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Dibattito tra Ettore Perrella e Antonello Sciacchitano
su psicoanalisi e psicoterapia:
un appassionato "litigio" tra due analisti lacaniani

Quinta parte di dieci parti

(Vai alle parti 1, 2, 3, 4, 6, 7, 8, 9, 10)


Da Perrella a Sciacchitano

Padova, 11 settembre 1997

Caro Antonello, questo scambio di lettere, come ti dicevo già l'altra volta, mi pare importante, perché dà a entrambi l'occasione di chiarire punti che però non riguardano solo noi due. Rispondo quindi punto per punto alle tue obiezioni, pregandoti di nuovo di replicare. Quasi sicuramente non riusciremo mai a essere d'accordo su tutto (e non si vede perché dovremmo), ma forse potremo intenderci sui punti fondamentali. Perciò la partita mi pare tutta da giocare.

Naturalmente su alcuni punti sono perfettamente d'accordo con te. Non c'è dubbio, per esempio, che la citazione evangelica che tu fai esprima una posizione perfettamente etica. Non c'è dubbio nemmeno che, quando tu concludi - a proposito di coloro che, fra i nostri confrères, come si dice curiosamente in francese, sono poco interessati a un "programma così [...] "intellettuale"" - che "non pensano", hai perfettamente ragione a rammaricartene. Tuttavia non so se basti fare esperienza dell'inconscio per acquisire la capacità di pensare. Mi pare invece che chi si rifiuta di pensare ben difficilmente è in grado di fare un'analisi. Anzi qualche volta sembrerebbe che finirne una, e magari divenire analista, faccia perdere l'abitudine... Quanti che si fanno sostenere immaginariamente dall'adesione a un certo credo psicanalitico, per esempio, pensano ancora? Ho assistito a troppi convegni sedicenti di psicanalisi, in cui non si faceva che recitare la lezione lacaniana, per essere costretto a chiedermelo. Ma qui vengo al primo punto importante fra quelli su cui non sono d'accordo con te.

Quando dico (ma dici anche tu) che queste persone non pensano, stiamo esprimendo (sia io, sia tu) un giudizio etico? Se così fosse, mi avresti, come si dice, colto con le mani nel sacco, quando mi accusi di contraddirmi nel credere che, per un analista, sia indizio di viltà non prendere una posizione politica sulla legge 56 (ma, se mi contraddico io, ti contraddici anche tu...). Tuttavia non è affatto così, né per me né per te, perché nessuno, eticamente, può o deve giudicare un atto altrui. L'unico imperativo davvero etico è anzi l'evangelico (di nuovo!) di non giudicare. Ora, quando suppongo che questa viltà potrebbe far parte della posizione di molti di noi (magari anche di me stesso), sto esprimendo un giudizio etico? Assolutamente no, perché si tratta d'un problema di morale. Certo, quest'ultima parola è desueta, fra noi psicanalisti, che però facciamo male a continuare a parlare d'etica come se la morale fosse il suo contrario. Essa invece contiene criteri di giudizio generale, sui comportamenti e sugli atti, che sono non solo inevitabili, ma assolutamente necessari. Infatti i giudizi, in quanto formulati in parole, sono sempre generali. Per questo è non solo difficile, ma impossibile, giudicare eticamente.

Certo, qui si pone il problema del giudizio su noi stessi. È un punto difficile, sul quale mi sono soffermato nel mio commento alla Lettera ai Romani. Quel che penso è che, quando ci si giudica, non si può che sentire ciascun nostro atto eticamente insufficiente. Non mi riferisco solo a quanto dice Freud a proposito del Super-Io (se mai questa è solo una conseguenza), ma proprio al fatto che giudicare di essere nel giusto significa compiere un atto di superbia. Ciò non significa che chi agisce bene non lo sappia. Ma un conto è saperlo, e un altro è dirlo. È per questo che quanti danno un'impostazione religiosa alla propria esistenza attribuiscono a una potenza a loro esterna tutto il bene che compiono, attribuendo invece a se stessi soltanto le colpe. Ciò non dipende da alcuna ipocrisia, ma da un motivo etico assolutamente strutturale.

Quindi, quando esprimo un timore o anche un giudizio generale, non escludo affatto che per qualcuno possa essere vero il contrario. Quel che so con certezza è che Spaziozero perderà ogni funzione se non prenderà pubblicamente delle posizioni chiare sul problema della formazione degli analisti e della loro posizione giuridica. Ciò non ha niente a che fare con alcuna mia predilezione per i giochetti politici(se mai pecco per una totale repulsione per tutto ciò che ha a che fare con queste cose), ma dipende da una consapevolezza che spero sia ben fondata eticamente (lo spero perché non posso affermare che ne sono certo).

Ma veniamo a un secondo problema: la psicanalisi, tu dici, non serve a niente, perché non è finalizzata "ad alcuna elevazione dello spirito". Ammetterai che, da un punto di vista logico, non è proprio una gran deduzione: che una cosa non serva a elevare lo spirito non significa che non serva a niente. Certo, bisogna intendersi su che cosa significa "servire". Quando dico che la psicanalisi serve a formare(mentre una psicoterapia serve a eliminare un sintomo) non sono affatto originale, perché con altre parole ripeto quel che afferma Lacan quando dice che l'analisi didattica è l'analisi finita. Dire invece che non serve a niente non mi pare corrispondere né alla realtà delle cose, né a quello che credi tu (infatti, se davvero tu credessi questo, non potresti più porre nessuna differenza, per esempio, fra una teoria corretta e un'errata o riduttiva).

Terzo problema: l'uno. Qui avremo forse modo di "litigare" molto a lungo dopo che avrai letto il mio articolo. Quando dici che "l'uno si disfa", ti potrei chiedere: e le parti che si producono così non sono forse "une" come l'uno di partenza? Ci ho fatto su un seminario, che ti ho mandato, sperando che tu mi dicessi che cosa ne pensavi. Beninteso, supponevo che non saresti stato molto d'accordo con quello che avevo detto io. Ma perché non dirlo, se non lo eri? Oppure erano tutte affermazioni scontate, che non meritavano nemmeno una minuscola considerazione? Infine, non vedo proprio che relazione ci sia fra cadere dal trono del fantasma e l'uno.

Ma veniamo al punto più importante. La tua tesi (che beninteso non è solo tua) certamente non è "rivoluzionaria"(che tu pendessi da questa parte, a dire il vero no, non ci speravo proprio),anzi, che tu lo sappia o no, è insopportabilmente reazionaria. Il positivismo giuridico che gli avvocati e tu difendete come se fosse la cosa più ovvia di questo mondo corrisponde all'ideologia del diritto che ha favorito il sorgere niente meno che del nazismo. Non sto affatto esagerando(Galli l'ha capito benissimo). Dire che lo Stato ha diritto di legiferare su qualsiasi cosa significa infatti separare totalmente la sfera del diritto da quella della giustizia, e autorizzare così qualunque regime a fare qualunque cosa. Beninteso, ci sono precedenti rispettabilissimi, alcuni dei quali inquietantemente prossimi a Freud (mi riferisco a Kelsen). Kelsen tuttavia s'è accorto d'aver commesso un errore molto grave, e ci ha scritto su una palinodia. Ma il positivismo giuridico (che non è altro che un nome dello statalismo), fra i filosofi del diritto, dopo il1945 (!!!), non gode più del minimo prestigio, anche se bisogna riconoscere che chi ha una formazione giuridica è ancora oggi nella posizione peggiore per elaborare una concezione del diritto diversa da quella che tu credi normale. Ciò nonostante nessuno più pensa che lo Stato possa legiferare come crede su qualunque cosa (a parte gli avvocati, che notoriamente non sanno niente di filosofia del diritto). Crederlo, infatti, significa confondere la legittimità con la legalità. Se vuoi una piccola bibliografia, te ne posso fornire un'essenziale e molto utile.

Su questo punto, caro Antonello, non mollerò mai, perché il problema è di politica complessiva, anzi niente meno che di civiltà. Si tratta insomma di ben altro che di scontenti di psicanalisti. Lo dico a partire dalla mia posizione che non è mai stata né mai sarà di politicante. Certo non ti annoierò mai più con le commissioni parlamentari, ma continuerò a farlo con l'esigenza che gli aderenti a Spaziozero si chiariscano le idee sui risvolti politici generali (ed etici)delle proprie posizioni. Lo übertreten di Freud, da questo punto di vista, poteva funzionare solo prima del nazismo, quando in Europa esisteva ancora un liberalismo che oggi è quasi del tutto tramontato(e che in Italia non è mai esistito). Ma quello di Freud non è un grande esempio, dal momento che faceva parte del numero degli ebrei che non credevano nei campi di concentramento, finché non ci sono finiti dentro, come sarebbe capitato anche a lui, se non fosse stato per la Bonaparte.

Con affetto, Ettore


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