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Ludwig Binswanger, Il caso Suzanne Urban. Storia di una schizofrenia A cura di E. Borgna e M. Galzigna Marsilio, Venezia 2001

di Federico Leoni

Torna in libreria in questi giorni, a cura di Eugenio Borgna e Mario Galzigna, uno dei testi fondatori della psichiatria e della psicopatologia del Novecento: Il caso Suzanne Urban di Ludwig Binswanger, nella traduzione di Giorgio Giacometti. Si tratta di una delle storie cliniche — e delle storie di vita — che Binswanger raccolse, nel 1957, in Schizophrenie, uno dei vertici del suo lavoro psicopatologico e, insieme, uno dei risultati più duraturi di quel variegato indirizzo di ricerca che, nell'ambito dei saperi della psiche, si muove tra i riferimenti filosofici centrali di Edmund Husserl e di Martin Heidegger. Due saggi dei curatori accompagnano inoltre il testo di Binswanger, illuminandone gli aspetti clinici e le implicazioni terapeutiche — Eugenio Borgna è uno dei più autorevoli ed originali esponenti della psichiatria di indirizzo fenomenologico — e le prospettive e problematiche filosofiche — Mario Galzigna, storico e filosofo della scienza, si occupa da molti anni dei saperi della psiche, della loro fondazione teoretica, delle loro implicazioni sociali e politiche.

Chi legga queste pagine binswangeriane si trova tuttavia immerso, anzitutto, in un romanzo: un romanzo di radicale tensione narrativa, dove gli eventi si concatenano gli uni agli altri in una progressione di rigore geometrico, di tenuta implacabile, di straziata atmosfera emotiva. Questa Storia di una schizofrenia dovrebbe essere ascritta alla grande tradizione tedesca del Bildungsroman, cui appartiene come un rovesciamento, un'inversione necessaria e consustanziale. Si tratta, infatti, del romanzo di una distruzione. Vi si narra non di una formazione ma di una deformazione altrettanto minuziosa e laboriosa, irresistibile. Dapprima è il perturbamento, l'incrinatura inattesa e feroce nella tranquillità di un'esistenza borghese a suo modo compiuta, racchiusa in una propria asettica, forse inumana perfezione. Poi è il dilagare di quella scossa iniziale, il franare che trascina l'intera architettura di un'esistenza — quella della bella, ironica, algida Suzanne Urban — nell'illusione del delirio. È la morte del marito, lo scatenarsi delle immaginarie torture subite e inferte alla propria famiglia — infinitamente amata e odiata come in un'invenzione viscontiana — e delle accuse ai propri inesistenti, infiniti guardiani e aguzzini, delle provocazioni, delle crudeltà immaginate in loro risposta.

Al di sotto del romanzo, ritmano la scrittura di Binswanger i rintocchi di una scansione tematica di rigore psicologico e pregnanza filosofica raramente eguagliate. Mondo, spazio, tempo: sono questi alcuni dei capitoli, alcuni dei registri tematici fondamentali entro cui lo psichiatra svizzero organizza la propria minuziosa genealogia dei significati e delle intenzioni di un'esistenza delirante: la propria ricognizione che si spinge anche là dove le categorie del significato e dell'intenzione paiono definitivamente sospese, irriconoscibili. Mondo, spazio, tempo sono le grandi coordinate trascendentali le cui metamorfosi segnano l'esistenza di Suzanne Urban: trascendentali nel senso di Kant (perché non è da escludere una tale coloritura, in Binswanger) ma anche e soprattutto nel senso di Heidegger (la cui filosofia rappresenta la matrice filosofica di molta parte del lavoro binswangeriano). Eppure non è detto che proprio il mondo, lo spazio e il tempo costituiscono davvero la radice ultima cui il lavoro archeologico di Binswanger risalga. Non è detto che proprio quelle direttrici racchiudano il luogo sorgivo a partire dal quale diventi possibile ricostruire la parabola di una vita e di una malattia, la parabola della vita e della malattia individuale di Suzanne Urban.

È, piuttosto, la loro combinazione irripetibile, il loro singolare intreccio in un determinato qui-e-ora a segnare la situazione fondamentale di un'esistenza, la sua tonalità, la matrice di senso entro cui ogni suo significato prenderà forma: la sua scena originaria, come Binswanger la chiama. Non un tempo, uno spazio, un mondo qualsiasi, dunque, non un tempo ed uno spazio genericamente vissuti, genericamente intesi nella loro pregnanza antropologica, ma questo spazio, questo tempo, questa scena custodiscono, per Binswanger, il segreto del significato di una storia di vita e della sua metamorfosi psicopatologica. La scena originaria è, infatti, la scena le cui peculiari tonalità spaziali e temporali, la cui singolare immagine di mondo, il cui particolare incontro interpersonale diverranno matrice di ogni altro spazio, tempo, mondo, persona incontrati nell'esperienza di ogni giorno di quell'esistenza. Quel senso attrarrà con la propria gravitazione segreta ogni altro significato e istante. Ogni altro significato, ogni latro istante vi verrà via via attratto e trasfigurato.

Così è per Suzanne Urban, che un giorno accompagna l'amato marito, da tempo sofferente, dal medico. Ne segue la visita, ne ascolta e indovina a distanza i gemiti, i lamenti terribili, le sofferenze lancinanti. Il medico, terminata la visita, le fa un cenno. È ben attento a che il marito non veda, a che Suzanne veda che il marito non deve vedere. Quel cenno, nel suo silenzio e nel suo segreto, nella sua teatralità improvvisamente astratta, spettrale, dice a Suzanne una cosa sola. Il marito non ha speranze, il male che lo ha colpito, un cancro, non lascia possibilità di sopravvivenza. Ma quel cenno dirà, allo stesso tempo, mille cose, mille altre impossibilità, mille altre morti e sofferenze agli occhi di Suzanne, instancabilmente impegnati a decifrare ovunque l'eco interminabile e ubiqua di quel destino monocorde, inarginabile.

Ora, è forse nella nozione di scena originaria che si intersecano nel modo più fecondo e compiuto la sensibilità binswangeriana alla storicità — di un'esistenza, di una malattia, di un delirio — e il suo gusto trascendentalista, la sua attenzione agli heideggeriani a priori esistenziali. La scena originaria è l'intero romanzo di una vita contratto in un punto, raccolto in un evento che è insieme prologo ed epilogo. È storia cristallizzata in monade, libertà pietrificata in destino, volto gelato in maschera primordiale e definitiva, come di chi abbia incrociato lo sguardo di Medusa. L'irruzione del terribile — la malattia del marito — la sua forma irreparabile e inappellabile — il cancro, la morte — dilagherà lentamente, inesorabilmente nell'intera esistenza di Suzanne. Si renderà autonoma dal qui-e-ora peculiare in cui aveva avuto luogo, dal suo come irripetibile (la gestualità spettrale, da pantomima, come ella dice, del medico). La scena originaria diventerà l'ombra inseparabile di ogni gesto di Suzanne: lo spettro che, di slittamento in slittamento, di istante in istante avvolgerà nelle pieghe pesanti del suo mantello gli sguardi, le speranze un'intera esistenza.

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