logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina

Eugenio Borgna, Il volto senza fine,Le lettere, Firenze 2004

Come le grandi sinfonie mahleriane, i libri ai quali Eugenio Borgna ci ha via via abituato sono arazzi in cui temi e motivi si inseguono e si riannodano in conversazioni infinite, infinitamente modulate, indefinitamente variate. "Non è cambiata la linea tematica di ogni mio libro, scrive Borgna, quella che nasce dall’anima di una psichiatria fenomenologica e antropologica nei suoi fatali sconfinamenti in discipline affini, ma in questa linea tematica si è inserita la confrontazione dialogica e dialettica con le aree tematiche della creatività artistica, e in particolare con quelle (pittoriche) che si sono venute svolgendo nel novecento: nella lacerazione, e nella frantumazione, dei paradigmi formali nei quali si è sempre riconosciuta l’arte classica."

L’indagine sulla psiche e sulla sofferenza psichica si allea e si alterna, così, nelle pagine del Volto senza fine, all’incursione nelle regioni dell’espressione artistica (e letteraria). Le ombre della malinconia e le luci ora taglienti ora gelide della schizofrenia si accompagnano alla meditazione di quel tanto o poco di tristezza, incomunicabilità, silenzio che ogni esistenza porta in sé. Gli strumenti della psicopatologia clinica tedesca (Jaspers, Schneider, Binswanger) si affilano sulla pietra scabra della fenomenologia e dell’esistenzialismo (Husserl, Scheler, Heidegger). Le voci della poesia (Rilke, Trakl, Holderlin) fanno da mobile contrappunto ad un’architettura teorica di prismatica raffinatezza e di saldissimo rigore metodologico. La pittura sospesa di Mario Sironi, gli spazi incantati ed enigmatici di De Chirico, la malinconia dei ritratti di Daniele Ranzoni, le visioni straziate di Bacon, il mondo angoscioso di Egon Schiele: "Cosa dire dell’olio su tavola Madre e bambino di Egon Schiele? Cosa vede il bambino biondo con gli occhi azzurri sbarrati (di un azzurro stremato e allucinato che ricorda l’azzurro delle poesie travolte dall’angoscia e dalla disperazione di Georg Trakl)?"

Ogni filo tematico, ogni linea melodica, ogni percorso problematico compare sulla scena del discorso, sfuma, riemerge arricchito di inedite rifrazioni, si snoda e si rinnova secondo le leggi di un cromatismo di estenuata sensibilità e inesauribile risonanza. Ogni tradizione teorica, ogni spunto epistemologico, ogni strumento analitico si illumina nell’accordo con gli altri: dalla psicopatologia bergsoniana di Minkowski a quella scheleriana di Schneider, dall’approccio heideggeriano di Binswanger a quello psicodinamico di Arieti. Accordo, intreccio in cui lampeggia la speranza di quella sintesi che proprio a Mahler, un istante prima della catastrofe europea, doveva sembrare possibile afferrare e incarnare nella Vienna delle mille voci e delle mille culture. L’arte di Alberto Giacometti, oltre alla filosofia, alla psichiatria, alla psicologia, alla critica letteraria; ma anche la pittura di van Gogh e di Edvard Munch, ma anche di Lorenzo Viani, di Daniele Ranzoni, di Otto Dix ritornano, elettivamente, in queste pagine; certo proprio questo è l’elemento di novità più grande: per la prima volta Eugenio Borgna parla in un suo testo, tematicamente, di pittura e di scultura.

Non si tratta, naturalmente, nel Volto senza fine, di tentare la via di una psichiatria dell’arte, magari impegnata a riportare le forme e i contenuti di un fare poesia o di un fare pittura (quello di Trakl, quello di van Gogh) alle vicende e ai drammi, alle crisi e alle malattie dei loro autori. Un simile riduzionismo, vacillante già ai tempi di Jaspers, sarebbe oggi improduttivo sul piano pratico, insostenibile sul piano teorico. Si tratta piuttosto, per Borgna, di fare il contrario. In un certo senso, si tratta per lui di fare del mondo psicologico e psico(pato)logico di ciascuno un mondo di espressioni simili per profondità umana, se non per pregnanza estetica, a quello che un grande autore consegna alle sue pagine o alle sue tele. In altro senso, si tratta di fare riemergere questa dimensione di creatività della vita psico(pato)logica attraverso il filtro di una psichiatria che sappia elevarsi, essa stessa, al rango di un’arte. ("Fra una disciplina scientifica, come è almeno in parte la psichiatria, e le esperienze artistiche contemporanee si sono allora venuti creando snodi tematici che si rispecchiano gli uni negli altri: in un gioco stregato di specchi.")

Di che genere di arte si tratta, nell’arte che calamita l’attenzione di Eugenio Borgna in queste pagine? Di che genere di arte, nell’arte contemporanea e nell’arte che abita la sua psichiatria, in quella parte della sua psichiatria, questa disciplina che, "almeno in parte", non è riducibile a "disciplina scientifica"?

Si tratta, certo, di un’arte per nulla estetizzante, di un’arte per nulla contemplativa, per nulla compiaciuta e decadente. Di un’arte intesa, forse, come sapienza pratica del colloquio, come saper-fare artigianale, personale, intorno al linguaggio e all’espressione. Di un’arte del colloquio come sensibilità quotidianamente affinata alla potenza di quella che Freud, per primo, ha chiamato "cura di parole". (Scrive Borgna, chiudendo la sua riflessione in questo volume: "Nei nostri cuori possano rinascere almeno qualche volta le immagini poetiche e pittoriche che si sono venute delineando nel corso del libro: magari non disancorate dalle voci del dolore e dell’angoscia, della speranza e dell’attesa, che sono riemerse dalle pazienti e dai pazienti: che, ancora una volta, mi hanno accompagnato in questo mio cammino.")

È forse questa ineguagliabile capacità di suscitare tessiture di voci, intrecci di linguaggi, melodie, ritmi a volte diversissimi, intorno al nucleo insistente e inafferrabile di un enigma, di un tema delirante, di un motivo di angoscia o di inquietudine, a costituire la cifra più peculiare del lavoro attuale di Borgna, della sua arte del colloquio, saggistico e clinico insieme. Non stupisce che questo suo saggismo cromaticamente musicale, infinitamente articolato e riarticolato intorno a pochi temi "assoluti", la malinconia, la schizofrenia, le metamorfosi del tempo e del corpo nell’esperienza della follia, si addentri via via, per altro verso, nella dimensione che una volta Maurice Blanchot ha indicato parlando dell’arte della parola come entretien infini.

Il discorso di Borgna si trova consegnato alla pagina nel suo farsi, nel suo divenire, nel suo modularsi ininterrotto, nel suo interminabile riprendere da capo. Nel suo dire e disdire. Nel suo avanzare per adombramenti, intuizioni, frammenti. ("Ogni libro è un’avventura che nemmeno chi abbia a scriverlo conosce fino in fondo: al di là dei suoi contenuti, delle sue tematiche, ci sono (ci possono essere) in un libro significati nascosti, che cambiano di situazione in situazione, di stato d’animo in stato d’animo").

Così, non si dà mai, in queste sue pagine, in questi suoi libri, qualcosa come un’"opera". Ciò che Il volto senza fine restituisce, ben più che una qualsiasi teoria o verità o trattato circa la psichiatria o la filosofia, la pittura o la poesia, la sofferenza e la guarigione, è il movimento vivo, vitale, di un’arte della parola e di un’arte di curare attraverso la parola, le cui delimitazioni, le cui movenze, le cui motivazioni sfumano, sempre più, le une nelle altre. Entretien infini, infinito colloquio, intrattenimento nella parola, intervista, interludio di sguardi e voci, conversazione, è, allora, questo inquieto aggirarsi tra le ombre e i lampi di un linguaggio che a nessuno appartiene, di cui nessuno è padrone, non io, non tu, non l’autore, non il lettore, non il terapeuta, non il paziente. Aggirarsi tra ombre e lampi di un linguaggio, di una parola, di una cura che proprio perciò, proprio perché inappropriabile, inafferrabile, offre a ciascuno una casa comune, uno spazio condivisibile, un luogo d’incontro, un’occasione di ospitalità. Offre a ciascuno un invito a trattenersi e intrattenersi, gli uni con gli altri, gli uni presso gli altri, presso le cose e i volti e il mondo. Presso lo spazio di un senso che neppure la folie par excellence, la schizofrenia, cancella mai del tutto. E che neppure l’arte più alta esaurisce mai e dice mai definitivamente.

La posta in gioco del senso non si cancella e non si esaurisce, difatti. Si rilancia e riannoda, sempre, nelle sue infinite modulazioni, nelle sue parabole mai compiute e mai interrotte.

Federico Leoni

(Università di Milano)

LINKS

TORNA ALL'INDICE DEL MESE

CERCHI UN LIBRO?

CERCHI UNA RECENSIONE?

FEED-BACK:
SUGGERIMENTI E COLLABORAZIONI

Se sei interessato a collaborare — o se vuoi fare segnalazioni o inviare suggerimenti e commenti — non esitare a scrivere al Responsabile di questa Rubrica, Mario Galzigna, che si impegna a rispondere a tutti coloro che lo contatteranno.


spazio bianco
POL COPYRIGHTS