazione più giovane, o di fare scadere, attraverso interventi impropri, la domanda di cura a richieste di sussidi assistenziali (soldi, casa etc.) promuovendo così una sorta di "cronicità iatrogena".
Il processo di aziendalizzazione delle UUSSLL, con la sua logica di produttività da dimostrare, inoltre, da molti viene visto come rischio ulteriore. Segnali preoccupanti vengono dal fatto (già segnalato da colleghi) che in alcune UUSSLL del territorio nazionale servizi come i SERT o gli stessi servizi psichiatrici territoriali vengono cancellati dai capitolati di spesa della sanità ed inseriti in quelli dell'assistenza sociale. vengono in altri termini considerati come servizi sociali e non sanitari.

Viene a questo punto da chiedersi se non sia prioritario chiarire le confusioni, che sembrerebbero emergere in questa vicenda della chiusura degli OOPP da parte (e questo sarebbe grave) dello stesso Ministro della Sanità che in alcune sue dichiarazioni sembra (ma ci si augura che non intenda) mettere sullo stesso piano il malato mentale, l'emarginato ed il poveraccio. Non si può confondere la necessità di dare risposte di tipo amministrativo a problemi sociali più o meno urgenti con la filosofia e la cultura scientifica che dovrebbero ispirare uno stato nella programmazione e nella gestione di problemi così delicati come la salute e la malattia.
Se può essere legittimo darsi da fare per razionalizzare un'assistenza più o meno caotica o carente, penso lo sia molto meno confondere questo piano con quello della risposta alla malattia, che per noi medici continua ad essere qualcosa di molto diverso dal pietoso soccorso di una non meglio definita sofferenza, cosa umanamente comprensibile ma a volte assolutamente incompatibile con i nostri compiti.


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