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INTERVISTA A MARCELLO GALIMBERTI E DEBRA BUTTRAM

di Anna Fata

Debra Buttram ha conseguito la laurea B.Sc. Early Childhood Education con indirizzo disagio e handicap presso la Florida State University -USA e il certificato Service Dog Instructor c/o The Assistance Dog Institute - USA. È certificata Delta Society® Pet Partners® Instructor e Delta Society® Pet Partners® Team Evaluator.

Marcello Galimberti, addestratore di cani d'assistenza, ha iniziato sua esperienza presso il "Centro scuola cani guida Lions" Limbiate (MI). È certificato Delta Society® Pet Partners® Instructor e della Delta Society® Pet Partners® Team Evaluator.

La professione:

 

pet teraphy

Anna: Come si svolge uno dei vostri "interventi tipo"?

 

Debra: Normalmente cominciamo come conduttori di animali, con la preparazione dell’animale, a casa. Poi arriviamo presso l’istituto in anticipo, o, se c’è un parco, per lasciare ambientare un po’ l’animale. Poi, dipende molto da come è strutturata la seduta, nell’ambito di un programma già esistente, con colloqui precedenti, visite senza animale, ecc.

 

Marcello: Ad ogni modo, indipendentemente da come vengono strutturati, è importante fare in modo che l’attività, la terapia, o il programma educativo si adattino alle esigenze dell’animale.

L’animale verrà scelto in base alle indicazioni che accennava Debra, ma bisogna poi fare sì che non accada l’opposto, cioè che l’animale si adatti al programma, ma viceversa. Anche perché noi stiamo portando avanti una conduzione sempre molto spontanea dell’animale.

 

 

Anna: Potete raccontare uno degli interventi che ritenete maggiormente significativo che avete vissuto?

 

Marcello: Scegliere è dura.

Io ho a cuore, in modo particolare, un intervento su una ragazza autistica.

pet teraphy

Non so perché ce l’ho a cuore in modo particolare, probabilmente per una serie di fattori. Forse perché ha dato degli ottimi risultati, è stato tra i primi ottimi risultati, forse per questo si ricorda di più. Un lavoro fatto, e che stiamo continuando a fare su una ragazza autistica, che mi è piaciuto tanto, anche perché si richiedeva una partecipazione dell’animale con un elevato livello di capacità di addestramento, di per sé, dell’animale, ma è stato anche estremamente spontaneo, perché la parte relativa all’addestramento riguardava, comunque, una conduzione a una certa distanza, affinché il cane fosse sempre più interessato a interagire con la ragazza. È stato molto coinvolgente, anche perché alcune reazioni erano evidenti anche per me, che di autismo non ne capivo e non ne capisco niente e di cui l’educatrice mi parlava.

 

Debra: Anche per me è molto difficile. Penso, forse, la volta in cui mi sono trovata con una ragazza con un handicap molto grave, la sindrome di Dandy-Walk. All’inizio, non sapevamo neanche quasi quali attività proporre con i cani, perché l’educatore affermava che non era possibile coinvolgerla in alcuna attività, perché non vedeva, non sentiva, non parlava e viveva chiusa in sacchetto, perché tendeva a farsi del male, colpendosi con i pugni la testa. Abbiamo provato. Era molto coinvolgente il fatto di vedere che i suoi pugni che erano sempre chiusi e il viso teso, piena di rughe, con i cani vicino, si rilassavano. Una volta, addirittura, lei e il cane si sono addormentati, sdraiati insieme. Penso, però, che una delle situazioni più toccanti si sia verificata quando l’educatrice ha esortato al ragazza ad aprire la mano, per porvi sopra il biscotto, da porgere al cane: era la prima volta che compiva ciò, ora lo fa molto più spesso. Anche l’educatrice, allora, si mise a piangere.

 

Marcello: Anche un altro lavoro, che non abbiamo condotto noi in prima persona, ma di cui ho visto un video, presentava il caso di un ragazzo, con una serie di stereotipie, che si dondolava moltissimo, e che, alla presenza dell’animale, cessava tutta questa serie di comportamenti. Avevano compiuto anche un lavoro parallelo, sempre con lo stesso ragazzo, con delle bambole di pezza: all’inizio, anche con le bambole di pezza perdeva le stereotipe, ma, poi, nel giro di pochi mesi, le riprendeva, mentre col cane assolutamente no.

 

 

Anna: Quali sono state le motivazioni che vi hanno spinto a intraprendere tale professione?

 

pet teraphy

Marcello: Come mi vengono in mente, non in ordine. Senz’altro la testardaggine, proprio perché arrivi ad un certo punto in cui diventa una questione di principio, perché pensi che sia impossibile che non possano non funzionare queste cose in Italia, dato che all’estero ci sono già da parecchi anni. Questa è una motivazione che era presente e che persiste tutt’oggi, anche perché sono ormai dieci che se ne parla in Italia, quasi quotidianamente, e siamo ancora in mezzo ad un oceano. Inoltre, c’è il coinvolgimento quotidiano. Quando siamo partiti, nel 1990, è stata fondata l’Associazione, sull’idea di una signora francese, perché lì già esistevano, perché, altrimenti, a me non sarebbe neanche mai venuto in mente, nonostante lavorassi come addestratore di cani per non vedenti. Da lì, poi, lavorando e vedendo i risultati, pur non essendo esperti dell’handicap, ma lavorando sulla sfera emotiva, e vedendo le reazioni proprie e altrui, era più facile proseguire e a superare degli ostacoli, che sono ancora assai numerosi. In passato, addirittura, poteva accadere, quando andavi a proporre queste attività e terapie, di ottenere un rifiuto netto, perché si riteneva che si trattasse solo di un nuovo problema, il rapporto uomo-animale, per persone hanno già una serie di problemi. Altra grande spinta si ha quando le persone che collaborano con te, non come conduttori, ma come ‘esperti’, riconoscono i benefici di tali interventi. Tali riconoscimenti giungevano soprattutto da persone che, in qualche modo, erano già ben disposti al contatto con l’animale, magari perché ne possedevano già uno, o perché, fin dall’infanzia, vi erano stati a contatto. È importante, però, fare anche capire che dietro vi è tutta una preparazione, che noi abbiamo svolto anche negli Stati Uniti e in altri Centri europei, al fine di offrire delle garanzie di serietà.

Debra: Per me, all’inizio, si trattava prevalentemente di addestrare i cani destinati ai portatori di handicap fisico. Io ero abituata in altri Paesi, soprattutto negli Stati Uniti, a considerare la persona con un handicap, come una persona con un disabilità, che lavorava, frequentava l’università, si sposava, guidava l’auto, che aveva una vita, sempre con certe problematiche, ma, per altri aspetti "normale". In Italia, invece, le persone venivano e vengono considerate disabili, non con una disabilità, mi ha fatto capire che si trattava di una negazione della persona. Mi sembra un’ingiustizia il non concedere delle possibilità a queste persone. Ho avuto modo di constatare la maggiore autonomia delle persone con i cani d’assistenza, oltre che la maggiore apertura mentale, la voglia di fare, di andare in giro, di conoscere altre persone: tutto è facilitato con l’animale. Questo, in primo luogo, mi ha spinto. In seguito, viste le difficoltà, abbiamo cominciato a lavorare maggiormente sul versante della terapia, nella convinzione che possa funzionare nella misura in cui la persona visitata mostra interesse, buona volontà e conosce le potenzialità dell’animale.

 

 

Anna: Quali sono gli aspetti della vostra professione che vi soddisfano maggiormente e quali quelli che vi creano più consistenti difficoltà?

 

Marcello: Maggiori difficoltà, la mentalità, per quanto riguarda l’handicap. Un po’ anche la mentalità classica dell’italiano, in base alla quale si crede di essere tutti capaci di compiere determinate cose, senza un’adeguata preparazione. Questo crea alcune difficoltà, soprattutto per chi la sceglie come professione, per cui, quando si va a trattare il discorso economico, a volte, addirittura, c’è chi si stupisce di dover elargire un compenso. Spesso, in alcune zone, si tendono a concepire solo i lavori ‘tradizionali’ e questo crea notevoli difficoltà. È anche vero, però, che in alcune strutture, in cui c’è un impegno concreto nei confronti degli utenti, vigono maggiore apertura, comprensione e accettazione nei confronti del lavoro con gli animali ed è possibile instaurare una maggiore sintonia.

 

 

La percezione della professione

 

Anna: Come vengono percepite le AAA e le TAA da parte del personale sociosanitario, delle istituzioni e degli utenti in Italia?

 

Marcello: Da parte del personale sociosanitario è visto solo come un dominio assoluto dei veterinari. Il veterinario deve redigere il programma, approvare lo stesso, tutto deve passare attraverso lui. È un’assurdità. Qui si parla, prima di tutto, di benessere delle persone. Certo, anche del benessere dell’animale, ma non solo. Il veterinario conta, ma non è l’unica figura e tantomeno quella indispensabile. Quello che mi spaventa maggiormente è che si sta pensando che la figura del veterinario, secondo alcuni, sia determinante, ma non tanto come specialista del benessere, ma soprattutto delle cure, perché il veterinario interviene per la cura dell’animale. La formazione del veterinario non porta a capire il comportamento dell’animale: qualsiasi veterinario lo può confermare, anche perché, nel loro stesso percorso di studi vi è un solo esame di etologia, forse, neanche obbligatorio. Questo, secondo me, è terrificante, perché fa capire che dietro c’è l’intenzione precisa di gestire una fetta di mercato, a livello di iscritti a veterinaria. Purtroppo, il brutto, anche in questo settore, è che la finalità non è più il compiere un buon lavoro con l’animale, rivolto all’utente, ma solo soddisfare alcuni interessi economici. Gli utenti, invece, sono quelli che ci danno le soddisfazioni maggiori, anche quando vedi che le cose non funzionano, perché ci fanno capire che l’attività con l’animale ha i suoi limiti.

In questo periodo, poi, soprattutto, perché per pet therapy si intende tutto: è sufficiente guardare un animale, anche in fotografia, per fare pet therapy. Di fatto, poi, quelli che sono interessati alla relazione con l’animale sono la maggioranza; si possono contare quelli a cui non interessa per niente. Magari, all’inizio possono non essere interessati, ma, poi, col tempo, cambiano, forse, perché hanno bisogno di sicurezza e riescono ad interagire. Ma noi lasciamo sempre che siano gli esperti a parlare del valore dell’osservazione che hanno fatto durante l’interazione, perché noi non abbiamo le competenze.

 

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Debra: Mi è anche venuto il mente il fatto che una delle cose che maggiormente mi blocca è relativo al decreto Sirchia e all’accordo stato-regioni, in base al quale solo il Ministero della Salute può erogare formazione per preparare i cani per i portatori di handicap e per la pet therapy e non capisco come le due cose possano conciliarsi. Relativamente all’utente, quando noi ci rendiamo conto che una persona che ha un problema e che desidera raggiungere un obiettivo, l’animale può essere aggiunto a tale programma. Non è una terapia, un metodo, una ricetta, una panacea, ma è un modo di giungere ad un obiettivo, magari più velocemente.

 

Marcello: Però questo comporta impegno da parte di tutti, che invece, effettivamente non sempre è presente. Quello che mi spaventa maggiormente è quando si sentono persone che si sono create il loro ‘spazio’, che si sono auto-elette (utilizzo queste espressioni, perché oggi non c’è nulla di ufficiale) guru delle attività e delle terapie e iniziano ad affermare che per la tal patologia è necessario il tal animale, o la tal specie, o, addirittura, la tal razza, nel caso di cani. Questo vuol dire, secondo me, non avere capito proprio nulla: è una questione di rapporto con l’animale. E, per di più, coloro che propongono queste cose sono proprio coloro che dovrebbero avere una concezione dell’uomo, perché parlano anche di questo nei loro convegni, che, effettivamente, deve essere un essere che partecipa all’interno di un universo. Però, poi, si capisce che quando loro forniscono questi riferimenti precisi, hanno ancora la classica convinzione che è l’uomo al centro di tutto, è lui che decide, che fa e che deve crearsi tali formule.

 

Debra: In alcuni casi, forse, più che una mancanza di volontà da parte di alcune persone, si tratta di una carenza di esperienza

 

Marcello: Sì, che, però, non sembrano volere avere. Prima credo che sia necessario svolgere delle attività con un animale, poi discutere di mille altre cose, al di là della sua razza, nel caso del cane. Ci sono molte altre persone che lavorano molto bene, ma, purtroppo, sono dei perfetti ‘sconosciuti’, a cui, raramente viene dato spazio per presentare le proprie opinioni, i propri lavori.

 

 

Anna: Esistono delle differenze rispetto al panorama internazionale, ed, eventualmente, quali sono?

 

Debra: Penso che in tanti atri Paesi ci siano numerosi programmi.

Probabilmente, negli Stati uniti, la maggior parte dei programmi sono visite socializzazione, in ospedali di lungodegenza, oppure in case di riposo, ecc., in cui una persona singola, oppure un gruppo di persone, che fanno parte di una associazione, si recano con il proprio animale. Si tratta di programmi che proseguono per anni. In Italia, invece, la maggior parte dei programmi, forse, perché a scopo di ricerca, sono di 2-3-4 mesi, poi vengono interrotti. In Italia, in ogni caso, non è stata fatta molta ricerca, ma neanche tantissima negli altri Paesi, forse, perché, più che una terapia di per se stessa, viene concepita come un’aggiunta ad altre preesistenti.

 

 

Anna: Come ritenete che sia possibile suscitare una maggiore sensibilizzazione da parte degli utenti potenziali e delle strutture che li ospitano?

 

Marcello: Nei confronti degli utenti, nel caso dell’handicap, molto spesso non sanno di cosa si tratti, per questo è sufficiente proporre loro l’attività e vedere come si comportano e se sono interessati o meno. Per quanto riguarda le strutture, secondo me, come oggi sta accadendo, finché sarà il veterinario a proporre questi programmi, per il miglioramento delle condizioni della persona, è chiaro che il medico e tutti coloro che lavorano intorno al benessere della persona deleghino a lui l’intervento. È come se un medico dovesse proporre una terapia alternativa per un animale … C’è molta gente che è convinta che per un’attività di terapia con l’animale sia necessaria una èquipe di grandi specialisti.

Ma nelle strutture ampie vi è già una èquipe. La figura nuova, in realtà, è quella del conduttore. Egli potrà, poi, lavorare, ad esempio, con uno psicologo che, sarebbe bene che avesse un’informazione di base, per capire, da un punto di vista strettamente psicologico, cosa significhi lavorare con un animale. Poi, lo psicologo potrà anche decidere se vorrà lavorare lui stesso con l’animale, però non è necessario uno staff così numeroso, come molti sostengono, con la presenza, ad esempio, di un biologo, un etologo, uno psicologo, magari per un intervento di fisioterapia… Inoltre, essendo implicati gli animali, si sentono direttamente coinvolte anche le associazioni animaliste. Tra le maggiori, l’Ufficio dei Diritti degli Animali si è ufficialmente dichiarata contraria a questi interventi, adducendo come spiegazione il fatto che noi utilizziamo i cani di razza. Peccato che il cane di razza è, comunque, un animale. In questo senso, creano una serie di barriere, di ostacoli su tali possibilità di intervento. Purtroppo, sono cose di cui, ormai, parlano tutti, c’è troppa confusione e questo va a scapito di una corretta informazione e genera un clima di sfiducia intorno a tali attività.

 

Debra: Inoltre, c’è ancora molto l’idea che l’animale porta le malattie. Ovviamente, se prendiamo qualsiasi randagio della strada, è possibile che lui abbia qualche malattia. Ma gli stessi veterinari da cui portiamo i nostri animali ci dicono che è più facile che noi trasmettiamo qualcosa all’animale. Credo che la disinformazione a questo livello sia molto forte. Ad esempio, una delle prime sere, ho chiesto ai partecipanti al corso FSE, che abbiamo organizzato, che cosa fosse la pet therapy. Una sola persona ha affermato che è la terapia sull’animale di compagnia che ha problemi di comportamento, ma tutti gli altri hanno risposto che si tratta del rapporto uomo-animale, oppure dell’animale che aiuta le persone con delle disabilità, oppure del semplice accarezzare un animale, senza nulla togliere al rapporto uomo-animale, perché senza di esso, non ci possono essere benefici.

 

 

La formazione

 

Anna: In Italia, quale è il percorso attuale per diventare un operatore di AAA/TAA?

 

Marcello: Ufficialmente nessuno. Questo già di per sé è negativo, perché induce alcuni ad improvvisarsi. Per quanto ci riguarda, la via migliore è tramite noi, per conto della Delta Society (http://www.deltasociety.org), e diventare quantomeno Pet Partners.

Si tratta di un corso introduttivo, di tre giorni, che, se non altro, pur essendo breve, contribuisce a chiarire determinate cose. Andrebbe, poi, ampliato per quanto riguarda la gestione dell’animale.

 

Debra: In Italia, il Governo ha il dito su tutto, infatti, io sono consigliera di un gruppo che si chiama Assistance Dogs Europe, con il quale stiamo cercando di porre le linee guida per i cani d’assistenza, che vengono affidati ai portatori di handicap, ma anche per i cani sociali che lavorano nelle attività di terapia. Non vogliamo imporre degli standard, rispetto ai quali siamo tutti un po’ contrari, ma desideriamo ottenere il libero accesso non solo per i cani guida, ma anche per i cani d’assistenza, per i cani di servizio, per gli hearing dogs.

Una delle prime cose da dimostrare è che sono cani preparati in un certo modo, per un certo periodo di tempo, per compiere certe cose, per aiutare certe persone ad essere più autonome. E la stessa cosa nelle attività di terapia, perché se vogliamo che gli animale e i conduttori possano entrare, dobbiamo fornire alcuni tipi di garanzie e, facendo ricerca, non ho trovato alcun Paese nel mondo che abbia delle leggi o delle informazioni specifiche per le attività e terapie assistite dall’animale. Quello, forse, più utilizzato nel mondo è quello della Delta Society, perché loro operano nel mondo, negli Stati Uniti, nel Canada, in Asia, in Giappone, Taiwan; noi stiamo facendo corsi in tutta Italia, ma loro organizzano anche corsi in Austria, in Olanda. Con questo nuovo decreto vedremo se ci sarà un altro tipo di formazione.

 

 

Il presente e il futuro

 

Anna: Cosa ne pensate del recente decreto, del 6 febbraio scorso, relativo alle Terapie Assistite dall’Animale?

 

Marcello: Il decreto tocca talmente tanti argomenti che non ne approfondisce alcuno.

Si vede che è come un ‘minestrone’, cucinato malissimo, perché si parla di pet therapy, intesa come animali negli ospedali e negli istituti geriatrici, trascurando l’handicap psichico che, solitamente, non è né in ospedale, né in istituto geriatrico. Poi, parla di cimiteri per gli animali, di cani affidati ai portatori di handicap, di spiagge e alberghi accessibili agli animali da compagnia. La cosa peggiore, secondo me, però, è che non c’è la volontà, da parte del Ministero, di capire alcune cose. Il decreto, infatti, afferma che la preparazione, la gestione, l’affidamento devono essere fatte da persone che abbiano dimostrato di avere le competenze. Noi siamo conosciuti dal Ministero, abbiamo anche ricevuto dei riconoscimenti all’estero, tramite la dimostrazione dei lavori compiuti. Questo anche per ricollegarsi ad una delle forze che ci fa andare avanti: nessuno ci ha detto che siamo i migliori, ma ci è stato fatto capire che eravamo sulla buona strada, fin dall’inizio.

Mi piacerebbe che i responsabili del Ministero si mettessero in contatto con gli stranieri per rendersi conto della loro grande disponibilità: sono disponibili a qualunque tipo di spiegazione e lo fanno con grande piacere. D’altra parte, questo tipo di lavoro, in primo luogo, va sentito: se si è dei calcolatori, non ce la sia fa.

 

Debra: Uno tra i tanti aspetti positivi di questo lavoro è proprio la possibilità di cogliere ciò che emerge. Alcune cose sono strutturate, come, ad esempio, pulire le zampe dell’animale, come prima cosa da fare, poi si prende l’acqua, e via dicendo, ma, può accadere che, mentre si stanno eseguendo queste cose, si possa verificare qualcosa di diverso ed è possibile dirigersi in un’altra direzione. Ad esempio, un particolare commento da parte di un utente. Mi viene in mente la visita ad una persona in una casa di riposo, che era stata trasferita là, dopo la chiusura di un ex-manicomio. Era molto chiusa, non parlava. Mi era stato riferito che era in grado di pronunciare poche parole, ma che, in generale, non parlava. Mi recavo circa una volta alla settimana a trovarla. Le piaceva così tanto che il cane appoggiasse la testa sul suo grembo che iniziò ad accettare di recarsi di sotto, al bar, per bere un caffè. Non parlava con la gente, ma si fermava e lasciava che le altre persone accarezzassero il cane. Un giorno, dopo avere lasciato il reparto, ci trovavamo in ascensore e lei stava guardando una locandina e iniziò a pronunciare delle parole. Io, fino a quel momento, l’avevo udita pronunciare solo poche parole, ad esempio per chiamare il cane, o impartirgli qualche comando. A quel punto, mi resi conto che stava leggendo il contenuto della locandina. Quindi, lei conosceva quelle parole e sapeva anche fare molte altre cose, come, ad esempio, la maglia. Quando riferii al medico l’accaduto, egli si mostrò molto stupito, perché riteneva che quella persona non fosse neppure in grado di leggere.

 

Marcello: L’importanza, a mio avviso, della presenza non solo dell’operatore, ma anche del professionista è motivata da situazioni come questa, in quanto solo lui è in grado di cogliere il senso di quanto sta accadendo.

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