Storia clinica e scrittura ipertestuale
Per chi si occupa di malattia mentale (non e' il mio caso, e mi scuso
dell'improvvisazione), la scrittura non costituisce un sovrappiu', qualcosa
che eventualmente si aggiunge al proprio lavoro, ma un elemento costitutivo
dell'attivita' stessa.
Il problema che si pone su questo terreno e' quello della chiave, o meglio
delle chiavi (linguistiche, stilistiche, interpretative) da adottare per
dar conto, in forma scritta, del complesso di fattori che operano dentro una storia clinica.
Lo stesso Freud, nel riflettere attorno all'esigenza di mettere in un
rapporto di non coincidenza la ricostruzione cronologica della malattia e
la sua interpretazione tematica, la storia del caso e quella del
trattamento, riconosce (ne L'uomo dei lupi) l'insufficienza di una
"redazione di verbali esaustivi di quel che accade durante le sedute" e
individua la difficolta' di "inchiodare sulla dimensione piana della
descrizione una forma pluridimensionale".
L'ipotesi che intendo proporre qui e' se una ragione multistratificata e
reticolare come quella che agisce nell'esperienza clinica non possa trovare
riscontro e realizzazione in tecniche di scrittura che, come quelle
ipertestuali, si sottraggono alle logiche di chiusura, di autosufficienza,
di completezza proprie della scrittura testuale (scientifica e in buona
parte anche letterarie).
Scrivere una storia clinica significa semieiotizzare (e anche semiotizzare)
un'esperienza che non e' mai totalmente semeiotizzabile.
Farlo in un ambiente ipertestuale, adottando un block-notes reticolare,
potrebbe consentire di considerare questo dato di fatto non gia' come un
"limite" ma come una possibile ricchezza.
Domenico Chianese, Costruzioni e campo analitico, Roma, Borla, 1997
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