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  • INTRODUZIONE
  • UNA GRANDE CONFUSIONE
  • RIFIUTARE L'INTEGRAZIONE?
  • I PRESUPPOSTI DELL'INTEGRAZIONE
  • SOMMINISTRARE "LA GIUSTA TERAPIA"
  • TERAPIA INTEGRATA
  • CONCLUSIONI
  • BIBLIOGRAFIA

  • RIFIUTARE L'INTEGRAZIONE?

    E' noto che Freud stesso si pronunciò a favore del progresso scientifico che avrebbe condotto ad eliminare o ridurre per via chimica la sofferenza psichica, sino a porre una sorta di alternativa tra l'efficacia dell'intervento farmacologico, che prima o poi si sarebbe raggiunta, e la strada tortuosa e problematica che la psicoanalisi propone per il superamento dell'angoscia.
    Chi infatti percorrerebbe una strada irta di ostacoli e dall'esito incerto, se per raggiungere la stessa meta fosse disponibile una via breve e veloce? Ovviamente quasi nessuno o pochi temerari masochisti.
    Quanto a brevità e a un'azione che aspira ad essere efficace e che prescinde da qualsiasi riferimento al soggetto, azione magica e azione psicofarmacologica si assomigliano stranamente. E' inevitabile cogliere un'alternativa, o addirittura la divergenza, tra l'uso dl composti psicofarmacologici e il tentativo di attivare, mediante un mossa puramente psicologica, posizioni personali che consentano di superare più o meno consapevolmente le difficoltà. Ma come pensiamo questa divergenza? O si tratta piuttosto di due modi paralleli, che non hanno alcun punto di contatto? E se pure non l'avessero, non potremmo pensare a una forma di armonizzazione fra queste modalità diverse, che talvolta - ora nel bene, ora nel male - si rinforzano reciprocamente?
    Quale terapeuta medico o psicologo si rifiuterebbe del resto oggi di prescrivere (o far prescrivere) uno psicofarmaco in nome del rigore psicoterapeutico affidato a una parola risanatrice? Certamente non si sarebbe comportato nel senso di rifiutare uno psicofarmaco Freud, che pure concepì la psicoanalisi in un'epoca nella quale non esistevano veri rimedi farmacologici per le malattie mentali. Sappiamo infatti che Freud, nella sua concezione delle nevrosi e delle psicosi, affidò una parte importante dell'etiologia a fattori d'ordine costituzionale sui quali la psicoanalisi nulla poteva fare e che erano responsabili degli orientamenti energetici sfavorevoli presenti nei disturbi psichici. Per questi fattori quantitativi d'ordine pulsionale si poteva, mediante il lavoro psicologico dell'analisi, cioè mediante un'azione in gran parte solo indiretta, ottenere un diverso e più favorevole orientamento, distribuzione, mobilitazione, articolazione o legame. In funzione di ciò, Freud poté affermare nel 1938:

    Può darsi che in futuro qualcuno ci insegnerà come influenzare direttamente, con speciali sostanze chimiche, le quantità energetiche e la loro ripartizione nell'apparato psichico. E forse verranno alla luce altre potenzialità della terapia che per adesso non possiamo neppure sospettare; per ora non abbiamo nulla di meglio a disposizione che la tecnica psicoanalitica; per questo, nonostante i suoi limiti, non dovremmo disprezzarla

    .
    Altrove (1932) egli poté tuttavia anche dire che, al di là dell'efficacia della cura analitica, che non era diversa da quella di altri trattamenti e che poteva vantare successi e insuccessi come ogni altra terapia, la psicoanalisi doveva essere considerata anche e soprattutto per il suo contenuto di verità, per ciò che essa faceva conoscere dell'esperienza umana. Personalmente anch'io condivido questo valore di verità della psicoanalisi e posso pensare dl assegnare addirittura alla verità un valore terapeutico. Tuttavia non c'è bisogno di riferirsi a Nietzsche per sapere quanto la verità possa risultare anche dolorosa, al punto da non poter essere sopportata dallo spirito, producendo un effetto che è l'opposto del sollievo che dà talvolta la menzogna.
    In ogni caso va poi considerato che per i non ancora numerosi fautori della terapia farmacologica come trattamento esclusivo e sufficiente - l'unico ritenuto “scientifico” e a cui dare credito - la “verità” della malattia mentale è di ordine psicobiologìco o addirittura genetico. Per chi pensa in questo modo, ogni sguardo rivolto ad altre componenti e in altre direzioni è una pura digressione e infine una perdita di tempo. E' comune esperienza rilevare che una simile posizione del medico può avere come effetto una deresponsabilizzazione del paziente verso il proprio soffrire in nome dell'impersonalità della malattia. E questa deresponsabilizzazione “biologistica”, che assegna ogni peso causale alla “malattia”, svolge, quando la svolge, una funzione paradossalmente psicoterapeutica. Ciò accade in determinati casi con molta evidenza e tipicamente in certe forme di depressione, dove la responsabilizzazione personale e i sentimenti di colpa raggiungono livelli devastanti sino all'assurdo .

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