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Insegnanti al timone?

Fatti e parole dell'autonomia scolastica

Norberto Bottani, Il Mulino, 2002, pp. 249, Euro 12,50
recensione di Vannina Fonte-Basso

L'autore del testo che presentiamo è lo svizzero Norberto Bottani, conoscitore delle realtà scolastiche internazionali, osservatore critico, caustico talvolta, del mondo scolastico italiano, visto nel suo complesso, velato, come lui stesso dice, da "arcani" quasi insondabili, ma guardato anche da vicino, con scrupolosa attenzione. Norberto Bottani conosce bene la situazione italiana sia perchè si avvale di contatti con interlocutori informati e con intelligenti interlocutrici, sia perché viene spesso invitato a convegni e ad altre iniziative che lo mettono in diretto contatto con il mondo della scuola. E' un relatore molto amato nonostante il suo modo di porsi non ortodosso, o forse proprio per questo; unisce al rigore delle osservazioni, che si preoccupa sempre di sostenere con dati ben scelti, un suo modo particolare di trattare i problemi, che alleggerisce la pesantezza che talvolta si accompagna alle questioni scolastiche.

Egli ha lavorato per anni nel settore istruzione dell'OCSE a Parigi e dal 1997 è Direttore dello SRED del Cantone di Ginevra [ http://agora.unige.ch/sred ]. E' una voce importante, quindi; il "luogo" da cui parla gli conferisce autorevolezza e prestigio, ma egli non ne approfitta; sostiene con impegno e passione il suo discorso, le sue osservazioni, le sue critiche e dà parola a cose che spesso chi vive nel mondo della scuola pensa, ma non esprime per motivi diversi, che vanno dal senso di opportunità allo scoraggiamento e alla paura di essere attaccati come una scomoda minoranza.

Lo scenario di fondo che ci riguarda è la riforma imperniata sull'Autonomia delle Istituzioni scolastiche e sull'autonomia, in quanto politica scolastica, leggendo questo testo possiamo saperne, ma soprattutto capirne, di più. C'è da premettere subito che questo libro non si occupa specificamente ed esclusivamente della situazione italiana. All'Italia, su 250 pagine, ne sono dedicate meno di una cinquantina; certo, sono pagine dai toni decisi che comprensibilmente suscitano reazioni, ma l'Italia viene collocata in un ampio contesto internazionale e confrontata con altre situazioni. Si parla di quanto avviene nei sistemi scolastici di numerosi paesi, tra cui l'Inghilterra, la Nuova Zelanda, gli Stati Uniti e poi anche il Belgio, l'Olanda, la Spagna, la Svezia, e, naturalmente, la Svizzera; paesi, comunque, a proposito dei quali si possono riportare dati sull'Autonomia desunti da specifiche ricerche: quelle ricerche che mancano invece (e questo l'autore ce lo rimprovera) per l'Italia.

La questione dell'Autonomia trascende, come dice Bottani, la situazione italiana e trascende anche l'istituzione scolastica in quanto tale, poiché quello che è in gioco è "un nuovo progetto di società, realizzato con nuove tecniche di governo" (p.26). All'interno della ricchezza e della complessità di dati e di elementi di riflessione che il testo offre, questo assunto, più volte esplicitato e ribadito, rimane, a nostro avviso, la chiave di lettura da privilegiare.

1. La situazione italiana.

Se ne occupa all'inizio del testo e poi verso la fine.

Cosa dice?

Innanzitutto questo: tutti sono d'accordo che l'Autonomia sia, per l'Italia, una buona cosa, ma "la mia è una voce di dissenso: vorrei almeno delle prove"(p.214). Le prove, nel nostro caso, non possono che essere i risultati di indagini e ricerche rigorose realizzate nell'ambito delle ricerca educativa ed egli fa notare che le sperimentazioni condotte precedentemente in Italia non sono mai state oggetto di serie indagini scientifiche e che mancano ricerche sull'autonomia italiana condotte "secondo i criteri di qualità riconosciuti nella ricerca internazionale".

Afferma inoltre che non sono stati individuati obiettivi precisi (tipico della riforme " alla cieca"!) e fa un elenco di quello che si potrebbe voler ottenere, in una lunga lista che mette insieme cose disparate: migliorare le competenze in lettura, scrittura, matematica e conoscenze scientifiche; migliorare la voglia dei ragazzi di andare a scuola; ripartire diversamente gli oneri dell'istruzione; avviare un sistema di controllo degli apprendimenti, eccetera. In sostanza, sono tutte questioni che si collocano su un piano operativo che richiede strategie e tattiche coerenti: impegni che spettano al sistema politico e non alle singole scuole; non si può, nei confronti dell'Autonomia, restare su un piano di adesione "di principio", anche se data in buona fede e con argomentata convinzione [si veda l'intervento di Giorgio Porrotto, svolto per l' Osservatorio sull'Autonomia delle istituzioni scolastiche (LUISS, Roma, settembre 2002)].

Bottani allude addirittura (un cenno a p.213) alla possibilità di sospendere l'Autonomia, che comporta energie e spese, visto che a livello internazionale ha dimostrato, in tutti i sistemi scolastici dove è stata realizzata, di aggravare alcuni problemi e di non risolverne altri: è in ballo, e disatteso, in sostanza, il principio di "equità".

Sull'Italia dice anche dell'altro; che era (è?), tra quelli occidentali, uno dei sistemi scolastici più farraginosi e burocratici e che anche il nostro sistema centralistico (qui siamo in buona compagnia) non ha funzionato come previsto e non ha dato buone scuole a tutti, garantendo l'eguaglianza attraverso l'istruzione (p.207).

La scuola italiana ha problemi e limiti che spingono al cambiamento (p.214), ma proprio in Italia sono presenti quei fattori che possono ostacolare le riforme (p.215), ben individuati nella ricerca di C.E. Finn. Tra questi, alcuni fattori sono generali: si osserva, ad esempio, che il sistema di governo della scuola rimane di "natura burocratico-amministrativa", in mano ad una casta di addetti ai lavori, quasi "impermeabile alla direzione politica". Altri fattori sono più specifici, interni al sistema: troviamo così l'annotazione critica sulla cultura dei docenti, che tende a perdere il "rigore intellettuale, la disciplina della mente, l'amore per il sapere e la conoscenza scientifica". A suo avviso questo avviene perché prevale nell'insegnamento l'interesse per gli aspetti psicologici delle dinamiche relazionali: cosa che porta a favorire curricoli "integrati", ma meno validi scientificamente.

Questo punto è interessante e controverso: molti docenti non si riconosceranno, per l'uno o per l'altro verso. Commentatori che con costanza seguono la scuola e che accusano gli insegnanti esattamente dell'opposto — troppa concentrazione sui contenuti, carenza di conoscenze e di competenze sul piano relazionale, che qualifica e forgia la figura del "magister" (pensiamo ai frequenti interventi del filosofo Umberto Galimberti su questi temi) — troveranno singolare questa affermazione, che può essere capita, mi pare, se si tiene presente lo sfondo culturale nel quale Bottani vede inserita la scuola moderna e postmoderna.

Tra gli elementi positivi della modernità pedagogica, in contrasto con un quella che, per bocca di altro autore, egli chiama "modello di scuola tolemaica", Norberto Bottani colloca "la rivoluzione di Piaget". Il costruttivismo piagetiano, egli dice, ha prodotto la grande rivoluzione pedagogica del XX secolo e questa, a sua volta, si colloca all'interno del grande sviluppo culturale che, a partire dal secondo Ottocento, ha percorso tutto il Novecento. Tutta la produzione scientifica dell'ultimo secolo ha prodotto la pressione epistemica che ha reso obsoleto il paradigma precedente: si tratta di nuovi saperi, che inducono trasformazioni anche sugli impianti scolastici, che pure sono soggetti anche ad altre, ben meno positive, pressioni. E' a questo solido tessuto culturale, indagato nei suoi legami con il sociale da uno storico come Peter Burke, che lo studioso ginevrino fa riferimento. E' questo il terreno culturale valido per i docenti che credono in una scuola capace di rinnovarsi.

Per quel che ci riguarda, c'è anche (p.26) un riconoscimento, da parte di Bottani, relativo alla positività del fatto che i politici italiani abbiano fatto adottare, con tempestività, il decreto sull'Autonomia (Decreto n.275), seguendo il trend che contraddistingue i sistemi scolastici nel mondo (precisa sempre che fa riferimento a quelli occidentali); dice espressamente che "con questa decisione la scuola italiana esce dal guado e passa decisamente alla postmodernità" , ma aggiunge subito dopo che i problemi "restano sul tappeto anche perché la modernità della scuola italiana era sui generis" Gli esiti della riforma non sono scontati, e quindi nota con deciso sospetto il fatto che l'Autonomia Scolastica appaia, in Italia, gradita a tutti.

2. Ma cos'è l'autonomia scolastica?

E' linea di tendenza che si impone. Segna la fine di un'epoca, ma questo nuovo assetto, di cui si vedono "prove e indizi", si forma sotto pressioni che risalgono a metà Ottocento; sono i saperi sul funzionamento della mente e del pensiero ed i nuovi specialismi dell''800 (psicologia, scienze sociali, eccetera) che premono per una catastrofe del precedente sistema. Si modificano, trainate dallo sviluppo scientifico — afferma l'autore con un certo ottimismo — le condizioni dell'apprendimento e l'organizzazione dell'insegnamento. Si modificano anche, nel corso del tempo, gli scopi della scuola pubblica, e quindi la sua particolare funzione di dispositivo di controllo del sociale. Il riferimento a Michel Foucault, qui, è esplicito. Ma è attraverso le indagini specifiche dei ricercatori americani J. Meyer e B. Rowan che viene descritto, nei tratti essenziali, il dispositivo scuola. Orari, scansioni del tempo, imposizione di doveri, regole, eccetera, sono riti di una liturgia che coinvolge masse di persone; la loro funzione di disciplinamento affianca la dichiarata, ben più nobile, funzione della scuola pubblica: l'istruzione. Il servizio scolastico viene definito, dai due autori citati, "servizio educativo della società per la società": un servizio che ha bisogno di quegli apparati burocratici che caratterizzano, con differenze che non ne inficiano la sostanziale omogeneità, la scuola pubblica delle moderne democrazie. Ora è proprio quella sottesa funzione di controllo che sta venendo meno; viene citato il discusso libro di Peter Sloterdijk, che delinea un tipo di società dove vigono forme di "telecomunicazione politico-culturali" che rendono obsoleti, inadatti alle nuove regole del patto sociale di coesistenza, tali dispositivi. Non è più possibile, si dice, "organizzare strutture di massa sia politiche che economiche sul modello amichevole di una società letteraria"(p.23).

Autonomia Scolastica è quindi un nuovo modo di funzionare della scuola all'interno del sociale: la scuola perde le prerogative che l'avevano precedentemente caratterizzata; si predispone ad una nuova sintonia con una società che sta profondamente cambiando.

Si tratta ora di definire cos'è l'autonomia scolastica nel concreto: cioè, cosa fanno, cosa possono fare, le singole scuole. Si diceva, a suo tempo — il riferimento è sempre il Decreto n.275, il Regolamento applicativo dell'autonomia scolastica — che gli istituti scolastici possono fare "tutto ciò che non è vietato" . Gli ambiti sono vari; l'autonomia si applica infatti nella didattica, nell'organizzazione e nella gestione degli istituti; ma per capirne il funzionamento bisogna andare un po' più a fondo, spaziando in altre situazioni.

Questo viene fatto nel 1° capitolo, dove l'autore utilizza importanti dati di due ricerche OCSE per confrontare le competenze decisionali degli istituti scolastici nei vari paesi: autonomia significa infatti anche "forma procedurale", "disposizione amministrativa più che pratica pedagogica" .

Viene individuato quindi una specie di "cuore" dell'autonomia: l'ambito decisionale.

Le indagini OCSE che l'autore utilizza sono indagini internazionali: il "top" della ricerca educativa. Permettono di approfondire la conoscenza del mondo scolastico su precisi contenuti e di conoscere le metodologie di indagine messe a punto e utilizzate per il mondo dell'istruzione.

Gli ambiti decisionali analizzati sono quattro: Organizzazione pedagogica, Programmazione e strutture, Gestione del personale, Risorse finanziarie; raggruppano 35 "decisioni tipo" e si ritrovano nelle tabelle di ambedue le indagini, che si differenziano però in modo consistente.

Proprio leggendo questo capitolo si capisce come questi dati possono essere maneggiati, per proporre conclusioni credibili, solo da specialisti del settore.

Molte le avvertenze del nostro autore: innanzitutto premette che queste indagini, pur poggiando sullo stesso impianto teorico, non presentano dati comparabili poiché le tipologie delle decisioni inventariate sono diverse (p.38, p.49); sono formali, fissate dagli ordinamenti, nella prima indagine; reali, applicate e non solo formali, nella seconda indagine (p.55).

Ricostruendo l'iter di questi specifici contributi, fa presenti le difficoltà metodologiche nelle quali si imbatte la ricerca educativa — in particolare il lungo lavoro che porta alla costruzione degli "indicatori" (p.38, p.54, p.55) — e fa emergere, in ogni caso, l'importanza cruciale del momento interpretativo.

Dopo aver analizzato queste due indagini internazionali che coprono un arco temporale di quasi dieci anni, dal 1990 al 1998 — l'arco di tempo che vede il passaggio, in molti paesi, dal modello scolastico centralistico all'autonomia — analizza altre ricerche OCSE . Sono ricerche sulle decisioni relative ai curricoli (chi decide cosa insegnare?) e sulle decisioni relative alla gestione del personale (chi sceglie i docenti e come? chi li paga? chi stabilisce l'orario e gli altri obblighi?).

Solo dopo tutto questo propone alcune conclusioni: non c'è, in nessuna situazione, un'autonomia assoluta. Essa è ovunque "limitata e condizionata e mai integrale"; ci sono differenze sostanziali nelle "miscele" messe a punto nei diversi paesi; rispetto a certi ambiti, ad esempio la gestione del personale, l'autonomia delle scuole è fortemente sotto controllo dovunque e infine — riflessione essenziale — non è scontato il rapporto tra autonomia e migliore rendimento scolastico degli studenti. Quali siano gli effetti dell'autonomia sull'insegnamento e sull'apprendimento è, per ora, "difficile dirlo"( p.54); ma anche se così non fosse, aggiunge altrove, non è comunque questo il solo criterio con il quale si può definire la bontà di una riforma (p.90).

 

 

 

3. Autonomia ed equità

Appare più importante valutare gli effetti dell'autonomia sull'equità scolastica, verificando, anche misurando (viene riportata l'opinione di Denis Meuret), eventuali nuove forme di disuguaglianza e di ingiustizia scolastiche.

Non si tratta quindi (questo vale per noi !), di dire si o no all'autonomia scolastica, ma di capire a quali processi trasformativi essa appartenga. In queste trasformazioni vi sono aspetti di cui l'autore vede la positività; egli non mette mai in discussione, ad esempio, i "saperi" attinenti alla scuola; manifesta una fiducia un po' ambigua nei confronti degli insegnanti, mentre non lesina critiche all'apparato amministrativo e ai burocrati della scuola (e qui non allude solo agli italiani!).

Quello che non si deve pensare è che trasformazione voglia dire soluzione, quasi automatica, dei problemi presenti nelle precedenti organizzazioni dei sistemi scolastici: alcuni di questi problemi restano aperti e si possono ritrovare in paesi diversi, dove le "miscele"messe in atto si differenziano in modo consistente.

Bisogna invece, soprattutto, chiedersi: può l'istruzione pubblica rinunciare a principi quali l'equità? Proprio questo, infatti, sembra comportare il "quasi mercato" scolastico e la competizione tra scuole implicita nella scelta delle politiche scolastiche imperniate sull'autonomia degli istituti.

Questo è il punto critico, qualificante, per far oscillare a favore o contro l'autonomia il suo giudizio e quello dei suoi lettori. La sua posizione è chiara: le "sfide" del servizio scolastico statale — giustizia, efficacia, equità — possono trovare, nel "quasi mercato" implicito nella realtà dell'autonomia, elementi di ostacolo più che fattori propulsivi. Le apparenze ingannano: i risultati di numerose ricerche dimostrano che i regimi di autonomia aggravano i problemi di segregazione, e questo a partire da un punto importante e ambiguo, esaminato in più parti del suo excursus: la possibilità di scegliere la scuola per i figli da parte dei genitori [possibilità che, fa notare, è concessa appieno a noi Italiani(p.196)]; questa può apparire una scelta di libertà, di rispetto e di attenzione per l'utenza. Ma, per l'appunto, é solo apparenza.

4. L'Autonomia applicata: prove d'autonomia

Questa "apparenza" di libertà viene confermata anche da indagini più dettagliate; Bottani si sofferma su due situazioni diverse, ma ambedue esemplificative: la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti d'America.

La Nuova Zelanda ha varato nel 1989 una riforma scolastica imperniata sull'autonomia. E' quindi da osservare perché il tempo trascorso, circa 10 anni, è significativo e perché il sistema scolastico precedente permette raffronti con le situazioni europee. Il sistema centralistico e burocratico neo-zelandese è stato smantellato e sono state attuate quelle innovazioni che caratterizzano i modelli imperniati sull'autonomia. C'è l'indipendenza finanziaria degli istituti; c'è un forte potere dei Consigli di amministrazione delle scuole, eletti dalla comunità, che possono assumere e licenziare presidi e docenti; c'è un grande coinvolgimento della comunità. I cittadini che sono componenti del Consiglio di amministrazione lavorano gratuitamente; si assumono questo oneroso impegno spinti soprattutto dal loro senso civico. Inoltre, ecco un punto critico, sono stati eliminati, nel 1991, i bacini d'utenza; si permette cioè ai genitori di scegliere la scuola alla quale iscrivere i propri figli. E' una cosa importante. Sembra un passo avanti nei confronti della libertà di scelta e nei confronti di un rapporto nuovo tra domanda e offerta educativa, a vantaggio, apparentemente, di chi ne fruisce: ma i fatti non mantengono le promesse. Proprio questa situazione, presentata come positiva — qui pare si ritrovi quel "capitale sociale" teorizzato da James Coleman su cui si può investire un residuo di speranza per il futuro della scuola — non sfugge alle contraddizioni che una logica di mercato applicata alla scuola porta con sé. Anche le scuole, infatti, possono scegliere i propri allievi. Scelta di allievi da parte delle scuole e scelta della scuola da parte delle famiglie sono punti critici in tutte le situazioni. Cosa avviene in realtà? Avviene che scuole che non funzionano, e che in teoria andrebbero chiuse, non possono esserlo per svariati motivi: perché non è facile sistemare gli insegnanti, perchè nella zona c'è solo quell'istituto scolastico, eccetera. Queste scuole rimangono quindi aperte, ma sono in realtà già tagliate fuori, schiacciate dalla concorrenza; sono scuole dove gli iscritti sono soggetti poveri e minoranze etniche. Si ripropongo così pesanti realtà di discriminazione e di segregazione: ma, appunto, "il mercato educativo è impietoso e non si cura dei perdenti". E' chiaro, anche in questa situazione, il risvolto classista e di privilegio, relativamente all'istruzione, interno al regime dell'autonomia.

 

Bottani presenta poi il recente esperimento statunitense delle charter schools . Le charter schools sono finanziate dallo stato: scuole pubbliche, quindi, ma non statali; sono gestite da gruppi di persone che stipulano un contratto con lo Stato e che devono in sostanza garantire risultati da un lato, libera scelta degli utenti dall'altro. Non tutti gli stati americani hanno le charter schools e la percentuale di studenti che le frequenta è ancora piuttosto bassa, ma dal 1991, cioè da quando il Minnesota ha dato il via a questa nuova realtà, le scuole di questo tipo sono sorte, numerose, in molti stati americani. Il meccanismo che permette la loro esistenza non è semplice: deve esserci, nello stato, una normativa che le prevede, che diviene poi il riferimento per la stipula dei contratti. Ma queste scuole, volute sia da repubblicani che da democratici, sono gratuite, aperte a tutti, caratterizzate da organizzazione e programmi che permettono all'utente un'ampia scelta. Il nostro autore ne analizza, con precisione, i costi. Gli aspetti economici delle charter schools sono interessanti. Possono essere un business: cosa da considerare con attenzione, per capire. Non sono mancati casi di gestione disonesta.

Il giudizio di Bottani su queste scuole non è univoco: negativo, per alcuni aspetti, più possibilista per altri. L'autore sostiene che portano avanti prospettive nuove che non si possono liquidare — il vecchio sistema ha infatti dimostrato di non funzionare — e che si propongono obiettivi giusti. Si propongono di alleggerire il peso della burocrazia scolastica, di migliorare gli apprendimenti, di diversificare l'offerta formativa. Sul miglioramento degli apprendimenti degli studenti, punto importante, i dati non dimostrano però nulla di preciso. Secondo l'autore sono dati contraddittori. Più interessanti e significativi sono invece i dati che riguardano gli effetti sulla segregazione. In America misurare la segregazione è importante e non semplice: i dati vanno disaggregati; vanno considerate le "unità di riferimento", altrimenti non si capisce davvero quello che avviene. Ad esempio, se una scuola è collocata in una zona abitata da gente di colore, o da altre comunità, fatalmente attirerà quel tipo di utenza. La segregazione viene prima, è nel tessuto spaziale. Risulta chiara, comunque, la tendenza di queste scuole a diventare scuole-ghetto: a favorire, cioè, la separazione dei gruppi etnici (pp.159-160). Ma la gente, emarginati o nuovi ricchi, le vuole ugualmente: si dimostrano scettici solo i newyorkesi.

Sono richieste che rispecchiano un corpo sociale frantumato, postmoderno. Sono spia della messa in discussione di un certo modello di società.

Ma è da attaccare, comunque, come " presunta", la libertà di scelta della scuola che l'autonomia pare garantire: un inganno, una trappola in cui è facile cadere.

Innanzitutto, citando ancora una volta Denis Meuret, Bottani dice che la scelta deve essere comunque regolata, così come lo è anche il mercato, e che questo comporta spese.

Procede poi, poggiandosi, per sostenere la sua tesi, sui dati desunti da ricerche effettuate in vari paesi: oltre ai paesi già citati, fa riferimento a indagini svolte in Inghilterra e in Francia.

La questione é più complicata di quello che appare. Per dare un giudizio su questa " libertà" bisogna infatti considerare:

1) la volontà dei genitori di usufruire della scelta della scuola

2) la reale capacità che i genitori hanno di scegliere la scuola migliore per i propri figli

3) la reale possibilità che i genitori hanno di far frequentare ai figli quella che ritengono "la scuola migliore" per loro.

4) le verifiche che sono da attuare per vedere se davvero, con questo, si migliorano l'educazione e l'istruzione dei giovani

Le ricerche utilizzate mettono in risalto il fatto che delle informazioni sulle scuole migliori, date dalle scuole stesse, sono in grado di avvalersi, per lo più, i genitori di un certo ceto sociale

Da due ricerche inglesi del 1997 sul comportamento dei genitori emerge che questi non sempre sono sufficientemente informati: quindi in teoria possono scegliere, ma in pratica non lo fanno oculatamente. Sono in grado di fare buon uso di queste informazioni, che spesso sono fornite dalle scuole in modo poco chiaro e ambiguo, i genitori della classe media (ceto benestante, con un buon livello d'istruzione), o, secondo una ricerca francese, proprio i genitori che sono docenti essi stessi .

La ricerca americana fatta a Detroit (su un campione di 750 genitori), mette in risalto lo scarto tra l'adesione dei genitori al diritto enunciato, la possibilità di scegliere la scuola per i figli, vissuto come una possibilità "democratica", e la realtà: nei fatti, altri elementi, ben più forti, impediscono loro di utilizzare questa opportunità, di fruire di questo diritto. Può essere la tendenza dei genitori a mettere il figlio nel gruppo etnico di appartenenza, per evitargli difficoltà precoci; può essere un senso di sconfitta che impedisce di tentare; può essere, banalmente, la vicinanza all'abitazione della scuola stessa…..

Gli ostacoli all'utilizzo ottimale del servizio pubblico sono ovunque: disseminati nella vita quotidiana, condizionati dalla razza, dalla nascita. I numerosi punti del libro che toccano questo problema colpiscono davvero. Sono cose dette senza enfasi, talvolta in modo indiretto, anche un po' macchinoso, come spesso succede quando si comunica attraverso i dati. Ma è un'evidenza che colpisce, anche perchè tocca tutto il mondo occidentale ed è pericolosamente vicino alla nostra realtà.

Se la chiave di lettura di questo diritto, libertà di scelta per tutti, che l'autonomia scolastica pare prevedere, è la riduzione della stratificazione sociale, si può constatare che questo non avviene: questa "falsa" libertà di scelta si rivela una ulteriore minaccia per l'equità scolastica; si rivela fautrice di un aumento della segregazione.

Il regime di autonomia non garantisce quindi, di per sé, nemmeno attraverso la messa in campo di certi diritti, lo sviluppo di un sistema scolastico più equo; non garantisce un'istruzione di qualità per tutti.

Certo, questa non c'era nemmeno prima. Ambedue i modelli, il vecchio modello accentratore e burocratico e il nuovo, "quasi mercato", non garantiscono nulla. Non si ritrova, comunque, a mio avviso, un giudizio definitivo dell'autore; talvolta è quasi oscillante, tra lo sconforto e la speranza.

Tra le positività, almeno potenziali, dell'Autonomia, c'è la volontà di superare quello che non funzionava nei sistemi precedenti e la spinta verso soluzioni nuove che definiscano, in questo nuovo mondo globalizzato che si sta formando, uno spazio nel quale la scuola sia importante, strategica.

Nel concetto di "capitale sociale", essenziale risorsa per l'azione, oggetto degli studi di James Coleman, pare riposta una prospettiva positiva anche per il mondo dell'istruzione.

Capitale sociale è, nella definizione che ne dà un altro studioso, Robert Putnam, la messa in campo di "reti sociali e norme di reciprocità". Si accompagna fortemente al concetto di comunità; il suo ambito spaziale può essere circoscritto, radicato nel locale; i soggetti che lo animano sono molteplici.

Presuppone, certo, molte cose: non ultima, forse, una concezione del sapere concepito come " bene comune", prodotto e fruito dalla collettività; una concezione che ricorda, singolarmente, le riflessioni (recentemente ripubblicate in Italia dall'editrice Manifesto Libri) che ritroviamo nelle cinque "Memorie"di Condorcet sull'istruzione pubblica; ma da allora molte cose sono avvenute......

Il nostro autore bandisce le ideologie, ma propone Coleman e il suo capitale sociale; e quindi, ancora una volta, riporta la scuola in un contesto più largo: in quella "società civile" dove gli individui — i singoli individui con la loro precisa assunzione di responsabilità, con la loro coscienza civica — possono, forse, contare.

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