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ANNOTAZIONI FENOMENOLOGICHE SULLA NOZIONE DI DELIRIO

Riccardo Dalle Luche

Responsabile SPDC ASL 1 - MASSA CARRARA

 

 

Introduzione

I fenomeni detti deliranti restano elusivi nella loro natura perché, come già riconosceva Jaspers (15), benché si esprimano mediante giudizi e si riconoscano di regola per il loro contenuto, nascono da esperienze che "non riusciremo mai a rappresentarci in modo chiaro ed evidente" (p.103). Parlare di delirio come fenomeno isolato è un’astrazione artificiale, come hanno sottolineato, oltre allo stesso Jaspers, Rümke (22) ed altri (8) , perchè in effetti ciò che esso rivela è una modificazione globale dell’esperienza. La fenomenica del delirio è stata completamente riassunta e sistematizzata da Jaspers che sul delirio ha dato il meglio di sé come psicopatologo, conducendoci sul limite della comprensibilità statica e genetica proprio facendocene intravedere l’origine in esperienze fondamentalmente ineffabili ed inafferrabili. L’oltrepassamento di questo limite, cioè il passaggio dalla nozione di delirio come idea, credenza o giudizio a quella di esperienza, coincide quindi con l’oltrepassamento della stessa psicopatologia jaspersiana (come del resto avviene per ogni altro fenomeno psicopatologico quando da "disturbo" lo si considera un modo di esperire). Tuttavia, oggi, della stessa trattazione di Jaspers si ricordano in genere in modo un po’ stereotipo soltanto i tre criteri "straordinaria convinzione soggettiva", "inconfutabilità ed impermeabilità all’esperienza concreta", "impossibilità del contenuto", che lui considerava imprecise caratteristiche esteriori comuni a tutti i falsi giudizi che, in modo vago, si chiamano idee deliranti (15, p.103), ed il ritornello della incomprensibilità dei deliri primari rispetto alla derivabilità e presunta comprensibilità delle idee simil-deliranti (o deliroidi secondari). L’appiattimento della psicopatologia del delirio a queste poche nozioni porta ad una generale "incomprensione" dei fenomeni deliranti che rappresentano oggi solo un "bersaglio" sintomatico ("fenomeni produttivi psicotici") nell’ottica della convinzione sempre più diffusa che la psicopatologia è sulla via di essere completamente sostituita dalla psicofarmacoterapia.

Per (ri)pensare la psicopatologia dei deliri bisogna dunque tornare all’esperienza delirante, all’esperienza dischiusa e rivelata dall’esistenza dei deliri. "Esperienza" è la parola chiave della fenomenologia, intesa come traduzione del tedesco Erlebnis, reso di solito col pessimo vissuto, un participio al posto di un presente che in italiano richiede una locuzione insostantivabile: "ciò che sto vivendo", "cioè che è" nel campo psichico presente, la sintesi quintessenziale di tutte le funzioni psichiche (percezione, memoria, affettività, volontà) nella precisa e determinata situazione in cui il soggetto si trova; dunque globalità di rimandi, attribuzione di senso, progettualità di intenzioni, messa in gioco del soggetto.

Nel campo psicopatologico l’esperienza è un "vissuto" qualitativamente diverso e irriducibile al senso comune della psico-logia (alla logica narrabile della psiche), come dimostrano una serie di paradossi nei quali ci imbattiamo ogni volta che incontriamo clinicamente ciò che individuiamo come fenomeno psicopatologico, dovendo ricorrere a definizioni metaforiche trasposte da un linguaggio che è stato costruito per descrivere la realtà esterna e non quella interna. L’estrema divergenza semantica dei termini che nelle varie lingue designano il delirio, indica come il sapere collettivo che si sedimenta nelle lingue naturali, abbia utilizzato diversi riferimenti metaforici per questi fenomeni: il latino delirare (de lira ire: uscire dal seminato) sottolinea l’allontanarsi dal senso comune delle affermazioni deliranti; analogo è il significato del termine paranoide (dal greco para nous noos, pensiero che non tiene conto dell’esperienza comune); invece il tedesco Wahn (dalla radice Wen che indica un’aspirazione, un desiderio) richiama il carattere fantastico ed onnipotente di alcuni temi deliranti, mentre il termine Wahnsinn (che significa insensatezza, demenza) deriva dalla radice wan che significa mancante, vuoto; infine l’inglese delusion rinvia al latino deludere, vale a dire rappresentare, dare l’illusione di, richiamando l’irrealtà, talora anche verosimile, dei temi deliranti (23). Deviazione dalla realtà, illusione, soddisfacimento di un desiderio, riempimento di un vuoto sono indubbiamente tutti caratteri rintracciabili nelle esperienze deliranti. Ma vediamo alcuni dei paradossi che emergono quando ci imbattiamo in ciò che conosciamo e definiamo delirio:

  • Un primo paradosso è che, pur definendosi per un errore ed un errare (de -lira -ire) del giudizio, la struttura logica e critica del pensiero delirante resta, di regola, corretta; siamo in presenza, si potrebbe dire, di un deragliamento logico con integrità delle rotaie.
  • Un secondo paradosso è che l’inverosimiglianza e l’impossibilità dei contenuti è talora largamente minore di quella di credenze consensuali ampiamente diffuse nella popolazione normale; oltre al classico esempio dei temi magici e religiosi aggiungerei oggi le credenze nelle possibilità illimitate della scienza di poter trasformare la realtà naturale.
  • Un terzo è che l’assoluta certezza delle convinzioni deliranti nella maggior parte dei casi non si traduce in un "motivo adeguato d’azione"e, una volta risolta la fase acuta di malattia, recede completamente. Il delirio è un pensiero sragionevole e come tale sostanzialmente ininfluente sulla realtà, anche quando pretende di averci presa e modificarla, con le dovute eccezioni che, in quanto tali, assurgono agli onori della cronaca.
  • Un quarto è che l’errare ed il de-lirare si esprime, di generazione in generazione, e indipendentemente dai contenuti superficiali che variano col variare del contesto socio-tecno-culturale, secondo modalità identiche, per cui, di fronte alla cosiddetta "bizzarria" delle convinzioni deliranti, bisogna piuttosto pensare ad un ordine logico necessario (privo di ogni libertà), ed in fondo estremamente limitato e stereotipo, in conformità al quale gli uomini delirano.
  • Un quinto paradosso, legato al precedente, è che tradizionalmente si ritiene (11) che questi temi riprendano alcuni motivi antropologici fondamentali che corrisponderebbero a "nodi particolarmente vulnerabili della realtà". Ma queste corrispondenze tematiche sono fittizie, rinviano ad un’identità dei significanti piuttosto che dei significati, i quali presuppongono un’integrità dei riferimenti al reale che il delirante non ha: un delirante di gelosia ha un’esperienza completamente diversa da quella dell’uomo geloso, il delirante di possessione demoniaca non ha niente a che vedere con un membro di una setta satanica, il delirante di rovina non ha nulla a che fare con l’uomo effettivamente rovinato finanziariamente e così via. La stessa credenza, come già sottolineava Griesinger (13), può essere normale o delirante e raramente il clinico ha dubbi pratici in materia, senza peraltro poter stabilire con esattezza quali siano i criteri del suo giudizio. Infatti i contenuti delle enunciazioni sono empiricamente verificabili come veri o falsi, ma le enunciazioni deliranti sono tali soprattutto per il "modo", la "forma" con la quale vengono fatte (28, 29); la modificazione della forma rinvia ad un’alterazione della struttura stessa della soggettività che condiziona giudizi di realtà molto più indicativi dello stato del soggetto che di quello dell’oggetto a cui apparentemente rinviano. L’incomprensibilità dei temi, rilevabile col metodo della comprensione genetica, è limitata alle "premesse" del pensiero delirante (8) piuttosto che alla sua forma finale, alla quale il soggetto deve pervenire ed aderire per necessità associativa. Non tutto il contenuto esplicito di un delirio corrisponde al tema, molto più limitato ed estraneo al soggetto, e, proprio per questo, più inconfutabile e irriducibile (8).

I deliri sono quindi modi tipici di ragionare, o meglio, di sragionare, che, in presenza di una capacità formale di giudizio sostanzialmente, anche se non necessariamente intatta, emergono da una matrice alterata della struttura dell’io che li rende incommensurabili alla realtà dei significati condivisi.

 

 

Realtà e irrealtà nel delirio

Il passaggio da una de-finizione di delirio come errore di giudizio al tentativo di concettualizzare il delirio come esperienza, vale a dire la variazione qualitativa della coscienza che lo determina (8), costituisce il percorso di tutti coloro che, tentando di andare oltre Jaspers, da un lato hanno proposto modelli neuropsicologici e neurocognitivi degli elementi di base del delirio (8, 14), dall’altro hanno preteso di percorrere strade fenomenologiche ed antropologiche essenziali, aprendosi il varco nella selva indistinta delle possibilità precategoriali per ritrovarsi su sentieri filosofici interrotti che lasciano aperta la dimensione di mistero inquietante di questi fenomeni.

Nella prospettiva fenomenologica il passaggio dal concetto di errore di giudizio a quello di esperienza sposta i fondamenti della riflessione psicopatologica dalla questione verità/non verità (2) a quella realtà/irrealtà e mette in luce il paradosso di fondo di ogni fenomeno psicopatologico, quello di essere più o meno verosimile (o inverosimile) nei contenuti, ma di fatti estraneo alla realtà oggettiva, comune e quotidiana: i deliri, come del resto le fobie, le ossessioni, i lamenti e le altre idee morbose esperite ed espresse dai nostri pazienti, non comunicano affatto qualcosa sulla realtà oggettiva ma piuttosto qualcosa sulla realtà soggettiva (la realtà vissuta) rivelata e creata dalla malattia: non sono comunicazioni sul mondo ma sui "mondi" patologici (sollevando necessariamente la questione di ordine filosofico su cosa sia un "mondo"). Non è quindi possibile una psicologia dei deliri, salvo cadere nell’errore di trattarli come qualcosa di reale e oggettivo, come avviene negli approcci cognitivo-comportamentali, ma solo una fenomenologia dei deliri (29).

Anche il pensiero psicoanalitico in tema di psicosi si fonda sulla nozione di "perdita della realtà" e non su quello di "errore" rispetto ad una "verità". Anche il nevrotico rinnega difensivamente la realtà, ma solo nel senso di non riconoscerla perché rimossa (Verdrängt), di non volerne sapere nulla (diniego, Verneinung), mentre solo lo psicotico opera una radicale sostituzione della realtà, rigettata (12) o, meglio, preclusa o forclusa (Verwerft) , espulsa dal campo simbolico, come hanno sottolineato Lacan e la sua scuola (19). Se Freud e la psicoanalisi ortodossa valorizzano il senso di ricostruzione della realtà nelle psicosi (nel delirio) che utilizza meccanismi difensivi che rendono possibile una regressione percettiva (percezioni cioè che giustifichino l’esistenza di una nuova realtà), Lacan sottolinea la perdita di capacità simbolica nelle psicosi ed il predominio in esse degli automatismi significanti; un modello, il suo, che esplicitamente si rifa e rivaluta quello del grande psichiatra degli anni ’30, Gaetan Gätian de Clerambault (19). La distinzione nevrosi/psicosi, scrive Freud, si attenua se vediamo in entrambe una collisione con la realtà effettiva ed un tentativo di sostituzione, ma resta il fatto che la nevrosi lavora ancora simbolicamanete con i dati di realtà, la psicosi opera ad un livello nel quale le capacità simboliche sono abolite. Il suo paradosso è che il cedimento simbolico mette in bocca al paziente direttamente le parole della andere Schauplatz, dell’autre monde, o come si voglia chiamare il riferimento intrapsichico degli enunciati psicotici che hanno solo un’identità di significante con quelli sulla realtà, dimostrando un’alterazione della struttura della soggettività e della sua proprietà fondamentale, la riflessività spontanea (mentre l’iperriflessività degli stati di depersonalizzazione prepsicotici possono essere definiti come perdita di spontaneità della riflessività —6,9, 10).

La psicoanalisi lacaniana come, sotto altri aspetti, quella bioniana (5), hanno avuto senza dubbio il grande merito fenomenologico di portare alla luce questa catastrofe consustanziale di struttura della soggettività e capacità simboliche dove ogni cedimento delle possibilità di essere della prima svincola progressivamente i significanti dall’ordine denotativo a vantaggio delle loro proprietà fonetiche, omofoniche, onomatopeiche ed infine percettive (le famose "voci" che non mancano, prima o poi, di rivelarsi in ogni psicosi che si rispetti e delle quali lo psicotico non è che il portavoce, il porte-parole, come dicono i lacaniani -19). Manca allo psicotico un "apparato per pensare", come dice Bion, per cui le sue affermazioni sulla realtà non sono conoscenze (K), ma "pensieri senza un pensatore" (- K) (5).

Per tornare alla psicopatologia non psicoanalitica rimanendo sullo stesso piano di analisi occorre rifarsi alla nozione di realtà e di coscienza della realtà, discussa da Jaspers (pp.101-2) e ripresa da Tatossian (28, 29). Quest’Autore, grazie alla lettura originale dei testi, può riproporre la distinzione della lingua tedesca tra "realtà" (Wirklichkeit), qualcosa che oppone resistenza sulla dimensione dello spazio e del tempo e della realizzazione delle tendenze e dei desideri —la realtà con la quale dobbiamo quotidianamente fare i conti e per la quale necessitiamo di una vera capacità di ragionare-, e la "realtà" (Realität) vissuta e pensata, che può non opporre resistenza perché è sempre in una certa misura manipolabile e aggiustabile a piacimento, e che intenziona il mondo del potenziale e del possibile piuttosto che quello della fatticità della natura, ma che con la prima condivide il riferimento ad un mondo di significati verso i quali si nutrono livelli diversi di certezza (15). Tuttavia, se non ha effetti pratici sulla realtà (Wirklichkeit), la realtà pensata (Realität) induce forti modificazioni affettive sulla sfera intersoggettiva, introducendo, come ogni manifestazione che altera la struttura formale e convenzionale delle conoscenze, la dimensione del perturbante e dell’inquietante, con un effetto di ostacolo sull’attività pratica: anche l’irreale produce effetti reali (wirklich) ed il nostro compito di psichiatri è proprio quello di eliminare queste perturbazioni (se così non fosse la psichiatria non avrebbe un ruolo sociale).

Per il delirante, insomma, la realtà (Realität) è quella del delirio, mentre la realtà condivisa è qualcosa di falso, e non è raro che qualche paziente, aggirando l’idea del delirio come errore di giudizio, come falsa convinzione, si rivolga allo psichiatra dicendo "vuol sapere le cose reali o quelle false?", oppure descriva il suo mondo delirante riferendosi alla "vera realtà", esponendo lo psichiatra all’errore di prenderlo alla lettera valorizzando quanto di ipocrita ed in autentico spesso viene a circondare la realtà "oggettiva" del delirante. Lo stabilirsi di convinzioni deliranti, cioè di un sistema di idee che il soggetto condivide senza ombra di dubbio con se stesso, rappresenta per lui una sorta di "guarigione", di superamento e oltrepassamento dei fenomeni perturbativi predeliranti che, quali essi fossero (panico, depressione, confusione, perplessità) venivano percepiti come disturbi e consentivano l’aderenza al modello di malattia e la compliance terapeutica: lo stabilirsi del delirio viene vissuta invece soggettivamente come una guarigione, come il raggiungimento di un livello superiore di conoscenze, come l’esito di un processo di morte e rinascita ("la persona che lei ha avuto ricoverata è morta, ora sono un’altra e nessuno può fare diagnosi su di me!" mi ha detto, emblematicamente, una paziente).

Poiché non si possono trovare criteri discriminatori certi per i giudizi di realtà che costituiscono gli esiti delle trasformazioni delle esperienze della realtà, la fenomenologia (29) va alla ricerca degli atti rappresentativi (intesi in senso lato come percezioni, rappresentazioni, immagini ed idee attualizzate in un certo momento) che costituiscono la realtà e, con essa, l’esperienza di sé e l’esperienza di essere sé.

Emerge a questo livello un’ulteriore distinzione, quella tra apparenza e apparizione che mette in risalto l’ennesimo paradosso delle esperienze deliranti, quello di aspirare ed enunciare nella forma della rivelazione (2) una verità che è invece in effetti un "apparenza illusoria", come ha sottolineato Storch (27) affermando il carattere ontologico di apparenza di ciò che noi chiamiamo delirio. Il criterio dell’incorreggibilità è quindi solo uno strumento operativo quando si definisce il delirio come credenza mentre è una caratteristica essenziale quando la si riferisce all’esperienza, al "sentimento reale che è alla base del delirio" (8, 22).

Per articolare didatticamente queste tracce generali mi riferirò principalmente a due lavori: il primo è una minuziosa critica alla definizione di delirio dei DSM (1) sviluppata da Manfred Spitzer nel 1990 (26); il secondo uno dei primi studi psicopatologici di Tatossian, redatto negli anni 1962-1965 e dedicato all’analisi fenomenologica della coscienza delirante (28).

 

 

 

Critica della definizione di delirio del DSM-III-R e della nozione di percezione delirante

Il DSM III definisce il deliro "una credenza personale falsa basata su un’inferenza scorretta sulla realtà esterna, sostenuta fermamente nonostante chiunque altro creda il contrario e contro ogni prova o evidenza contraria. La credenza non è accettata di regola da nessun altro membro appartenente alla sua cultura o sottocultura (ad esempio non è un articolo di fede). Quando una falsa credenza coinvolge un giudizio di valore estremo, è considerata solo quando il giudizio è così estremo da sfidare la credibilità"

Spitzer (26) critica molti punti di questa definizione per la discutibilità o l’inconsistenza interna rispetto a quanto affermato nelle sezioni speciali dei DSM:

  • per quanto riguarda la falsità: i criteri di verità o falsità non sono applicabili a molti deliri, ad esempio quelli riguardanti temi religiosi; in molti casi il clinico non può disconfermare le credenze deliranti sul momento (ad esempio riguardanti certe persecuzioni o invenzioni); in alcuni casi i contenuti dei deliri sono veri e nondimeno sono deliranti (classicamente i deliri di gelosia, certi deliri di persecuzione, di veneficio etc.).
  • Il criterio "personale": ci sono deliri condivisi da più persone o da interi gruppi;
  • Il criterio "inferenza scorretta": se il delirio si fondasse su un inferenza scorretta si dovrebbe parlare di disturbo formale e non del contenuto del pensiero; non è provato che le inferenze scorrette contribuiscano ai deliri ed in quale misura (i test di inferenza non distinguono schizofrenici da non schizofrenici); non vi sono modelli certi della genesi dei deliri; infine, per fare inferenze scorrette bisogna percepire correttamente la realtà, cosa che non avviene in molti deliri.
  • Realtà esterna: molti "deliri schizofrenici" si riferiscono alla realtà interna del soggetto, che per definizione è inaccessibile a chiunque altro (ad esempio tutti i sintomi di primo rango di Schneider, che rappresentano il paradigma dei "deliri bizzarri" nel DSM III). Il delirio non sarebbe altro che un modo di descrivere correttamente un funzionamento interno del soggetto, cioè non sarebbe un deliro.
  • Sostenute fermamente: è noto che il grado di certezza dei contenuti deliranti varia nei diversi casi ed anche nel tempo in uno stesso soggetto
  • Condivisione dei temi e sistemi di valore: rientrano nel criterio falsità che le invalida.

In generale Spitzer critica che i deliri siano sottospecie di credenze: raramente i pazienti enunciano un delirio dicendo "credo che…", piuttosto dicono di "sapere questo o quello": esprimono certezza rispetto ad alcune dichiarazioni piuttosto che sottoporle alla discussione e all’indagine.

Spitzer critica anche i noti criteri schneideriani per definire il delirio senza riferirsi al contenuto. Per essere, come afferma Jaspers, esperienze di significato, tutti i deliri dovrebbero avere la forma: "Qualcosa 1 significa qualcosa 2 a qualcuno"; in realtà le intuizioni deliranti hanno la forma: "credo che qualcosa1 sia". Per questo motivo Schneider distingue le intuizioni deliranti (Wahneinfalle), che possono essere considerate deliri solo riferendosi al contenuto, e che possono ritrovarsi anche nelle reazioni abnormi e negli sviluppi di personalità, dalle percezioni deliranti (Wahnwahrnemung), sintomi schizofrenici di primo rango, che sono esperienze di significato perché hanno una doppia articolazione, dal percepito al significato. Questa forma logica (e non psicologica) potrebbe definire formalmente il delirio ma in realtà, rileva Spitzer, lo stesso Schneider, nell’esemplificazione delle percezioni deliranti, deve riferirsi all’assurdità di contenuto attribuito alla percezione, cioè alla non congruità del significato riferito alla percezione, anche considerando gli affetti o le credenze culturali (non è la stessa cosa associare la vista di un gatto nero con un presagio di sventura o con la certezza che il mondo stia finendo). D’altronde anche altri autori hanno criticato la nozione di percezione delirante; ad esempio Matussek (20) riteneva che la percezione fosse già alterata in questo tipo di esperienza e Blankenburg (6) vi sottolineava l’alterazione dell’intersoggettività soggiacente l’alterazione del significato. Tuttavia per Spitzer la percezione delirante resta un fenomeno clinicamente oggettivabile che ben definisce il delirio (è difficile negare che non si tratti di un giudizio abnorme di fronte alla presenza di una percezione verificabile come normale): questa caratteristica rende evidente la "certezza" dell’affermazione delirante.

Spitzer popone di definire il delirio sulla base del fatto che il paziente fa affermazioni sulla realtà esterna con la stessa certezza soggettiva inconfutabile di chi fa dichiarazioni su un proprio stato mentale. La diagnosi clinica di delirio avviene infatti sul modo con cui viene fatta un’affermazione piuttosto che sulla sua correttezza. I deliranti infatti si sottraggono ad ogni confutazione o dialogo, in modo autistico. Spitzer finisce per ammettere che i deliri relativi all’esperienza interna non sono deliri, ma modi di esprimere modificazioni soggettive dell’esperienza, inaccessibili agli altri. Si dovrebbe piuttosto parlare di disturbi dell’esperienza, quali molte affermazioni sugli stati di depersonalizzazione psicotica pre-delirante, ovvero sintomi di base di secondo livello quali "sento che non sono io a pensare", "i sentimenti non sono avvertiti da me, le cose non sono viste da me, solo dai miei occhi etc." che i DSM rubricano tra i deliri di influenzamento ("un delirio in cui sentimenti, impulsi, pensieri o azioni sono vissuti come non propri o imposti da qualche forza esterna…"). Tuttavia, quando il paziente fornisce spiegazioni di questi fenomeni (ad esempio: "non controllo i miei pensieri — qualcuno dev’essere a controllarli — qualcuno mi segue- la CIA mi sta dietro") siamo di fronte ad un ottimo modello di comprensione sulla genesi de deliri: lo stesso cui fa riferimento la teoria dei sintomi di base quando li considera concretizzazioni, appigli logici cui il paziente si aggrappa per dare una spiegazione alla metamorfosi psicotica (autocentrica) della propria esperienza soggettiva, operando un amalgama con il patrimonio storico-biografico della propria vita (Huber e Gross, 14). Questo modello ha il grande merito di fornire indicazioni semeiologiche dettagliate sulle variazioni predeliranti dell’esperienza magistralmente descritte da Catalano-Nobili e Cerquetelli (8) oltre 40 anni fa.

 

L’analisi fenomenologica della coscienza delirante

Su un piano propriamente fenomenologico si svolge invece l’analisi di Tatossian rivolta alle modificazioni della coscienza e dell’esperienza di sé che si ha nel delirante e che fonda le caratteristiche proprie di questa esperienza: assoluta certezza soggettiva e inconfutabilità.

Ciò che spinge fin dagli esordi professionali Tatossian ad occuparsi di fenomenologia è la convinzione che le psicosi siano gli stati mentali nei quali è "più radicale e per questo più esemplare che in altri" una trasformazione dell’organizzazione della soggettività, per la quale non vi è migliore (o, tout court, altro) strumento di indagine dell’analisi fenomenologica. Alla coscienza delirante Tatossian dedica uno studio fondamentale, "Analisi fenomenologiche della coscienza delirante" (28), ripreso ed ampliato nella sezione D della "Phénomènologie des psychoses" (29) ed in altri studi successivi (29), utilizzando come osservazione base l’impossibilità dello psicotico di operare una costituzione dell’alter ego (nel senso della "Quinta meditazione cartesiana" di Husserl), essendo preso nell’alternativa tra sostituirlo o subirlo. Perché la coscienza umana (la mente umana) possa accedere ad una costituzione della realtà oggettiva (comune) è necessario che sia in grado di mantenere in se stessa un dualismo riflessivo, una "doppia vita del soggetto trascendentale", vale a dire una distinzione tra coscienza costituente (la realtà) ed uno "spettatore fenomenologizzante" che la riconosca come tale. Nello schizofrenico questo non può avvenire, per cui la sua coscienza oscilla tra solitudine radicale e incomunicabile e "fusione indistinta" con l’universo, tra solipsismo (nel quale è assente lo spettatore) e mondificazione (la Verwltlichung, traducibile anche come cosificazione, adesione ariflessiva ai dati sensopercettivi), essendo l’esperienza in balia di una incontrollabile coscienza costituente. La stessa impossibilità costitutiva fa del delirante un soggetto non più identificabile empiricamente, ma piuttosto una soggettività senza soggetto, o un "soggetto senza Io (Moi)", dell’"Io" che lui usa un pronome che si riferisce "ad un altro tipo di soggettività o perfino l’assenza di soggettività" e del suo discorso "uno pseudo-discorso emesso da uno pseudo-soggetto e rivolto ad uno pseudo-altro", secondo l’icastica formula di de Waelhens che Tatossian fa propria ripetutamente. Il misconoscimento di questa alterazione fondamentale soggiace a tutte le spiegazioni psicodinamiche del delirio che soprattutto negli anni ’70 e ’80 tendevano a considerarlo come una modalità, sia pure immaginaria, di salvaguardare il rapporto intersoggettivo . Una teoria, questa che, come l’idea freudiana del sogno come realizzazione del desiderio, valorizza ermeneuticamente alcuni contenuti misconoscendo l’alterazione formale che li attualizza e scotomizza la maggioranza di casi nei quali non si ha affatto una funzione compensativa dei contenuti deliranti.

L’evidenza del delirio ricorda certamente quella del sogno: la coscienza delirante è una coscienza di conoscenza ridotta ad intenzionare oggetti irreali ed in questo presenta forti analogie anche con i modi di pensare del poeta, del mistico e delle forme magiche di pensiero (e, perché no, del bambino completamente assorbito dal suo giuoco), ma soprattutto con la riduzione operata consapevolmente dal fenomenologo allorché realizza l’epoché. Tuttavia, diversamente da questi tipi di esperienza conoscitiva, lo psicotico non può riguadagnare l’esperienza naturale. Esaminando il caso Achtzig (di Blankenburg) Tatossian sottolinea come il piano sul quale poggia la soggettività schizofrenica è lo stesso di quello del fenomenologo dopo aver compiuto la riduzione: "il campo trascendentale delle possibilità eidetiche di essere in cui la coscienza, non avendo negato ma messo tra parentesi la realtà spazio-temporale, incontra solo i significati che ha costituito e dei quali può pretendere l’infallibilità". L’epoché del fenomenologo si distingue tuttavia da quella del delirante per i modi di procedere, per le motivazioni, per il modo di svolgimento della riduzione, ma anche per i suoi sviluppi: infatti "la soppressione delle parentesi ed il ritorno alla realtà sono un’operazione disseminata di ostacoli e di fonti d’errore che il fenomenologo conosce, ma che il delirante trascura, disconoscendo in particolare che l’irrealtà della coscienza ridotta è la condizione stessa della riduzione". Vi è anche un’altra analogia che Tatossian sottolinea, ed è quella dell’esperienza dello spettatore cinematografico: anche questi, infatti, non intenziona qualcosa di irreale (le immagini sullo schermo ci sono davvero), ma le priva del carattere di realtà: si tratta quindi di un tipo di coscienza che non ha un referente solo immaginativo o rappresentativo (cioè irreale), ma piuttosto un referente la cui realtà è neutralizzata, ed infatti formalmente la coscienza dello spettatore funziona allo stesso modo sia che ciò che vede è un documentario oppure un’opera di fiction.

Su queste basi Tatossian riformula la classica definizione jaspersiana di delirio come errore di giudizio (dotato di assoluta certezza, inconfutabile e assurdo) per considerarlo piuttosto una specie di conoscenza intuitiva infallibile, universale e indifferente alla prassi. Lo schizofrenico insomma neutralizza il valore di realtà di ciò che la sua coscienza intenziona e vive in un universo totipotente ed astorico che subisce ma su cui si illude di regnare sovrano. Questa ridefinizione esemplifica come per Tatossian l’opera di Jaspers sia rimasta sulla soglia della psicopatologia fenomenologia, nata "dopo e talvolta esplicitamente contro il dogma dell’incomprensibilità della psicosi". Se Tatossian condivide con Jaspers che la difficoltà di definizione della nozione di delirio è dovuta alla nostra incapacità di delirare, sottolinea come la sua individuazione clinica sia relativamente agevole, perché non si fonda su ciò che il delirante dice e sulla sua discordanza dalla realtà oggettiva, ma su come lo dice. Non soltanto il delirante "non corregge i suoi giudizi ma non può correggerli". La coscienza delirante non solo si inganna sul mondo, ma anche su se stessa, perché i contenuti del suo delirio sono in realtà dei temi neutri per quanto riguarda il loro valore di realtà, meri e contingenti effetti dell’"attraversamento" biografico dell’ego psicologico. "Ciò che manca alla coscienza delirante è la capacità di capire che l’evidenza dei suoi oggetti non equivale alla loro realtà, né alla loro verità. La realtà ha per tratto essenziale di essere comune agli altri e di dispiegarsi nel tempo, cosa che il delirante ignora e che toglie ogni valore alla sua infallibilità". Tatossian insiste a più riprese sull’"apragmatismo" dei deliranti (esemplificato in modo particolare dal celebre caso Schreber, più volte ripreso) che, quando passano all’atto sulla base dei loro vissuti lo fanno perché si sbagliano sulla natura dei propri oggetti, attribuendo loro valore di realtà e quindi di "motivi adeguati di azione". Più spesso l’intervento sul reale dello psicotico, è il frutto della sovrapposizione di due ordini logici irriducibili, con risultati assurdi, bizzarri, non consequenziali .

Da queste analisi formali indiscutibili per quanto riguarda le fasi psicotiche di stato (siano esse acute e croniche), e che nella realtà clinica ammettono fortunatamente molte situazioni più sfumate e di parziale compromissione della coscienza dell’Io (che grazie a questo loro statuto lasciano spazi per un intervento terapeutico efficace), discendono varie conseguenze: la irriducibilità dell’esistenza psicotica al Dasein filosoficamente inteso come apertura originaria all’Essere, e quindi la necessità di demistificare l’equivoco perpetrato dai seguaci di Heidegger in psicopatologia; lo statuto irreale della morte nel vissuto dello psicotico (delirante), che è sottratto ai cicli delle nascite e delle morti, essendo la sua temporalità assolutamente astorica e questi avvenimenti ridotti a meri significanti modificabili a piacimento; infine, che le condizioni di possibilità di ogni psicoterapia delle psicosi non possono essere cercate su un piano naturalistico perché, come Tatossian scrive in uno dei suoi ultimi lavori (29), sono soddisfatte solo quando, mediante un incontro compiuto radicalmente su un piano di irrealtà (o di realtà ridotta e neutralizzata mediante una riduzione fenomenologica da parte dell’osservatore), venga ricostituito nella coscienza delirante uno spettatore fenomenologico e, con esso, una "doppia vita del soggetto trascendentale": "Se esistesse una psicoterapia del delirio consisterebbe nell’aiutare il delirante a divenire spettatore di se stesso". (In fondo gli approcci psicoterapeutici cognitivi sul delirio tentano questo, ma, pensando di operare sul piano della confutazione reale di temi deliranti, è chiaro che la loro presunta efficacia è più un effetto collaterale del trattamento che un effetto diretto della strategia terapeutica).

La fenomenologia dei fenomeni deliranti ci conduce quindi a comprenderli come epifenomeni di quell’esperienza generale e fondamentale che è la depersonalizzazione psicotica, cioè dell’alterazione della struttura della soggettività che si rende evidente come modificazione della coscienza dell’Io e come trasformazione della riflessività (dall’iper- all’ipo- all’a-riflessività) (9).

Altri spunti di riflessione

Bisognerebbe spendere qualche parola sulla distinzione formale che si ha tra l’esperienza delirante ed altre esperienze analoghe (oltre a quella già ricordata con la riduzione fenomenologica), esperienze nelle quali viene meno l’attività riflessiva e di discriminazione tra coscienza costituente e coscienza costituita, con compromissione dell’insight e predominio della passività sull’attività dell’esperienza; in questo senso ritornano fuori vecchie analogie tra le quali quelle tra delirio e delirium (stati confuso-onirici, classicamente rubricati come alterazioni della coscienza e non del pensiero), sogno e stati sognanti, idee ossessive e fobiche, lamentele ed idee prevalenti; soprattutto queste ultime talora hanno gradi di certezza non minori di quelle di taluni deliri, un minor grado di regredibilità e, se si vuole, anche di insight inteso in senso lato.

Per quanto riguarda il sogno, l’analogia può essere riformulata fenomenologicamente riferendosi alle analisi di Binswanger e di von Uslar (30, vedi anche Cargnello,7) , che, sottolineando come sia nel delirio che nel sogno vi sia una assoluta identità tra essere e significare, che li qualifica entrambi come mondi, che questo loro significare sia assolutamente e primordialmente univoco, naturale, ovvio e aproblematico e come entrambi i mondi —al risveglio per il sogno, alla remissione per il delirio- svaniscano e si rivelino pertanto come nulla. Il risveglio dal sogno, come la regressione dal delirio mettono in luce la trasformazione delle categorie essenziali dell’esperire, "da mondo a nulla, da realtà a apparenza, da unità a ambigua molteplicità, da realtà a impossibilità" (Binswanger,4).

Resta anche il problema della primarietà di alcuni deliri, ammessi già da Griesinger nel suo ultimo articolo (12), che sembrano nascere senza alcun prodromo cognitivo, senza alcuna alterazione affettiva e depersonalizzante preesistente, come effetto diretto di un’alterazione dei substrati cerebrali, come in molte alterazioni ischemiche cerebrali o fatti degenerativi acuti. Questi deliri acuti, in genere di tipo persecutorio, ma talora anche con aspetti simil-melanconici, deriverebbero quindi da un’alterazione acuta della possibilità di un’elaborazione simbolica consapevole, dal venire meno del controllo critico tra la percezione e l’attribuzione di significato.

In conclusione si può dire che i deliri non sono altro che attività patologiche del pensiero e, come tali, veri e propri vasi di Pandora di molti paradossi inerenti la vita psichica, concomitanti a vari gradi di assenza di insight (che è un modo tautologico per dire alterazione della struttura della soggettività e delle capacità riflessive). In questo senso si può fare nostra l’affermazione di Rümke (22) che i deliri sono sempre fenomeni secondari, anche quando psicologicamente appaiono primari.

["Psicopatologia Cognitiva", 1, 1, 2004]

 

Bibliografia

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