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La riabilitazione e la reintegrazione dell'Io

Un modello di Comunità che svolgesse solo funzioni materne e paterne in cui il paziente fosse solo figlio, sarebbe non-teraprutica perché avrebbe l'effetto di deresponsabilizzarlo mantenendolo in uno stato di dipendenza. Un risultato simile lo ottengono quelle Comunità che svolgono attività prevalentemente assistenziale, ludico o intrattenitivo.
E' dunque necessario che una Comunità che pretenda di essere terapeutica, svolga una funzione riabilitativa e preveda un processo di reintegrazione dell'Io. Tale processo necessita anzitutto della collaborazione del paziente, anzi egli ne è protagonista. Ciò vuol dire che prima ancora di entrare in Comunità, il paziente deve essere aiutato a riconoscere il suo malessere e a maturare la decisione di farsi aiutare.
Se si anticipano i tempi di ingresso, scavalcando la sua volontà per colludere con le pressanti richieste dei familiari, del Servizio o della amministrazione, si rischia di far naufragare il processo terapeutico appena iniziato. Forzare la volontà del paziente affinchè si faccia curare è purtroppo una pratica antiterapeutica molto diffusa. La Comunità diventa allora una struttura cronicizzante e custodialistica, spesso con la complicità del paziente, che in tal modo si sente autotizzato a non collaborare, anzi a tenere un comportamento irresponsabile, che rischia di inquinare anche l'ambiente comunitario.
L'inserimento residenziale dovrebbe aver luogo solo dopo l'accettazione di un “contratto” in cui l'assistito chiede in sostanza di partecipare al programma della Comunità, esplicita i suoi obbiettivi, si impegna a rispettare le regole, dichiara di avere piena fiducia nel suo operatore e pertanto gli dà il potere di occuparsi di lui, per un tempo stabilito. Con l'ingresso in Comunità, il processo di reintegrazione dell'Io è sollecitato anche dal fatto che non ci sono solo figure genitoriali ma anche fratelli, verso i quali non può accampare pretese. La Comunità è infatti anche una piccola società di persone adulte, che ha una sua realtà e che non è solo un luogo di elaborazione fantasmatica; ci sono problemi di convivenza, di vita quotidiana e di gestione della casa, che vengono discussi in assemblea. Non è bene, secondo noi, affidare la gestione della casa esclusivamente a personale di servizio, perché questi lavori servono a responsabilizzare il paziente e a ricordargli che esistono anche gli altri, i fratelli, con le loro esigenze e i loro diritti.
Le diverse aree di attività della Comunità Terapeutica hanno una funzione riabilitativa: rappresentano diversi aspetti o dimensioni della persona nel rapporto con la realtà e servono a promuovere lo sviluppo delle capacità espressive, lavorative, relazionali e introspettive del paziente. Esse costituiscono per lui un'opportunità per fare, esprimersi, confrontarsi con operatori e compagni, e scoprire una diversa immagine di sé, aldilà del ruolo di malato o di figlio.
La precisa definizione del setting, la periodicità giornaliera e settimanale di tutte le attività, costituisce una griglia di riferimento, un sistema che, tramite indicatori, consente di misurare il grado e la qualità della partecipazione dei pazienti alle diverse attività riabilitative, e di misurare i loro progressi durante il soggiorno in Comunità.
Il setting fa da specchio ai limiti del paziente che, grazie alle attività espressive, sociali, psicoterapiche e di autogestione della casa, può verificare le proprie capacità e confrontarsi con le proprie difficoltà espressive, relazionali, lavorative, introspettive. Allora l'operatore può supportare le carenti funzioni dell'Io dell'assistito, dapprima sostituendolo nello svolgimento dei suoi compiti, poi sostenendolo in maniera decrescente nel suo processo di autonomia. Insomma, il setting può fungere da sostituto esterno delle carenti strutture interne del paziente. Questo molto in sintesi, è la natura dell'intervento riabilitativo. Riteniamo tuttavia che tale tipo di intervento sia insufficiente se non accompagnato e integrato con quello psicoterapico.
La riabilitazione mira a far recuperare al paziente competenze che egli possedeva prima della malattia e che la psicosi sembra aver distrutto. Sembra; perché in realtà tali competenze sono per lo più inibite o dimenticate per motivi dinamici, per controllare l'angoscia e la distruttività. Infatti, in un momento di entusiasmo, temporaneamente libero dalle sue paure, accade spesso che il paziente ritrovi inaspettatamente le sue capacità e che dopo l'exploit egli si senta di nuovo e violentemente assalito dall'angoscia, per cui sia tentato di abbandonare la terapia o di compiere gravi atti autolesivi. L'intervento riabilitativo sarebbe sufficiente se le forze che hanno determinato il breack-down non fossero ancora attive nella psiche del paziente. I sostenitori della riabilitazione pura e semplice ritengono semplicisticamente che la malattia mentale sia solo la conseguenza della mancanza di adeguate esperienze, di un deficit nello sviluppo delle funzioni dell'Io. Nella nostra limitata ma significativa esperienza, noi abbiamo constatato che la schizofrenia è quasi sempre accompagnata da qualche forma di autodistruttività e poiché le azioni, più che le parole, rivelano le intenzioni, anche se inconsce, delle persone, la distruttività dei pazienti non può che essere la conseguenza di un odio rimosso, che sempre incontriamo con l'avanzare dell'analisi: un odio rivolto contro sé stesso e le persone che ama e che lo spinge a distruggere il proprio mondo interno.
Se le cose stanno così, come a noi sembra di constatare, allora tutti i progressi che il paziente compie nelle attività riabilitative si dimostreranno provvisorie e precarie, se non sono accompagnati e preceduti da un'elaborazione delle cause che stanno alla base dell'odio, se il paziente non riesce ad essere riparativo, piuttosto che vendicativo e autopunitivo.
Ciò che vogliamo sostenere insomma è che la riabilitazione e la psicoterapia hanno una funzione sinergica e complementare, per la salute mentale. La sola psicoterapia, che dovrebbe lavorare sulle cause della malattia, cioè sull'odio e la negazione dei diritti, è impotente di fronte alla confusione, alla negazione, alla disperazione e ai bisogni intensi del paziente che, essendo scisso, spesso comunica solo agendo i suoi vissuti. D'altra parte, la riabilitazione senza attenzione e sensibilità ai significati degli atti e delle parole e che ignori le cause della malattia ancora attive nel paziente, rischia di provocare un' “irruzione del rimosso” o di spingere il paziente verso un adattamento passivo all'ambiente. E' opportuno dunque che tra psicoterapia e riabilitazione vi sia un rapporto dialettico di questo tipo:
* l'operatore sollecita moderatamente il paziente ad attivarsi e a rispettare i confini del setting;
* il paziente si confronta con la realtà e con il suo operatore; sperimenta difficoltà, disagio e angoscia che può manifestare in vario modo, spesso con actings distruttivi; l'operatore, se è attento ai vissuti, avverte anch'egli un disagio di controtransfert ( ostilità, vuoto, confusione, preoccupazione, angoscia, disperazione, etc. );
* l'elaborazione analitica dei vissuti sottostanti, permette in qualche misura di accettare e riappropriarsi di parti di sé scisse, rimosse e odiate;
* ciò libera nuove energie nel paziente che può così riprendere il suo percorso riabilitativo, con minori angosce di prima; ciò porterà a nuove verifiche e a sperimentare nuove difficoltà che, a loro volta, stimoleranno nuove elaborazioni e così via di seguito.
Nella Comunità Majeusis sono previste attività psicoterapiche che hanno appunto la finalità prevalente di facilitare il processo terapeutico-riabilitativo degli assistiti, attraverso la elaborazione delle difficoltà relazionali, lavorative ed espressive, da essi incontrate durante la settimana e attraverso la comprensione e restituzione dei loro agiti, che sono spesso l'unico modo di comunicare dei nostri pazienti. Questa alternanza, questo rapporto dialettico tra riabilitazione e psicoterapia, è ciò che , secondo la nostra esperienza, può determinare un processo di reintegrazione e di effettiva riabilitazione del paziente.
Da quanto detto si deduce che possono esistere diversi modelli di Comunità non terapeutiche:
* il primo, esclusivamente riabilitativo, può addestrare il paziente in attività di tipo lavorativo, ma non riuscirà ad aiutarlo a stare in pace con se stesso, a risvegliare in lui l'interesse per il mondo e la motivazione ad affrontare le difficoltà della vita;
* il secondo, esclusivamente terapeutico, dove l'aspetto riabilitativo e il confronto attivo con i propri limiti è trascurato, con il rischio di alimentare l'onnipotenza dei pazienti e la negazione della realtà;
* il terzo modello è quello in cui psicoterapia e riabilitazione sono mantenute scisse, senza alcun rapporto dinamico tra loro, spesso con analisti esterni alla Comunità, per cui il paziente può tranquillamente tenere separate queste due realtà o triangolarle.
Per concludere, vogliamo ricordare un ultimo modello di Comunità non-terapeutico: quello che, fin dall'ingresso, tacitamente non prevede la dimissione del paziente e non lavora per la conclusione di un percorso terapeutico e che per tanto non riconosce al paziente alcuna possibilità di autonomia e di reinserimento sociale, che invece è il fine ultimo del nostro lavoro.

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