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Individualità e generalizzazione
nella psicologia della personalità:
una base teorica per la valutazione
e la ricerca in personologia

Robert R. Holt
Professor of Psychology Emeritus, New York University

Prima parte di tre parti
Vai alla Seconda parte
Vai alla Terza parte (Bibliografia)
Go to the English version: Part1, Part 2, Bibliography

Introduzione di Paolo Migone

Alcuni mesi fa nelle varie liste di discussione vi è stato un acceso dibattito sullo statuto scientifico della psicoterapia, in cui molti si chiedevano se fosse più appropriato un approccio cosiddetto idiografico (in cui l'oggetto di studio è unico [idios = particolare], irripetibile, come nelle scienze umane) oppure nomotetico (in cui è possibile formulare leggi generalizzabili [nomos = legge], come nelle scienze naturali). E' per contribuire a questo dibattito che qui viene pubblicato un lavoro classico su questo argomento, scritto da Robert Holt nel 1962, allo scopo di mostrare come questo problema sia già stato affrontato in passato all'interno di una importante tradizione di ricerca. L'argomento infatti non è affatto nuovo, e stupisce come esso continui a suscitare animosi dibattiti senza una facile soluzione, anzi, è proprio questo che lo rende interessante. Questo dibattito era già molto vivo negli Stati Uniti negli anni '40 attorno alla questione della personologia (la psicologia della personalità), e Holt fu appunto testimone in prima persona di quel clima culturale. Allora Holt era allievo di Gordon Allport, il famoso studioso della personalità e acceso sostenitore del modello idiografico. Ribellandosi al maestro, Holt prese posizioni opposte, argomentando che il metodo ideografico deve essere semplicemente abbandonato e utilizzato solo per scopi artistici, non scientifici. I vari passaggi logici della sua polemica argomentazione sono esposti nel lavoro che qui viene pubblicato, uscito per la prima volta sul Journal of Personality, 1962, 30, 3: 405-422, subito divenuto un classico e ripubblicato più volte (in italiano fu tradotto sul Bollettino di Psicologia Applicata, 1963, 57/58: 3-24). La versione qui pubblicata non è quella originale del 1962, ma quella del 1978 pubblicata nell'opera di Holt in due volumi Methods in Clinical Psychology: Assessment, Prediction and Research (New York: Plenum, 1978), a cui sono state aggiunte varie modifiche e note a cura dell'autore, che riflettono anche le modificazioni successive dels uo pensiero. Si può dire quindi che questa sia una nuova edizione di questo classico della psicologia. Vengono pubblicate inoltre due premesse: la prima è stata scritta nel 1998 apposta dall'autore per questa edizione di POL.it, e la seconda (anch'essa lievemente modificata) fu pubblicata nel libro del 1978 prima citato. Ringraziamo la casa editrice Organizzazioni Speciali (O.S.) di Firenze per la edizione italiana, e la rivista Journal of Personality per la edizione inglese, che ci hanno accordato i permessi di pubblicazione. Io ho curato la traduzione delle due premesse e delle parti nuove all'interno dell'articolo, di cui ho anche migliorato la traduzione in più punti. Questo articolo, che esce in versione sia italiana che inglese, è il sesto documento pubblicato nell'area "Psicoterapie" di POL.it.

Qualche parola infine su Robert Holt, che peraltro è già conosciuto al lettore italiano perché molte delle sue opere sono state tradotte. Holt è noto in Italia soprattutto per il suo lavoro nel campo della ricerca teorica in psicoanalisi, che occupò una fase successiva della sua vita di ricercatore, quando entrò nel prestigioso gruppo di David Rapaport. Qui, con la meticolosità e tenacia di cui era dotato, nonché con la straordinaria guida di Rapaport (uno dei principali teorici nella storia della psicoanalisi), intraprese uno studio accurato della metapsicologia psicoanalitica; anche in questo caso, soprattutto dopo la morte di Rapaport, quando Holt ne divenne il successore nella guida del gruppo, arrivò a prendere posizioni molto critiche nei confronti della metapsicologia freudiana. Tra le altre cose, fece molto lavoro anche nel campo della testistica psicologica (curò ad esempio la seconda edizione, del 1968, dei Reattivi psicodiagnostici di Rapaport, Gill & Schafer del 1945-46 [Torino: Boringhieri, 1975]).Una raccolta dei suoi scritti è contenuta nel noto libro del 1989 Ripensare Freud (Torino: Bollati Boringhieri, 1994), in cui si può vedere tutto il suo percorso culturale, dai primi pionieristici contributi di critica alla metapsicologia degli anni '60 fino ai lavori più recenti (per una biografia culturale di Holt e degli altri membri del gruppo di Rapaport, con una dettagliata bibliografia, vedi il cap. 13 del mio libro Terapia psicoanalitica [Milano: Franco Angeli, 1995]). Un profilo culturale e biografico di Robert R. Holt può essere reperito anche su Psychomedia, al sito http://www.psychomedia.it/pm/modther/biogr/holt-bio.htm.


Premessa di Robert Holt a questa edizione (1998)

In un libro che fece su di me una notevole impressione, Gerald Holton (1973) notò che "nella scienza hanno sempre coesistito, in quasi ogni periodo storico da Talete e Pitagora, coppie antinomiche di due o più sistemi o atteggiamenti antitetici, ad esempio uno riduzionistico e uno olistico", aggiungendo:

Inoltre, è sempre esistita un'altra coppia di antitesi o polarità, anche se, sicuramente, l'una o l'altra era più prominente in determinati periodi - e precisamente tra, da una parte, lo sforzo galileiano (o più propriamente archimedeo) verso la precisione e la misurazione che purgasse la scienza pubblica e "obiettiva" da quegli elementi qualitativi che interferiscono con il raggiungimento di un ragionevole accordo "obiettivo" tra i ricercatori, e, dall'altra, le intuizioni, le fantasie, i sogni ad occhi aperti, e le posizioni aprioristiche che costituiscono metà del mondo della scienza sotto forma di attività personale, privata, e "soggettiva". La scienza è sempre stata spinta e rimbalzata tra queste forze contrarie e antitetiche (G. Holton, Thematic Origins of Scientific Thought: Kepler to Einstein. Cambridge, MA: Harvard University Press, 1973, p. 375).

Ma la dicotomia oggettivo-soggettivo va ben oltre i confini della scienza stessa. Penso che il mio stesso interesse per l'approccio olistico e soggettivo in psicologia abbia due radici principali: la mia psicoanalisi personale, e quelli che potrebbero essere chiamati i miei interessi estetici che vanno indietro nel tempo fino da quando ho ricordi. Alcuni dei miei primi ricordi più vividi conservano la sensazione di meraviglia e di estasi suscitata dalla rugiada di una mattina di primavera, dalla vista e dal profumo di un fiore selvatico, e persino da un quadro Deco nella pubblicità di una rivista. Le mie prime pubblicazioni furono di poesie (in riviste letterarie al liceo e all'università). La prima riflessione che ricordo su quella che avrebbe potuto essere la mia carriera era un oscillare tra il voler diventare un artista (non ricordo di quale tipo) o un astronomo. Quest'ultimo desiderio divenne abbastanza reale in un periodo nella mia adolescenza quando contribuii a fondare un club di astronomia e lavorai mesi per molare una lente di un telescopio. Poi scoprii altre scienze e ne fui affascinato: la chimica, la paleontologia, la biologia, e infine la psicologia. Il mio maestro all'università e relatore della mia tesi, Hadley Cantril, mi fece conoscere l'entusiasmo intellettuale perla psicologia sociale e mi aiutò a scoprire l'interminabile fascino della ricerca in psicologia.

La psicologia clinica mi permise di mantenere e integrare gran parte di questi interessi e valori. Lungo il cammino fui gratificato dal trovare maestri e modelli di identificazione che incorporavano molto dell'artista così pure come dello scienziato: Gordon W. Allport, Henry A. Murray, Robert W. White, David Rapaport, e Gardner Murphy. Questi uomini sembravano capaci, nelle loro vite, di trascendere con facilità la scissione tra quelle che C.P. Snow chiamò le due "culture" dell'arte e delle scienze umane, da una parte, e della scienza, dall'altra. Naturalmente ho sperimentato il conflitto di cui scrisse Snow, e mi sono trovato spinto in direzioni opposte dallo sforzo di cavalcare questi due diversi cavalli simultaneamente. La comprensione sulle sottostanti unità è venuta lentamente, anche se mi è stata di aiuto la identificazione coi miei maestri.

Un secolo fa o poco più, il conflitto sottostante alle due diverse prospettive prese la forma di un contrasto tra approccio nomotetico e approccio idiografico alla personalità. Non sorprende che continui a essere riscoperto e rivisto generazione dopo generazione di psicologi e ricercatori.

Anche se scrissi la prima bozza di questo scritto quasi quaranta anni fa, mi sembra ancora degno di essere ripubblicato se può aiutare qualche studioso, clinico, o ricercatore contemporaneo ad evitare la cieca alleata della confusione metodologica.


Premessa di Robert Holt alla edizione del 1978

Scrissi questo lavoro nell'anno 1960-61, anche se dentro di me lo stavo elaborando già da una ventina d'anni. Era a tutti gli effetti una specie di punto di partenza di tutto il mio lavoro in psicologia clinica e in personologia; l'ho quindi voluto ristampare, con un nuovo sottotitolo, come primo capitolo dei miei due volumi Methods in Clinical Psychology (Holt, 1978).

Con una fortunata coincidenza, questo lavoro comparve nel Journal of Personality (1962, 30, 3: 405-422) accanto a un articolo di Allport (1962) sullo stesso argomento. Fu per studiare con lui che Hadley Cantril mi mandò a compiere i miei anni post-laurea ad Harvard, e sebbene, con una specie di doloroso e imbarazzato ritiro, si difese dai miei tentativi di idealizzarlo e di diventare il suo più fedele allievo, Allport fu uno dei miei maestri. Assistendo ai suoi seminari sulla teoria della personalità divenni sempre più scettico riguardo al suo approccio di base, e quando - col suo considerevole aiuto - finii la mia tesi, nella mia agenda avevo già pronta la traccia di un attacco alla sua posizione metodologica. Fortunatamente, le pressioni per guadagnarmi da vivere mi costrinsero a rimandare la stesura di questo lavoro, perché non possedevo ancora pienamente la prospettiva storica su quei problemi che solo l'insegnamento della terapia della personalità mi avrebbe aiutato a avere. Durante la pausa di un piacevole anno, il 1960-61, passato nella congeniale atmosfera del Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences (Palo Alto, California), fui capace di dare un fresco sguardo ai problemi e di scrivere le pagine seguenti (sono grato al Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences per avermi offerto l'opportunità di compiere questo lavoro, e per una lettura critica costruttiva di una sua precedente stesura sono lieto di ringraziare Lawrence Z. Freedman, Jacob W. Getzels, Abraham Kaplan, George S. Klein, Harriet B. Linton, e Gardner Murphy).

Nell'articolo che accompagnava questo mio scritto, Allport riaffermava la concezione che lui aveva seguito con una tenacia ammirevole per tutta la sua vita professionale, quella di una psicologia della personalità che dovrebbe dedicarsi alla comprensione di come si forma la struttura della persona unica e individuale. Negli ultimi anni, dopo che si familiarizzò con la teoria generale dei sistemi, assunse parte di quella terminologia e cercò di adottarne la prospettiva (Allport, 1960, 1961 cap. 23).Qui Allport (1962) proponeva un approccio morfogenetico per il sistema che costituisce una personalità, in opposizione alla tradizionale operazione dimensionale del riduzionismo analitico. Eppure non riuscì a vedere che la prospettiva della teoria generale dei sistemi consisteva in una rivoluzione kuhniana, una trasformazione fondamentale del principio formativo col quale si potevano riconciliare molte delle tradizionali antinomie della psicologia. Giustificava la sua fede nell'approccio molare e strutturale alle personalità, la sua ostinata insistenza che potrebbe e dovrebbe esistere una scienza degli individui, ma non il suo ambivalente rifiuto polemico dell'atomismo. Parte della bellezza e del potere dell'approccio della teoria generale dei sistemi è che essa trova un posto appropriato per le osservazioni e le leggi sia molari che molecolari, per entrambi i metodi analitici e sinottici, come Weiss (1969) sostiene in modo così convincente riguardo alle scienze della vita.

Da neolaureato, mi allontanai da Allport in parte perché la sua metodologia portava a ben poco di utile. Vent'anni dopo, egli non era ancora riuscito a produrre altro che poche tecniche con cui portare avanti il suo programma di studio morfogenetico delle persone individuali. Preferiva costantemente l'accoppiamento [matching] nonostante il fatto che la ricerca che usa questo metodo non avesse portato da nessuna parte (o almeno avesse prodotto ben poco), concludendo mestamente: "Sebbene il metodo non ci illumini in alcun modo sulle relazioni causali, esso, per come viene utilizzato, è un buon esempio di procedimento morfogenetico al 100%" (Allport, 1962, p. 416). Nello stesso lavoro, continua a raccomandare molti procedimenti più utili, che in realtà si riducono solo a due: l'analisi della struttura personale di Baldwin (1942), che è un semplice metodo statistico per identificare attendibilmente co-occorrenze ricorrenti di contenuti tematici nelle produzioni del paziente, e l'intervista allo scopo di individuare importanti temi, problemi, foci strutturali, caratteristiche stilistiche, valori, o altri tratti in una persona, a volte seguita dall'uso di scale di valutazione generalizzate come quelle di Kilpatrick & Cantril (1960).

Credo che in parte la difficoltà di Allport era la sua personale mancanza di training clinico e di esperienza coi pazienti, una circostanza che lo tenne sempre distante dalle personalità che lui voleva studiare. In tutta la sua carriera, non fece mai uno studio intensivo di prima mano su una personalità singola! L'unica apparente eccezione (Allport, 1965) fu lo studio della raccolta delle Lettere da Jenny [Letters from Jenny], fatta dopo la morte di Jenny; Allport non la incontrò mai.

Dato che non riuscì mai a vedere la utilità delle dimensioni che come più che un debole compromesso con la vera individualità, Allport si rivolse solo occasionalmente al compito di cercare di trovare dimensioni utili. Una ovvia difficoltà nel campo della personalità è la astrattezza o la non materialità del nostro oggetto di studio, se paragonato a quello di un biologo. Quest'ultimo non ha difficoltà ad usare un concetto come mitocondrio o cromosoma, perché questi oggetti sono riconoscibili visivamente, avendo una distinta forma ricorrente nonostante le loro particolari e fluttuanti configurazioni manifeste nella cellula individuale. Quale è l'elemento corrispondente, variabile individualmente, che contribuisce a costituire la personalità individuale? Rispondere "il tratto" (come generalmente fece Allport) è semplicemente sostituire il termine "elemento" con un altro termine generico. In generale, l'approccio tradizionale è stato quello di ricorrere nuovamente a un linguaggio non scientifico, come fece lo stesso Allport (Allport & Odbert, 1936), accettando aggettivi descrittivi come puntuale o dominante come equivalenti funzionali di un organulo intracellulare (ad esempio un mitocondrio). Eppure tali termini sono inevitabilmente interattivi: sono impressioni fatte da una persona su un osservatore, giudizi piuttosto che percezioni, in cui è stato dimostrato che l'orientamento del giudice gioca un ruolo importante. A volte è più importante di quello che vi è nella persona sotto studio, specialmente quando ci inoltriamo nelle vaste aree del comportamento personale che sono valorizzate socialmente in modo positivo o negativo - quello che viene chiamato effetto alone.

In un certo modo, abbiamo bisogno di riuscire a dare un fresco sguardo alle persone, senza essere accecati dal vocabolario standard dei tratti. Credo che si possa ragionevolmente sostenere che concetti come Sé (la esperienza riflessiva di una persona e la concezione della propria personalità), desiderio, paura, capacità e temperamento sono gli analoghi della fine struttura della cellula. La psicologia della personalità, allora, dovrebbe ricercare leggi generali o generalizzazioni su relazioni strutturali regolari tra questi elementi, che possono valere indipendentemente dal contenuto particolare di tali termini quando vengono applicati agli individui (sembra molto meno fruttifero cercare generalizzazioni a livello di questi contenuti effettivi - ad esempio, i contenuti dei valori delle persone, che sono determinati in gran parte dalla cultura). Allo stesso modo, dubito che sarà utile procedere solo tramite studi sul caso singolo, anche se ciò può essere un terreno indispensabile su cui cominciare il lavoro. Possiamo perseguire scopi generali anche mentre ci sforziamo di comprendere le vite individuali. Questo almeno è lo spirito in cui ho sempre cercato di lavorare, sia come testista che come ricercatore.


Individualità e generalizzazione
nella psicologia della personalità:
una base teorica per la valutazione
e la ricerca in personologia
(versione modificata e aggiornata dell'articolo originale intitolato
"Individuality and generalization in the psychology ofpersonality"
pubblicato sul Journal of Personality, 1962, 30, 3: 405-422;
trad. it: Individualità e generalizzazione nella psicologia della personalità.
Bollettino di Psicologia Applicata, 1963, 57/58: 3-24).

Robert R. Holt
Professor of Psychology Emeritus, New York University

Una delle più tenaci erbacce perenni nel campo concettuale della psicologia è rappresentata dalla nozione che nella scienza esistano branche, tipi o aspetti rilevanti di carattere nomotetico (tendenti alla generalizzazione) e di carattere idiografico (tendenti alla individualizzazione). Molti valenti e noti psicologi - specializzati soprattutto in personologia e in psicologia della personalità - hanno citato questi termini con rispetto e li hanno impiegati come se fossero davvero di qualche utilità metodologica (vedi Allport, 1937a; Beck, 1953; Bellak, 1956; Bertalanffy, 1951; Colby, 1958; Dymond, 1953; Falk, 1956, Hoffman, 1960; Sarbin, 1944; Stephenson, 1953; ma la lista potrebbe essere molto allungata). Scopo di questo saggio è quello di esaminare le origini storiche di questi due invadenti concetti, le loro implicazioni logiche, le ragioni per cui gli psicologi se ne fanno fautori, e la soluzione alternativa dei problemi che li presuppongono. Nel far ciò io nutro la speranza - indubbiamente vana ma, per questo, non meno appassionata - di mettere in fuga questo spirito teutonico che ha trovato dimora in gran parte della psicologia moderna portandovi confusione.

Il principale esponente della dicotomia nomotetico-idiografica nel nostro paese è stato Gordon W. Allport (1937a, 1940, 1942, 1946, 1955), un pioniere della personologia accademica ed un uomo che ha brillantemente chiarito molte questioni importanti in tale campo. Su questo punto particolare cercherò di mostrare come in lui probabilmente l'artista ha offuscato la visione dello scienziato. Il problema di fondo su cui si arrovella Allport è abbastanza tormentoso in se stesso: si tratta, cioè, di concepire la natura insolita della personalità come argomento fondamentale di ricerca scientifica. Allport non ha alcuna difficoltà ad ammettere che ogni cosa in natura è unica, ma sostiene che le scienze naturali non si interessano alla foglia, alla pietra o al fiume singolarmente presi. Solo la personologia, così prosegue la sua tesi, assume come principale oggetto di studio la personalità unica, in opposizione alla mente umana in senso generale, o al comportamento degli organismi in senso esteso. Il resto della psicologia si occupa delle leggi generali del comportamento e dell'esperienza ed è pertanto di tipo nomotetico (cioè, letteralmente, si occupa di stabilire delle leggi) [Nota1]; ciò che viene trascurato è il fatto importantissimo che ogni personalità è differente e che pertanto deve essere studiata in modo tale da rispettarne e cercare di coglierne l'unicità - che cioè deve essere studiata, in breve, da una scienza idiografica (capace, letteralmente, di rappresentare i caratteri privati o peculiari, cioè l'individualità). Con queste due curiose parole ricavate da Windelband, Allport descrive quelle che egli considera due branche complementari della psicologia, entrambe indispensabili per uno studio esauriente.

Nota 1:  Questo èil significato generalmente accettato. Tuttavia Brunswik (1943) ha usato il termine in un diverso significato, suscettibile di provocare occasionalmente una certa confusione: lo ha riferito, cioè, a una scienza basata su leggi esatte esprimibili come funzioni o equazioni, contrapponendolo alle generalizzazioni statistiche. Entrambe queste tendenze rientrano nella prospettiva nomotetica secondo l'accezione qui usata. Rickert ha impiegato un termine leggermente diverso: nomologico.

D'altra parte molti insigni esponenti della personologia, da Freud a Murphy (1947), non hanno ritenuto di alcuna utilità far ricorso ad un metodo del genere per studiare l'individualità, e abbiamo sentito Eysenck confutare acutamente Beck (1953) e proclamare che la psicologia dovrebbe essere esclusivamente nomotetica. Evidentemente il tema è controverso.

Precedenti storici: il movimento romantico nella scienza [Nota2]

Nota 2: Nella elaborazione di questo excursus storico mi sono basato principalmente su Roback (1927), Allport (1937a, 1937b), Boring, (1929), Parsons (1937), Stein (1924), Tapper (1925), Friess (1929), Klüver (1929), e sull'Encyclopedia of the Social Sciences. Sono consapevole che parlare del movimento romantico nella scienza significa compiere, in qualche modo, una eccessiva semplificazione; nella storia della scienza del XIX secolo si distinguono molte personalità e correnti che potrebbero essere caratterizzate come romantiche, e alcune di esse sono connesse solo molto indirettamente con il movimento qui descritto.

Kant, che scriveva nella seconda metà del Î700 e reagiva contro il riduzionismo, rappresenta uno degli antenati, sul piano filosofico, di questo indirizzo (che, ovviamente, potrebbe esser fatto risalire fino a Platone e ad Aristotele, come ogni altro problema della psicologia; vedi Popper, 1957). Sebbene non cadesse personalmente nel concetto dualistico per il quale mente e materia sarebbero così differenti tra loro da dover essere studiate ciascuna con metodi distinti, egli scrisse su questo tema a un livello troppo sofisticato per i suoi seguaci. Perciò i metodi analitici e generali della scienza naturale risultarono adatti per lo studio della materia, mentre la mente, secondo i postkantiani, doveva essere studiata anche secondo una metodo diverso, quello della intuizione del tutto. Colpiti dalla unicità e dalla individualità concrete della personalità, essi non volevano analizzarla ma afferrarla per mezzo di un immediato atto empatico [Nota 3].

Nota 3:  Devo all'amico Abraham Kaplan la chiarificazione della posizione kantiana a proposito di questo problema.

Tuttavia nel secolo successivo nessuno si è preoccupato di sviluppare in qualche modo questo procedimento intuitivo nello studio della personalità; nel frattempo la fisica e la chimica e anche alcune branche della biologia si sono andate rapidamente sviluppando e hanno utilizzato i metodi scientifici allora in via di elaborazione con grande successo nel loro ambito specifico. Per prima si sviluppò la meccanica, e le leggi del moto di Newton furono fraintese in quanto vennero concepite come fondamenti del meccanicismo e del materialismo. In realtà, come viene sottolineato da Singer (1959), le leggi di Newton erano del tutto astratte e non si occupavano per niente dei corpi fisici; ma nella grande fortuna incontrata sin dall'inizio esse furono applicate al movimento dei pianeti e furono considerate come leggi delle masse materiali. Difficilmente sarebbe potuto accadere una cosa diversa a causa del carattere dominante del pensiero filosofico e scientifico del tempo. Semplicemente il mondo non era ancora pronto ad accogliere le implicazioni teoriche delle dottrine di Newton. Anche un grande fisico come lord Kelvin trovò "esigue e insoddisfacenti" tutte le conoscenze fisiche che non potessero essere espresse tramite un modello meccanico.

Sebbene il carattere delle loro discipline specifiche non lo richiedesse, anche gli studiosi di scienze naturali - sostenuti dalle eccessive generalizzazioni dei filosofi contemporanei - adottarono un positivismo ostinato, materialistico e meccanicistico. Si sosteneva che tutta la realtà era ordinata secondo uno schema regolare, osservabile, classificabile e suscettibile di essere spiegata in termini meccanicistici; ove questi caratteri non si fossero manifestati, lì finiva l'ambito della scienza. Ci si aspettava che i segreti stessi della vita venissero ben presto ridotti in formule fisico-chimiche. La conseguente rottura con la religione e con l'umanesimo sembrava essere un risultato inevitabile del fatto di essere un buono scienziato:

Ciò che non si arrivava a capire era che il successo della scienza era dovuto alla sua fedeltà verso la pratica, mentre il suo atteggiamento distruttivo (dei valori umanistici e culturali) scaturiva dall'errata impostazione della sua filosofia che considerava tale pratica come il prodotto di una concezione del mondo verso la quale essa si trovava di fatto a contrastare in modo fondamentale (Singer, 1959, p. 420).

Si era in piena atmosfera classica, matura per la rivolta romantica che si inaugurò nel campo della poesia alla fine del XIX secolo, dilagando nell'ambito delle varie arti. Le scienze umanistiche sono abituate ad assistere ad una oscillazione sistematica dal classicismo al romanticismo e viceversa; da un'età caratterizzata dal dominio della ragione, dell'ordine, del controllo e della chiarezza, a un'età di passioni, di ambiguità, di libera espressione e di rivolta.

Fino a un certo punto tali movimenti vengono avvertiti anche nel campo delle scienze, sebbene, normalmente, in modo più lento. Nella scienza riscontriamo una differenza temperamentale fra le menti forti e quelle deboli, secondo l'espressione di James, oppure, nel linguaggio di Boring, fra i sostenitori del niente tranne contro i fautori del qualcosa di più; nel XIX secolo avvenne un contrasto fra oggettivismo e positivismo, da una parte, e soggettivismo e intuizionismo, dall'altra. I positivisti intransigenti avevano dominato per lungo tempo, ma verso la fine del secolo si verificò una specie di rivolta romantica nel campo scientifico, e ciò provocò un netto orientamento verso il soggettivismo. Indipendentemente, in due diverse regioni della Germania, Wilhelm Dilthey a Berlino e i "sudoccidentali" Windelband e Rickert proclamarono il primato della comprensione (Verstehen) in alcuni settori della scienza al di sopra della quantificazione degli elementi, e ciò avveniva nell'ambito della corrente intellettuale di cui ci occuperemo in questa sede.

Essi proposero la distinzione fra due tipi di scienza: le Naturwissenschaften, scienze naturali, e le Geistesswissenschaften, traduzione tedesca delle "scienze morali" di J.S. Mill. Il secondo termine, spesso ritradotto come "scienze sociali" o "scienze umane", significava di fatto qualcosa di molto più complesso in quanto esso comprendeva, oltre alla filosofia e alle scienze umanistiche, anche la storia, la giurisprudenza e, inoltre, molto di quanto viene oggigiorno frequentemente escluso dal campo delle scienze sociali. Nel tentativo di sviluppare due diverse metodologie per le Naturwissenschaften e per le Geistesswissenschaften, W. Windelband e H. Rickert effettuarono, svilupparono e resero popolare una distinzione fra i due tipi di scienza che era stata proposta per la prima volta da A.A. Cournot, fondatore francese dell'economia matematica [Nota 4]. Cournot, che era anche un filosofo della scienza, aveva un concetto sofisticato del caso, e volle esaminare il ruolo da esso svolto nei vari campi della conoscenza nel processo della loro classificazione. Nelle scienze esatte, come egli sosteneva, sono possibili leggi precise, ma nella storia il caso occupa un ruolo così esteso che è possibile affidarsi solo a una disciplina di tipo probabilistico. Eduard Meyer, un altro filosofo della storia, sostenne che ogni evento particolare "dipende dal caso e dal libero arbitrio di cui la scienza non sa assolutamente niente, se non che ha a che fare con la storia" (cit. da Weber, 1949, p. 115, dall'opera di Meyer Zur Theorie und Methodic der Geschichte, Halle, 1900). 

Nota 4:  Si veda l'articolo su Geistesswissenschaften nell'Encyclopedia of the Social Sciences e Cournot (1851). Il lettore interessato ad avere un quadro riccamente particolareggiato di questi concetti e dei loro presupposti può leggere proficuamente Popper (1957) e i capitoli XIII e XVII di Parsons (1937). Un eccellente sommario si trova in Klüver (1929) in cui si possono trovare anche riferimenti alle opere principali di Windelband e di Rickert.

Dovrebbe essere già chiaro che qui ci occupiamo non tanto di due termini isolati ma piuttosto di un insieme complicato di concetti e di punti di vista metodologici. La distinzione nomotetico-idiografica può non riuscire comprensibile al di fuori dei contesto del movimento geistesswissenschaftliche più di quanto non lo sia ogni singolo tratto culturale estratto dal suo ambiente culturale. Per opportunità mi riferirò a questo complesso di idee come al movimento romantico nella storia della scienza. La nostra prospettiva ha subìto tanti cambiamenti così sottili e di vasta portata che è difficile per noi considerare tali questioni con gli occhi del 1900 circa; ricordiamoci, tuttavia, che a quel tempo il vitalismo era una dottrina viva e che le idee di caso e di libero arbitrio [Nota 5] erano concetti rilevanti e strettamente e connessi fra di loro. Molti studiosi credevano che la storia venisse plasmata fondamentalmente dalle azioni dei grandi uomini; come vedremo, il tema della relazione fra personalità e successo è una ricorrente preoccupazione dei romantici.

Nota 5:  Quando scrissi questo lavoro, condividevo il rifiuto - allora prevalente e in gran parte insensato- del libero arbitrio, accettando come autoevidente la proposizione che esso si opponeva all'assunto, scientificamente necessario, del determinismo. Da allora mi sono corretto: vedi Holt (1967a; 1967b; 1989, pp. 246-252). Argomentazioni simili possono essere reperite in Russell (1929), Chein (1972), M.B. Smith (1974), Weiss (1969), e Rubinstein (1997, pp. 440 ss.).

Di fatto è vero che la storia, il genere biografico, e la critica letteraria si interessano soprattutto di incrementare la nostra comprensione di fatti, persone oppure opere particolari piuttosto che di considerare tutti questi come elementi incidentali per la scoperta di leggi generali. Ma uomini come Windelband e Rickert, partendo da questo, finirono per dichiarare in termini radicali che tutte le discipline relative allo studio dell'uomo e della sua attività non debbono e non possono per loro natura generalizzare, ma hanno il dovere di dedicarsi alla comprensione di ogni particolare e alla sua integrazione "come fattore reale causale in un contesto reale e altrettanto concreto" (Weber, 1949, p. 135). La ripetizione della parola "reale" in questo passo sottovaluta il concetto che solo il concreto è reale e che, quindi, le astrazioni non debbono essere ritenute cause di eventi particolari. Inoltre l'analisi astratta di persone o fatti specifici veniva ritenuta fallace in quanto distruggeva la perfetta unità che costituiva l'essenza di ogni particolare di questo tipo. Tale essenza era qualitativa, non quantitativa, e consisteva spesso in significati verbali (opposti ai fatti oggettivi come l'oggetto fondamentale della scienza naturale), che non possono essere misurati ma solo interpretati. Con l'identificazione della distinzione metodologica di Cournot e di quella da loro introdotta fra la conoscenza dell'Essere (Sein), ottenuta nell'ambito della scienza fisica, e la coscienza delle norme (Sollen) e il riferimento ad esse nelle scienze culturali, Windelband e Rickert avviarono il grande dibattito sul ruolo dei valori nella scienza.

Per quanto riguarda la psicologia, Dilthey fu l'esponente maggiore di questo movimento. Egli era un filosofo, ammiratore di Goethe e di Schopenhauer, ribelle contro il cristianesimo e contro Hegel, anche se influenzato dall'interpretazione biblica di Schleyermacher. Egli intendeva rispettare le ragioni del cuore che la mente non riuscirà mai a comprendere, e capire la vita nei suoi termini particolari, senza volerla spiegare. In questo orientamento è evidente l'elemento antintellettuale, e di fatto egli appartiene a quella corrente del pensiero tedesco che fornì il sottofondo filosofico al nazismo. Egli voleva non una riduzione dei dati in termini fisico-materiali o idealistici, ma una penetrazione diretta nella natura vitale delle cose interpretate come insiemi articolati. Il suo metodo era empirico, ma in senso diverso dall'empirismo della tradizione atomistica inglese, in quanto sottolineava l'importanza e il primato dell'unità intera, la Strukturzusammenhang. Ovviamente egli contribuì a preparare il terreno per la nascita della psicologia della Gestalt. Era di natura ottimistica, a differenza di alcuni suoi successori (per esempio di Spengler), e molto influente in Germania.

Secondo il suo pensiero, era d'importanza fondamentale per lo sviluppo delle scienze sociali e culturali il fatto che nascesse una nuova psicologia che egli definì verstehende Psychologie, una disciplina descrittiva che si occupasse della conoscenza sistematica della natura della consapevolezza e della intima unità della vita individuale, facendo altresì attenzione allo sviluppo di essa. Tale psicologia non analizzava né si rifaceva agli elementi, bensì alle relazioni sperimentate. Le forze unificatrici più importanti nell'uomo erano, per Dilthey, l'intenzionalità e il carattere morale. Egli vedeva l'intima relazione della persona con il suo ambiente sociale e insisteva sul fatto che il carattere umano individuale rappresentava uno sviluppo delle istituzioni, non viceversa.

Questi sono solo dei frammenti ricavati dall'ampio complesso di idee elaborate da Dilthey, privo del resto di ordine e di sistematicità; il suo lavoro venne riunito solo dopo la sua morte dagli amici. Ciò nonostante esso servì a stimolare molti studiosi in diversi campi: giurisprudenza, economia, sociologia, filosofia, genetica, storia e psicologia.

Il più importante seguace di Dilthey nell'ambito psicologico fu Spranger, che è noto soprattutto per l'opera Lebensformen (Spranger, 1922), tradotto come Types of Men. Anch'egli operò una netta distinzione fra psicologia esplicativa e psicologia descrittiva, schierandosi a favore del secondo tipo, verstehende. Verstehen, com'egli dice, è l'attività mentale "che raggruppa gli eventi in quanto dotati di significato in rapporto a una totalità". Egli si opponeva all'analisi della personalità suddivisa in elementi e intendeva mantenersi su un piano di "insiemi intelligibili". Come elemento fondamentale nello studio dell'individualità egli suggeriva, seguendo ancora una volta Dilthey, che i valori della persona, capaci di determinare la direzione dei suoi sforzi, debbono essere considerati di interesse primario.

Dilthey aveva proposto tre forme di Weltanschauung, che, secondo lui, starebbero alla base delle personalità, caratterizzandole, così come distinguerebbero le dottrine dei filosofi da lui studiati. Spranger propose i suoi famosi sei tipi ideali di valori ai quali corrisponderebbero più o meno gli effettivi valori individuali: teoretico, economico, estetico, sociale, politico e religioso. Egli non riconobbe la possibile determinazione culturale della sua scelta di questi sei valori particolari, ma li fece risalire agli istinti. Ciascun tipo di valore possiede la sua etica particolare (quello economico l'utilitarismo; quello estetico l'armonia), e il suo particolare stile di vita in molti modi diversi. Lo schema complessivo venne elaborato piuttosto ingegnosamente.

Questa teoria seguiva le nuove idee in quanto sottolineava l'unità della personalità, secondo un criterio per il quale molti dettagli del comportamento diventano comprensibili quando veniamo a conoscere alcuni fatti decisivi a proposito della struttura totale come, per esempio, i valori principali verso i quali un uomo è orientato; per sottolineare il contrasto fra la psicologia atomistica dominante e quella sua particolare, Spranger definì quest'ultima, psicologia della Struktur. Come teoria generale della personalità essa è viziata da incompletezza e il suo principale motivo di interesse deriva dal fatto di aver stimolato la produzione d'un test "carta e matita" largamente usato, l'Allport-Vernon-Lindzey of Values che viene ancora attivamente impiegato come strumento di ricerca.

Dopo Spranger la storia della psicologia della Struktur e del Verstehen non ha cessato il suo sviluppo, facendo sentire la sua influenza tuttora nel campo della personologia e possedendo ancora dei fautori in Germania in quanto scuola. G.W. Allport ha fatto di tutto per trasferirla nel nostro paese; ci sono poi molte figure minori ma esse non hanno dato dei contributi significativi.

William Stern, che ha avuto qualche influenza nel campo della psicologia, deve essere ricordato, anche se brevemente, sebbene egli cominciasse ad occuparsi di valutazioni dell'intelligenza e il suo lavoro sia confluito solo più tardi nell'indirizzo sopra descritto. La distinzione nomotetico-idiografica non ha avuto nessun posto nei suoi scritti, anche se egli subì l'influenza della Verstehende Psychologie. Egli era ormai un pioniere ed una figura eminente nel campo della psicologia infantile e della psicologia differenziale quando si convinse che la psicologia convenzionale era fondata su una concezione errata. Come psicologi differenziali, egli diceva, noi studiamo funzioni mentali isolate, la gamma e le correlazioni delle loro variazioni, ma trascuriamo il fatto importante che tutte queste funzioni fanno parte di esistenze personali. Come psicologi dell'infanzia parliamo di sviluppo dell'intelligenza e di cose simili, dimenticandoci che solo le persone crescono. Sulla base di un simile ragionamento e fondando la sua psicologia su una filosofia personalistica, egli si convinse che era necessario ricominciare tutto daccapo; la psicologia doveva essere rielaborata sulla base del concetto che la persona individuale e indivisibile è il centro di ogni indagine psicologica. Anche la psicologia della Gestalt, con la sua accentuazione delle totalità e il suo analogo antielementarismo, era insufficiente, poiché "Keine Gestalt ohne Gestalter". Stern si addentrò nella maggior parte dei problemi classici della psicologia, come quello della percezione, arrivando alla conclusione che non esistono problemi separati di percezione spaziale nell'udito, nella vista, nel tatto, ecc., ma che esiste solo uno spazio unico, personale, e che esso viene percepito attraverso qualunque mezzo appropriato. Gran parte dei fatti che erano stati definiti nella psicologia generale di tipo tradizionale furono rimessi in discussione con questa critica radicale.

La teoria della motivazione elaborata da Stern è di tipo complesso in quanto comprende impulsi (tendenze direzionali), istinti (disposizioni strumentali), bisogni, pressioni, volontà, fenomotivi e genomotivi, ecc., tutti raccolti in una struttura difficile e profondamente elaborata che non è possibile riferire in questa sede. Egli non aveva una teoria della personalità come tale; piuttosto il punto di vista personalistico caratterizzava tutta la sua psicologia generale. C'era in lui, tuttavia, una teoria specifica del carattere, concepito come il complesso totale della persona considerata, dal punto di vista dei suoi atti di volontà, e del suo tendere conscio e intenzionale. Benché stratificato, il carattere costituisce una struttura unificata e può essere descritto per mezzo di un certo numero di tratti, ma questo rappresenta soltanto l'inizio in quanto in misura molto maggiore veniva sottolineata la struttura particolare e concreta. I tratti particolari, diceva Stern, anche se descritti in modo impreciso, sono significativi solo quando si riesce a vedere la funzione da essi occupata nella struttura della personalità nel suo complesso.

Sono queste le principali nozioni psicologiche nella corrente delle idee che dettero luogo alla distinzione fra Wissenschaften nomotetiche e Wissenschaften idiografiche e che costituirono, infine, l'ultimo tipo di approccio ai problemi della psicologia. Forse, per quanto riguarda la psicopatologia, bisognerebbe aggiungere il nome di Jaspers. Egli contribuisce a stabilire la continuità fra il movimento romantico della fine del secolo e il contemporaneo movimento di tipo esistenzialista-fenomenologico in psicologia. Il punto di vista geistesswissenschaftliche rappresentò una posizione ancora più di punta nelle scienze sociali dalle quali ancora qualche influenza continua a penetrare nella psicologia. Popper (1957) ha applicato il termine historicism ad una delle principali correnti della sociologia, della storia e dell'economia che si sviluppava come parte della reazione romantica contro la metodologia positiva tipica delle scienze naturali. Nomi grandissimi come quelli di Marx, Engels, Spencer, Bergson, Mannheim e Toynbee rientrano nel numero degli storici e questo movimento non è affatto tramontato ai nostri giorni, nonostante la forza degli attacchi condotti dai positivisti logici che hanno rifiutato la logica sottostante a questa posizione. Non mi inoltrerò a considerare questo importante gruppo di teorici che sono stati adeguatamente sconfitti (Popper, 1957; vedi anche Popper, 1950).

Di quale utilità furono queste idee nuove per il gruppo di psicologi ricordati precedentemente? Gli elementi che essi ricavarono dalla rivolta romantica furono quelli tendenti a sottolineare e a dichiarare degni di studio, come oggetti legittimi di ricerca, la personalità, i valori, le motivazioni e i nessi di tali fattori con la cognizione (per esempio ideologia e percezione). A cominciare dai primi discepoli di Dilthey e procedendo attraverso i solidi contributi di Spranger e di Stern, questi studiosi non aderirono ad una distinzione netta fra metodi idiografici e nomotetici e non furono favorevoli a mutare in modo sostanziale i loro sistemi abituali di ricerca scientifica. Fra i seguaci di questo indirizzo chi rinunciò completamente ai concetti generali, fissandosi esclusivamente alla contemplazione intuitiva delle Gestalten, non rientra in questo quadro; coloro che sono qui ricordati usarono i nuovi gridi di battaglia per contribuire a modificare leggermente i loro campi di attività e a sviluppare nuovi tipi di concetti che come tali si trovavano sullo stesso livello di astrattezza di quelli che Dilthey e i sudoccidentali attaccarono con tanta energia.

Si noti, per esempio, nella sintesi esposta precedentemente, la natura generalizzante, astratta dei concetti motivazionali usati da Spranger e da Stern: entrambi mantenevano i valori e gli istinti che erano considerati presenti in tutte le persone. Quando costoro cessarono la loro polemica e si rimisero al lavoro, gli esponenti della rivolta romantica posero da una parte le loro riserve intuitive e impiegarono strumenti concettuali metodologicamente indistinguibili da quelli della scienza cosiddetta nomotetica. In un certo senso Stern fu quello che con maggior forza fece il tentativo, nella sua Psychology from Personalistic Standpoint (1938), di ricostruire tutta la psicologia dalle fondamenta; ma, a esaminarli più da vicino, i cambiamenti da lui introdotti si rivelano di natura prevalentemente verbale. E' giusto, per esempio, parlare di spazio personale, ma nel far questo non venne impiegato alcun metodo di ricerca idiograficamente personalistico. Si potrebbe persino dire che non c'è stato nessun ulteriore sviluppo di una psicologia personalistica della percezione, se si esclude il fatto che Stern ha contribuito a fissare l'attenzione su nuovi tipi di variabili generalizzate desunte dallo studio delle differenze individuali nel comportamento percettivo (vedi Klein & Schlesinger, 1949).

Tuttavia, la sua opera ha rappresentato un'importante spinta innovativa nella storia delle idee ed ha prodotto una utile influenza sulle scienze del comportamento.

Ben inteso, non le ha rese di tipo idiografico, ma ha contribuito a far rivolgere la loro attenzione su problemi di tipo nuovo o trascurati e su nuove specie di variabili, come pure sul problema della struttura, cioè sul modo in cui le variabili risultano organizzate. Come avviene per molte ribellioni, questa si rivolse contro una tradizione ormai priva di senso, solo per produrre un'altra posizione estremista che, se fosse stata presa alla lettera, si sarebbe rivelata altrettanto inutile o anche di più. Fortunatamente gli scienziati solo di rado prendono i loro concetti in termini così letterali e con tale coerenza logica; soprattutto in un'età in cui le idee del passato vengono capovolte, il contenuto rilevante di un movimento nuovo è spesso di tipo emotivo. Nel dramma dell'esagerazione può sostituirsi una accentuazione prevalente ma di tipo opposto e in tempi più calmi altri uomini possono trovare una posizione consistente dalla quale muovere in avanti [Nota6].

Nota 6:  Come viene affermato qui, il testo sembra implicare che la soluzione è un compromesso, mentre ora sono convinto che nella frase di Ackoff (1974, cap. 4) non è implicato altro che un cambiamento di ethos o di età. Vedi, più oltre, la Nota 18.

Certamente la psicologia e la scienza sociale che dominarono il campo in Germania durante gli anni 1880-1890 furono inadeguati sotto molti punti di vista come metodi scientifici per lo studio di importanti problemi umani. Ci fu un momento in cui non solo i giudizi di valore ma anche l'interesse psicologico per i valori vennero banditi dall'ambito scientifico. Fechner e Wundt avevano cominciato a occuparsi di problemi che è facile lasciar cadere come banali, limitati o lontani da ciò che l'uomo della strada pensa essere proprio della psicologia. La psicologia sperimentale doveva prendere quella via ed ora è possibile volgerci indietro a considerare un insigne, lento sviluppo di metodi e di concetti che permettono attualmente gli studi di laboratorio sulla personalità e l'analisi di alcuni dei temi più stimolanti della vita. Ma ci si deve meravigliare se settant'anni fa una persona che si interessava dell'uomo, vedendo in esso colui che patisce, che soffre, che elabora ideologie - e Dilthey era tutto questo insieme - ritenesse che il metodo scientifico classico potesse essere in se stesso un errore? Sicuramente il mondo della conoscenza intima, delle passioni e degli ideali era rimasto al di fuori e il movimento verstehende rappresentò una rivolta contro questo tipo di posizione unilaterale.

Il ruolo storico della psicologia differenziale

In psicologia il movimento romantico è stato avvertito soprattutto nella personologia, cioè nella psicologia della personalità. Una ragione di questa particolare influenza sta nel fatto che la personologia si sviluppò nell'ambito della psicologia differenziale, cioè della psicologia che studia le differenze individuali.

I primi sforzi per costruire una "nuova psicologia" compiuti negli anni '90 furono rivolti a rintracciare delle generalizzazioni empiriche e delle leggi astratte relative a certe funzioni come la sensazione e la percezione (concetti, questi, che rappresentavano una eredità della psicologia delle facoltà). Si trattava di ciò che Boring ha definito la scienza della mente media, sana, adulta (e potrebbe aggiungersi, maschile), una sottile concezione aristotelica che relegava lo studio delle donne e dei bambini e del comportamento abnorme ed eccezionale, in genere, a una categoria subordinata. Anche in questi termini restavano tuttavia imbarazzanti casi di eccezioni alle leggi generali anche quando i soggetti erano "adulti medi e sani"; perciò il campo della psicologia differenziale veniva concepito come una specie di cestino dei rifiuti destinato ad accogliere queste fastidiose anomalie. Dal punto di vista del più alto genere di indagine psicologica, quella relativa allo studio delle leggi in un modo non collegato alla psicologia differenziale, la varianza residua priva di spiegazione continuava ad essere considerata un errore e ad essere trattata come una materia di tipo casuale e non subordinata ad alcuna legge.

Gli psicologi che si contentavano di lavorare con la collezione degli scarti residui dalle tavole psicologiche di tipo elevato furono ulteriormente danneggiati dalla inquinamento dell'applicazione pratica, poiché essi si dedicavano soprattutto ad applicare la psicologia a problemi ordinari di vita come quelli dell'educazione infantile, della cura degli anormali e della selezione professionale. Un'attività di questo tipo richiedeva la predizione del comportamento e ben presto divenne chiaro che le leggi generali fornite da una "psicologia scientifica" lasciavano un largo margine non prevedibile; praticamente si rendeva indispensabile fornire loro un supplemento per mezzo di qualche tipo di conoscenza particolare che si occupasse delle altre importanti determinanti.

Col passare del tempo gli psicologi differenziali compirono un mutamento radicale nei loro procedimenti. In un'età in cui le differenze individuali venivano considerate come errori - praticamente non regolate da leggi - queste furono catalogate e misurate e vennero compiuti alcuni tentativi per spartire la varianza in termini di sesso, di età, di gruppo etnico e secondo altre categorie demografiche di tipo generale. Durante gli anni '40 e '50, tuttavia, gli psicologi della personalità hanno cominciato ad avvertire con sempre maggiore intensità che tutti i termini di errore delle equazioni psicologiche standard costituiscono il loro terreno di ricerca più favorevole. Differenze individuali in fenomeni percettivi del tipo consacrato come l'errore di tempo, la valutazione dimensionale e la costanza della forma si dimostrarono di tipo non casuale ma riferiti in modo attendibile ad altre dimensioni delle differenze individuali nei fenomeni cognitivi e anche nel campo non cognitivo (vedi Gardner, Holzman, Klein, Linton & Spence, 1959).

L'errore implicito nel trattare le differenze individuali come se fossero casuali e prive di leggi somiglia a quello compiuto dagli scienziati del secolo scorso che concretizzarono le leggi di Newton come proposizioni relative ai corpi meccanici. In entrambi i casi la comprensione di determinati princìpi era in ritardo su quanto ci si sarebbe potuto aspettare. Da un punto di vista obbiettivo le leggi che regolano la variazione individuale nella percezione del movimento apparente sono astratte come le leggi che riguardano il caso generale e hanno una diversa condizione metodologica soltanto a causa della circostanza storica che portò alla scoperta anteriore delle prime rispetto alle seconde. Inoltre, nonostante la promessa implicita nel titolo dell'opera di Klein & Schlesinger del 1949 (Where is the perceiver in perceptual theory?), lo studio di questi princìpi generali non riconduce il soggetto percipiente, la persona nel senso sterniano, alla psicologia percettiva; si tratta semplicemente, per così dire, di un cambiamento nell'asse di generalizzazione e non di un sistema per diventare meno astratti rispetto alla percezione.


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