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  • INTRODUZIONE
  • UNA GRANDE CONFUSIONE
  • RIFIUTARE L'INTEGRAZIONE?
  • I PRESUPPOSTI DELL'INTEGRAZIONE
  • SOMMINISTRARE "LA GIUSTA TERAPIA"
  • TERAPIA INTEGRATA
  • CONCLUSIONI
  • BIBLIOGRAFIA

  • SOMMINISTRARE "LA GIUSTA TERAPIA"

    Ciò che nella prospettiva psicofarmacologica sperimentale costituisce un resto imbarazzante, un ostacolo da aggirare con vari espedienti statistici, metodologici o ancora psicofarmacologici, può assumere in un'altra prospettiva un significato totalmente diverso: quello di mostrare i limiti e l'unilateralità delle presupposizioni di partenza. Gli elementi personali e sovrapersonali, che il lavoro diagnostico, le rating scales, i metodi in doppio cieco avevano cercato di estromettere come fastidioso “effetto persona”, si ripresentano come un imbarazzante ritorno del rimosso, non integrabile e incomprensibilmente enigmatico, proprio nel luogo stesso della rimozione, cioè nell'atto clinico che aspira all'impersonalità. Gli esempi degli inconvenienti e degli errori di giudizio clinico e metodologico che così si determinano potrebbero essere tanti. Ma nonostante tutte queste difficoltà, potremmo dire, rovesciando il senso originario del motto di Charcot: Ca n'empeche pas d'exister!; anzi, l'intervento psicofarmacologico può essere realmente efficace ed è sempre più in auge.
    Se in medicina e anche in psichiatria interessa soltanto la somministrazione terapeutica giusta, perché invocare una dimensione psicologica della relazione terapeutica o un livello dell'ascolto clinico che mette in gioco l'interiorità dell'esperienza o il suo intreccio psico-sociale e relazionale? Wittgenstein utilizzò come esempio proprio una tipica situazione medica per circoscrivere in negativo e ironicamente lo spazio dell'ascolto psicologico. Questo spazio virtuale della soggettività, con tutte le sue complicate connessioni, lo supponiamo collocato fra la descrizione del comportamento del malato e la risposta che ottiene. Ma si tratta di un luogo che non necessariamente va pensato e esplorato, perché un certo tipo di risposta medica si produca.
    Il medico domanda: “Come si sente il paziente?'. L'infermiera risponde: “Si lamenta”. Un resoconto del suo comportamento. Ma è veramente necessario che sorga la questione se questo lamentarsi sia genuino, se sia davvero l'espressione di qualcosa? Non potrebbero, per esempio, trarre la conclusione: “Se si lamenta dobbiamo dargli ancora dell'analgesico” senza con questo tacere nessun termine medio? Quello che conta non é forse il servizio al quale mettono la descrizione del comportamento? (Wittgenstein, 1953, 238).
    Il fatto notevole e istruttivo di questo passo mi sembra questo: esso evidenzia come la sequenza ‘ascolto Æ descrizione Æ risposta' non sia di per sé affatto trasparente né veramente vincolante; essa si dimostra invece asservita a scopi specifici e a presupposizioni tacite: i quali corrispondono al preciso gioco linguistico e sociale ogni volta attivato. Chiedersi il senso di quel lamento e di quel modo di rispondere ad esso introdurrebbe un altro, diverso gioco: scoprire qualche “termine medio”, immaginare anelli mancanti, interrogare ulteriormente il malato e anche il medico.
    Ognuno potrebbe facilmente citare degli esempi che mostrano come, in certe circostanze, è opportuno o addirittura indispensabile non rispondere a cortocircuito con l'analgesico, ma procedere diversamente. E' necessario cioè ascoltare di più, indugiare nell'ascolto. Potrebbe non avere alcun senso dare un sedativo a colui che si lamenta; come non lo avrebbe rispondere con uno psicofarmaco ad Arianna, quando ne ascoltiamo il doloroso lamento. Il “lamento di Arianna” va solo ascoltato, almeno dallo spettatore. E le risposte possibili, alcune delle quali risolutive, sono intanto quelle stabilite dal mito di Arianna abbandonata e dalle sue varianti.
    In altri casi e per alcuni non avrebbe invece senso indugiare in un ascolto che si dimostra poco produttivo, e converrebbe decisamente “somministrare imipramina”, come sosteneva ragionevolmente Binswanger. Il grande psicopatologo, che pure aveva mobilitato un notevole apparato filosofico e concettuale per accostarsi alla melanconia e alla mania, conservava tuttavia l'idea tenace che l'essenza di queste forme fosse da ricercare in un “esperimento della natura”. Un esperimento decisamente malriuscito dell'essere, che aveva allentato e infine confuso i fili della trama intenzionale dell'esperienza. Come si vede, anche da parte binswangeriana la disintegrazione dilaga: dal malato - dal modo in cui egli è visto - alla forma di intervento che viene prescritto. Poiché ogni ascolto, almeno per lo psicoanalista, contiene qualche ostacolo, sarebbe essenziale sapere come e da chi esso viene concepito, dove esso andrebbe collocato.
    c. Infine l'integrazione degli interventi clinico-terapeutici non è un atto che si può decidere di realizzare semplicemente, da un momento all'altro: l'intervento integrato può solo appartenere alle intenzioni di un gruppo o di un singolo clinico ed essere qualcosa che viene auspicato entro un certo “quadro” dello stato di cose. L'integrazione è allora prospettabile come un principio di unità o adeguatezza a cui ricondurre l'eterogeneità degli elementi in gioco. La scucitura dell'esperienza, o la irregolarità della tessitura (immagini che pure Freud ha qua e là impiegato) riguardano comunque anche l'approccio terapeutico sul versante dei curanti. Anche l'insieme curante dà quasi regolarmente prova di essere il prodotto di un esperimento malriuscito d'ordine essenzialmente culturale o gruppale.

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