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QUANDO LA PSICOTERAPIA FA MALE
di Romolo Rossi e Piera Fele

Il processo psicoterapico si fonda su fattori aspecifici e specifici; la iatrogenia della psicoterapia può essere legata al malfunzionamento o all'assenza di uno qualunque di questi fattori, con manifestazioni e conseguenze diverse, che cercheremo di delineare.
Tra i fattori aspecifici si può includere l'età, e la differenza di età tra paziente e terapeuta, il sesso, la condizione sociale, il livello culturale e, assai importante ma meno precisamente definibile, l'empatia.
Tra i fattori specifici ricordiamo la teoria di base del terapeuta, intesa come corrente o indirizzo culturale, e la teoria della tecnica, che determina la modalità di svolgimento del processo psicoterapico. Ad essa sono connesse la modalità di fornire l'interpretazione, la gestione del transfert e del controtransfert e, più generalmente, la modalità di conduzione della psicoterapia; questa può essere di tipo uncovering, più connessa al modello psicoanalitico classico, o di remaking, secondo gli sviluppi più recenti di certe correnti psicoanalitiche, con allargamento delle indicazioni anche a patologie che in passato venivano considerate inanalizzabili, ma a patto di una modificazione della tecnica. In questo caso l'obiettivo non è tanto la scoperta dei conflitti, ma il rifacimento, nel transfert, della relazione con modalità meno conflittuali e frustranti, come allora ma diverso da allora, con grande importanza attribuita alla emotional correcting experience, dove è il processo di guarigione è connesso al rifacimento dell'esperienza in condizioni meno frustranti e più generalmente correttive, con possibilità di interiorizzare l'analista come riferimento emotivo positivo.
Prenderemo ora in esame i singoli meccanismi della iatrogenia in psicoterapia. Innanzitutto, l'esito negativo del trattamento può essere connesso a fattori aspecifici o pseudospecifici. Questi si rilevano talvolta nelle analisi didattiche, dove il meccanismo di cooptazione culturale rischia di prevaricare la funzione dell'analisi, creando nuclei inananalizzabili: questa possibilità è connessa anche alla durata dell'iter di formazione, per cui l'investimento di molti anni sulla professione di psicoanalista tende a far passare in secondo piano eventuali nuclei non analizzati precedentemente, pena la messa in discussione del progetto e della possibilità realizzarlo, che può risultare intollerabile per l'analizzando. Inoltre, esiste il rischio di una perdita di autonomia di pensiero, con creazione di una sorta di agorafobia culturale, connessa alla struttura gerarchica e rigidamente conchiusa dell'iter formativo, per cui l'autonomia culturale può essere vissuta come un tradimento ideologico. Inoltre, talvolta l'analisi tende a ridurre la capacità di social coping, nel senso che tutti gli interessi vengono incentrati sulla terapia, mentre viene svalutato ogni altro modo di procedere e ogni altra relazione sociale.
Da qui, anche la possibilità che si instauri un atteggiamento dipendente, che tende a prolungarsi, oltre la fine dell'analisi, nel rapporto di supervisione, col rischio che l'analista perda autonomia col proprio paziente, trattandolo come immagina farebbe il proprio supervisore.
In quest'ottica, la terapia psicoanalitica rischia di non tenere tanto conto del paziente da trattare, con tutte le sue specificità, che richiedono necessariamente una buona dose di elasticità mentale, quanto della filosofia di fondo della scuola, la cui rappresentazione estrema è quella di una società segreta con regole rigide, dove l'impostazione dell'analista o del supervisore non può essere tradita. Il fattore iatrogeno negativo, in questo caso, è che l'analisi procede secondo le esigenze di coerenza dell'analista più che secondo quelle del paziente, che viene così "adattato" ai bisogni e all'impostazione culturale e tecnica della coppia psicoanalista-supervisore. In sostanza, il rischio di una simile organizzazione dell'iter di formazione è che si venga a creare una sorta di folie à plusieurs, in cui la modalità di conduzione dell'analisi è basata più su esigenze di coerenza teorica che sulle necessità cliniche del paziente.
Un altro fattore iatrogeno è la confusione tra fattori specifici e aspecifici. In particolare, la situazione psicoterapica elicita l'emersione di esigenze infantili, che si mescolano con quelle adulte. L'intersecarsi di piani infantili e adulti si rende evidente soprattutto per quanto concerne l'età e il sesso, con possibilità che si vengano a creare difficoltà insormontabili o comunque non risolvibili nel transfert. La differenza di età tra paziente e terapeuta può comportare da un lato la tendenza all'adozione del paziente, con scacco del transfert e creazione dell'analisi interminabile; d'altro canto, il terapeuta troppo giovane può precludere al paziente anziano la possibilità di un genuino investimento transferale; questo problema si pone specialmente in relazione alla tendenza all'ampliamento dei criteri di analizzabilità che, oltre all'apertura verso patologie un tempo considerate inanalizzabili, fa riferimento anche all'aumento della vita media e alla possibilità di trattare le problematiche connesse al difficile periodo del climaterio e della senilità. Un'altra possibilità di intersecazione, e di confusione, tra esigenze infantili e adulte riguarda il fattore aspecifico del sesso: la differenza di sesso favorisce l'erotizzazione del transfert, e l'uso della seduzione come difesa da parte del paziente, e come modalità di gratificazione narcisistica da parte del terapeuta.
Per quanto concerne invece i fattori specifici, può essere utile, per chiarezza dell'esposizione, distinguere innanzitutto tre ambiti di possibile insorgenza di iatrogenia: il primo fa riferimento alla presenza di bisogni anomali nel paziente; il secondo all'uso di resistenze da parte del paziente; il terzo, ad errori tecnici da parte del terapeuta.
Il problema della presenza di bisogni anomali nel paziente è legato all'ampliamento delle indicazioni della psicoterapia. Freud considerava la patologia narcisistica inanalizzabile per definizione, mentre, come accennavamo in precedenza, l'ampliamento delle indicazioni per il trattamento psicoterapico include disturbi in cui predomina il narcisismo, dalla schizofrenia ad alcuni disturbi gravi della personalità. La presenza di bisogni anomali può comportare l'insorgere di una intensa reazione di attaccamento, nella quale i contenuti analizzati passano in secondo piano e diventano, di fatto, inconsistenti, dal momento che l'unica cosa che conta è la presenza, e il suono della voce dell'analista è molto più importante dell'interpretazione che egli fornisce. Questa evenienza è tanto più probabile quanto più ci si trova in presenza di una forte e precoce deprivazione emotivo-affettiva, per cui l'analisi può costituire la prima esperienza di piacere, in situazioni di assenza assoluta di gratificazione precedente. Qui il rischio consiste nell'adozione del paziente e nell'analisi interminabile.
Un altro fattore negativo connesso alla presenza di bisogni anomali e, più in generale, di regressione grave, è la possibilità che si vengano a creare situazioni invidiose che comportano il rischio di una reazione terapeutica negativa. Se la lesione narcisistica è troppo grave o troppo arcaica, il paziente non tollera la possibilità che l'analista gli fornisca qualcosa di buono, in termini di accudimento o interpretazioni, perché la consapevolezza della presenza di elementi positivi nell'altro elicita un'invidia distruttiva, per cui il mancato miglioramento, il peggioramento dei sintomi o, in casi estremi, il suicidio del paziente, costituiscono l'attacco invidioso alla fornitura di cose buone da parte dell'analista vissuto come oggetto integro e accudente. Come si vede, il rischio di iatrogenia connesso al bisogno anomalo è funzione, più che di una data patologia, del livello di carenza infantile che, se troppo grave, impedisce la tolleranza della frustrazione inevitabilmente connessa al processo psicoterapico e rende possibile la sua distorsione o la sua progressione con modalità perverse.
Per quanto concerne la iatrogenia da resistenze del paziente, possiamo accennare, tra i vari meccanismi di difesa, ai due che, con modalità opposte, comportano più rischi di impasse o di compromissione del processo analitico. L'uso di un'eccessiva intellettualizzazione porta in effetti ad una paralisi della terapia, specie quando esiste una sorta di collusione tra paziente e terapeuta, per evitare l'emergere di nuclei emotivi perturbanti. L'analisi diviene così sterile e priva di elementi emotivi pericolosi ma, di fatto, inutile e interminabile. Di contro, l'acting costituisce la modalità di aggressione più diretta e repentina al processo e alla relazione terapeutica. Le modalità con cui si estrinseca possono essere molto varie, e includere l'esportazione dei contenuti analitici, l'uso perverso della relazione, l'erotizzazione agita, e così via.
Fin qui, abbiamo preso in esame fattori specifici del paziente. Per contro, un fattore iatrogeno specifico connesso al terapeuta è quello degli errori di tecnica. Tra questi possiamo citare il timing errato dell'interpretazione, che può condurre all'insorgenza di intense reazioni di angoscia, come nel caso di un brusco uncovering di tendenze omosessuali che può comportare il panico omosessuale acuto; ancora, si possono manifestare reazioni aggressive, non tanto nel transfert, quanto all'esterno, come nel caso di pazienti schizofrenici a cui viene interpretata l'aggressività verso la figura materna senza la mediazione transferale, che dovrebbe invece funzionare da attenuatore e da elemento di mediazione. Un'altra possibilità è che l'interpretazione con timing errato eliciti una reazione di ritiro rispetto a contenuti emotivi vissuti come perturbanti e pericolosi, data la mancanza di possibilità di elaborarli.
Un errore comune è anche l'interpretazione contemporanea dell'ambivalenza e dei due versanti dello split, che di fatto fornisce al paziente la possibilità di rimanere ancorato al conflitto e di non procedere oltre, oscillando ossessivamente tra i due corni, e idealizzando e disprezzando contemporaneamente, con un meccanismo che tende ad annullare ogni ulteriore progressione dell'analisi.
Un'analoga situazione si verifica quando l'interpretazione non include riferimenti al livello profondo: il pericolo in questo caso è che essa venga neutralizzata con meccanismi di intellettualizzazione, che tendono ad annullare la portata emotiva della comunicazione del terapeuta, o con l'ossessivizzazione, usata per controllare il contenuto perturbante.
Invece, intepretare il livello genetico prima del livello caratteriale in genere non consente al paziente di avvertire il significato emotivo della comunicazione, che viene guardata da lontano, e vissuta come estranea, oppure, porta a sviluppare una sorta di deliroide psicoanalitico (Psychoanalytische Wahnhaft), per cui fantasie deliranti sulla metapsicologia psicoanalitica vengono attribuite tout court al paziente, che le intellettualizza e non ne avverte significato emotivo.
Altri fattori iatrogeni da errori di tecnica comportano un più sottile coinvolgimento del terapeuta, come nel caso di interferenze controtransferali che portano a captazioni sadiche del paziente, che viene di fatto privato della propria autonomia e diventa uno strumento di gratificazione narcisistica del terapeuta stesso: questo tipo di errore di impostazione è connesso alla presenza, nell'analista stesso, di intense angosce di abbandono, per cui egli non tollera l'allontanamento del paziente, e ne diventa geloso, denigrando e distruggendo le cose buone che il paziente riceve e costruisce nel mondo esterno, per tenerlo con sé. All'estremo di questa situazione, può verificarsi una collusione idealizzante tra terapeuta e paziente, con proiezione reciproca della parte idealizzata di sé, ma con dipendenza estrema e perdita di autonomia da parte del paziente.
Dopo aver esaminato i singoli meccanismi della iatrogenia in psicoterapia, possiamo delineare alcune sindromi iatrogene individuabili nella clinica. Innanzitutto, l'anaclitismo, caratterizzato da distacco dal reale, eccessivo investimento sulla figura del terapeuta con perdita di autonomia e incapacità di tollerare le separazioni: in questa situazione, il pericolo più grave connesso alla frustrazione conseguente alle inevitabili separazioni, è quello del suicidio, legato all'intollerabile vissuto di abbandono e alla rabbiosa ed estrema protesta contro di esso. Un aspetto più evoluto dell'anaclitismo sta alla base dell'interminabilità dell'analisi; già Freud aveva messo in evidenza come in realtà il concetto di fine dell'analisi, e dei criteri che la sottendono, fosse assai difficile da definire e, di fatto, artificioso. Ma se, da un lato, è esperienza comune che la fine naturale dell'analisi sia difficilmente definibile, esistono anche situazioni in cui il rapporto simbiotico tra paziente e terapeuta la rende, di fatto, impossibile, e la terapia diviene interminabile, trasformandosi in una adozione.
Un'altra sindrome da patologia iatrogena è la tendenza all'acting e ai comportamenti anomali. Come accennavamo in precedenza, il caso più frequente è il trasferimento all'esterno dei dati interpretativi, come attacco al legame col terapeuta e banalizzazione dei contenuti interpretativi. Può anche verificarsi uno split, con idealizzazione della figura del curante (peraltro rapidamente trasformabile in svalutazione), che divene colui che ha sempre ragione, contrapposto agli altri personaggi del mondo esterno; questa situazione può condurre ad un uso perverso del legame con l'analista, che viene inserito, per esempio, nelle liti familiari, dove gli viene attribuito un ruolo attivo.
Un'ultima possibilità è la sindrome da sostituzione e caduta di difese, come conseguenza di una eccessiva fragilità dell'Io. In questo caso l'analisi può portare alla comparsa di angosce e fobie, spesso come conseguenza di interpretazioni perturbanti o errate come timing; in altri casi, specie in presenza di perdite gravi e arcaiche, può emergere la depressione, come risultato di una presa di coscienza non terapeutica della perdita dell'oggetto d'amore, non elaborabile analiticamente in quanto troppo grave. Ancora, quando il livello più evoluto dell'Io cela la presenza di un livello più arcaico e meno strutturato, possono emergere sintomi psicotici.
Come si vede, i disturbi iatrogeni in psicoterapia sono numerosi, spesso occulti, potenzialmente pericolosi per il paziente e frustranti per il terapeuta; ma, d'altro canto, già nel 1926, trattando dell'analisi dei laici, Freud aveva paventato i rischi connessi alla conduzione della terapia da parte di analisti non adeguatamente equipaggiati. A tutt'oggi, la situazione appare immutata, anche se, ci pare, l'attenzione si è spostata verso l'equipaggiamento empatico-emotivo, piuttosto che verso il bagaglio teorico. E i due elementi non sempre coesistono.

BIBLIOGRAFIA
Freud S.: Il dottor Reik e il problema dei guaritori empirici (1926). In O.S.F. vol. 10, Boringhieri, Torino, 1978.
Freud S.: Analisi terminabile e interminabile (1937). In O.S.F. vol. 11, Boringhieri, Torino, 1979.

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