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  • INTRODUZIONE
  • UNA GRANDE CONFUSIONE
  • RIFIUTARE L'INTEGRAZIONE?
  • I PRESUPPOSTI DELL'INTEGRAZIONE
  • SOMMINISTRARE "LA GIUSTA TERAPIA"
  • TERAPIA INTEGRATA
  • CONCLUSIONI
  • BIBLIOGRAFIA

  • I PRESUPPOSTI DELL'INTEGRAZIONE

    La necessità dell'integrazione fra trattamenti farmacologici e trattamenti psicologici o psico-sociali, per chi ha posizioni unilaterali intransigenti, sia “biologistiche” sia “psicologistiche”, può non avere alcun senso. Ma per la maggioranza degli operatori questo problema esiste e si richiede che venga pensato correttamente.
    Dal momento in cui si è iniziato da un lato ad allargare l'indicazione del trattamento psicoanalitico a forme di nevrosi gravi, a organizzazioni psicotiche del carattere e persino alle forme schizofreniche, dall'altro a disporre di farmaci psicoattivi che potevano essere efficacemente prescritti a questo tipo di pazienti, il problema dei rapporti concettuali e operativi fra i due ordini di interventi, così diversi tra loro, ha cominciato a porsi concretamente.
    Esaminiamo più dappresso quest'idea di integrazione degli interventi, che ha nel nostro campo un significato piuttosto ampio e che tocca le radici stesse della sofferenza psichica.
    La malattia mentale si presenta, dal punto di vista dell'integrazione psichica, sotto la forma della perdita o del difetto di tale integrazione, quindi come scissione fra parti, dissociazione, frattura o frammentazione. Sembrerebbe ovvio quindi che l'intervento terapeutico debba svolgere funzioni reintegratrici per chi quest'integrità ha temporaneamente perduto o favorire lo sviluppo di un'unità personale che non si è mai sufficientemente costituita: favorendo in qualche misura la maturazione o la crescita. Se proposizioni descrittive così generali possono forse trovare d'accordo molti, le difficoltà incominciano quando si vogliono precisare meglio queste immagini, fornendo loro lo spessore di concezioni scientifiche, ipotesi di lavoro, modelli interpretativi e operativi. Si verifica facilmente che alla dis-integrazione del paziente corrisponda nel campo dell'intervento un insieme teorico-clinico esso pure disgregato e travagliato da impostazioni e concezioni diverse.
    E' evidente che non si può veramente prescrivere a qualcuno di “fare un intervento integrato”, così come non si può dire “fai un transfert analitico”. Ma penso anche, in polemica con chi sostiene il contrario, che non si possa veramente dire neppure: ‘Limitati a prescrivere uno psicofarmaco”. Eppure proposizioni simili a queste le ho proprio sentite dire nel corso degli anni, anche recentemente e anche da clinici illustri.
    Vorrei brevemente illustrare perché ritengo scorrette queste formulazioni.
    a. Il “transfert” non può essere “fatto” volontariamente, perché si tratta di un fenomeno che si sviluppa nei rapporti umani in modo automatico e inconsapevole. La nozione di transfert ci aiuta a coglierlo e quindi a regolare i rapporti con il paziente alla luce del tipo di valutazioni che scaturiscono dal vedere le cose in questo modo. Alla luce della nozione di transfert colgo cioè certi movimenti affettivi, comportamenti, eccetera, senza necessariamente sviluppare i numerosi giochi interpersonali e linguistici che si possono attivare a partire dalla considerazione più o meno condivisa di questo modo di vedere. Grande parte della discussione clinica fra psicoanalisti riguarda le forme che è opportuno assumano tali giochi in ciascun caso e in funzione di ciò che si vuole ottenere. Inoltre, da quando il fenomeno del transfert è stato messo in evidenza, cioè dal caso freudiano di Dora, esso ha sempre posto simultaneamente il problema della risposta ad esso, risposta essa stessa implicata con fenomeni transferali sul versante dell'osservatore clinico. Tutto lo sviluppo incessante di interrogativi che ne è scaturito è forse sintetizzabile in un'unica domanda generale e fondamentale che il clinico dovrebbe porsi di fronte al paziente: “Chi sono io per lui e chi è lui per me?” Una domanda difficile e amletica , fastidiosamente complessa e comunque incompatibile sia con l'azione sicura di sé, sia con un atteggiamento che aspira a essere puramente prescrittivo. Essa è invece la domanda tipica di un campo congetturale specifico, quello della psicoanalisi. Il campo congetturale specifico della psicoanalisi gestisce tale interrogativo praticamente nella relazione terapeutica e concettualmente mediante la mobilitazione della teoria psicoanalitica e delle riflessioni a cui si ispira e che si producono da essa. E' evidente, mi pare. che la domanda “Chi sono io per lui e chi é lui per me?” possa avere comunque un suo valore generale anche in medicina e in psichiatria: non porsela affatto ha sicuramente effetti importanti sull'atto medico . Quali? I più diversi. Certamente l'effetto di semplificare la relazione terapeutica nella direzione di una riduzione del ruolo medico a pura funzione tecnica impersonale. Un conto è comunque non porsi la domanda perché deliberatamente, “per metodo”, non le si vuol dare corso, e un conto è non porsela per superbia, megalomania, cecità o scotoma, o perché la si ritiene concettualmente improponibile. Non mi interessa in questo momento dire come sia meglio secondo me procedere fra questi vari modi, ma sollevare una questione che ritengo fondamentale, e alla quale ciascuno può rispondere a suo modo.
    b. Quanto a un intervento psicofarmacologico che aspira ad essere solo tale, cioè quello di una molecola che si inserisce nel gioco della trasmissione sinaptica entro sistemi neurali funzionalmente definiti, è evidente che siamo di fronte a un'astrazione schematica, che può essere idealmente perseguita con vari espedienti e indagini in situazioni sperimentali sull'animale o sull'uomo. Ma, non appena si entra nella dimensione clinica concreta, una modellizzazione di questo tipo, soprattutto se oggetto di un'applicazione esclusiva, conduce a posizioni aberranti e a un certo tipo di alienazione dei rapporti umani. Ciò che così si tenta di cacciare dalla finestra - l'elemento personale e interpersonale, il linguaggio, la dimensione simbolica, sociale e affettiva dell'esperienza - fa subito sentire i suoi effetti potentemente. rientrando facilmente dalla porta. Se il bios gioca un ruolo determinante sullo psichico, è anche vero il contrario: la mente, la cultura raggiungono la natura e il corpo nella sua naturalità in termini estremamente concreti (come già nel 1926 M. Mauss aveva acutamente osservato). Anche dal punto di vista neurobiologico Edelman (1989) ha sottolineato decisamente il polimorfismo e la complessità sottesi all'esperienza soggettiva, concludendo che “i tentativi terapeutici di modificare particolari efficacie sinaptiche per conseguire particolari stati o comportamenti devono continuare ad includere comunicazione e scambio verbale”, considerando che nessun farmaco noto, vista la variabilità individuale degli schemi sinaptici, “potrà fornire una selezione efficace di gruppi neuronali isofunzionali, conducendo in tal modo a input e output identici in individui diversi”.
    Da una sottovalutazione di questa connessione somato-psichica di fondo, che può avvenire nel due sensi, possono nascere molti equivoci ed errori di valutazione dei fatti. Pensiamo alle “guarigioni” dopo poche ore dall'assunzione di un farmaco, oppure alla consistente nebulosa rappresentata dai non responders e dal fenomeno del drop out. Ma pensiamo anche agli elementi sottesi alla cosiddetta compliance: sia alle sue premesse personali, sia ai fattori interpersonali mobilitati dal medico per ottenerla, sia infine alla selezione che essa opera nella popolazione del pazienti sul piano della ricerca psicofarmacologica.

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