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L. Binswanger, Henrik Ibsen. La realizzazione di sé nell’arte, a cura di Michele Gardini, Introduzione di Bianca Maria D’Ippolito, "Le forme dell’anima", Quodlibet, Macerata 2008.

 

Dopo il volume collettaneo a cura di Stefano Besoli, Ludwig Binswanger. Esperienza della soggettività e trascendenza dell’altro. I margini di un’esplorazione fenomenologico-psichiatrica, 2006 (cfr POL.it, ottobre 2008, archivio recensioni), Quodlibet sforna un ulteriore volet dell’opera dello psichiatra svizzero, il saggio su Ibsen del 1949, per la prima volta in traduzione italiana.

L’interesse di questo studio sulla figura di Ibsen, o per meglio dire, sulla "configurazione dell’esserci" alla quale Binswanger ha scelto di dare il nome del drammaturgo norvegese, risiede innanzitutto nell’intento esplicitamente binswangeriano di giustificare la differenza che separa la prospettiva d’indagine daseinsanalitica sulla "forma artistica" da quella tradizionalmente psicologica e nella fattispecie psicoanalitica (cfr. pp. 26-27, 42). Questo saggio che ha tutta l’apparenza di uno studio su un autore, al modo di quelle indagini sulla "personalità artistica" particolarmente care agli psicoanalisti (si veda ad esempio, per restare in tema, lo studio di Groddeck sul teatro di Ibsen del 1910), si rivela essere in realtà un saggio sulla Daseinsanalyse stessa, sulla sua metodologia e sulle sue poste in gioco.

In queste pagine binswangeriane non troviamo dunque né un’analisi dell’uomo-Ibsen attraverso le sue opere — a partire dai meccanismi paradigmatici di rimozione e sublimazione (cfr. pp. 11, 24, 44) — né tanto meno delle riflessioni meramente teoriche atte a dare corpo a quella che Binswanger definisce la "pretesa "isolata" dell’estetica" (p. 47) o la "pura intenzione artistica" (p. 62). Allo stesso modo in cui già in Sogno ed esistenza, i sogni, considerati alla stregua dell’immagine poetica, costituivano l’occasione per portare alla luce un’essenza che "si trova ancora al di là di ciò che la logica e la teoria dell’espressione poetica riescono a mettere in luce" (tr. it. di C. Giussani, Milano, SE, 1993, p. 67), anche qui l’opera artistica di Ibsen viene utilizzata in quanto occasione paradigmatica di un’indagine sul "sé artistico in quanto "modo della soggettività"" (Ibsen, p. 28), sull’arte come "realizzazione di sé in quanto forma dell’esserci" (p. 40).

Saremmo quasi tentati di dire che il drammaturgo norvegese viene trattato dallo psichiatra alla stregua di un caso clinico (come fa giustamente notare Michele Gardini nel saggio di chiusura del volume, p. 111), e questo, si badi bene, proprio perché gli stessi casi clinici binswangeriani, a loro volta, si presentano più come occasioni paradigmatiche che come "casi" veri e propri, nel senso in cui gli elementi tematici del vissuto che determinano la peculiarità tutta singolare del paziente vengono sempre ricondotti alla configurazione esistenziale che li inquadra. In altre parole, per Binswanger le "particolarità" sono in ultima analisi quelle "strutturali" (p. 56), mai quelle singolari, riconducibili a un vissuto contingente, e anche qui, questa ricerca tutta fenomenologica di "ciò che è comune" ai diversi modi di essere (p. 40) finisce per "servirsi" di Ibsen come di una sorta di modello per mostrare le "condizioni sovratemporali di possibilità" (pp. 45-46) di quell’esserci che, in controcanto alle forme mancate dell’esistenza, appare ora come la forma compiuta, realizzata di quest’ultima.

Ciò è particolarmente visibile in questo saggio, più ancora che nei casi clinici (che lo psichiatra svizzero comincia a raccogliere proprio a partire dalla fine degli anni quaranta e che farà poi confluire nel volume sulla schizofrenia del 1957), se consideriamo il fatto che le forme di esistenza mancata con le quali viene comparata in negativo la figura della realizzazione di sé qui non sono relative a persone reali, bensì a dei personaggi "fittizi", ovvero i protagonisti dei drammi di Ibsen. Tali personaggi, la cui vita appare tanto più "incompleta" e "lacerata" (p. 29) se paragonata all’"orientamento della vita" del loro artefice, vengono posti da Binswanger sul medesimo piano di Ibsen stesso, di modo che, apparendo in tutta chiarezza il valore paradigmatico di quei "tipi", anche la figura del drammaturgo finisce per rivelare la sua natura "fittizia", nel suo indicare più una possibilità dell’esserci che un essere effettivamente reale. Eppure, nel momento in cui Binswanger sottolinea quanto sia "più afferrabile e visibile il modo in cui il poeta disegna", "ritrae", fa "giungere ad espressione" quei "tipi" rispetto al modo in cui "la psichiatria li etichetta come sintonici, sincronici" ecc. (p. 89), egli mostra come tale "contingenza" dell’esistenza singola, qui "rappresentata" figurativamente attraverso dei personaggi, costituisca il termine medio indispensabile per cogliere delle "forme antropologiche universali" (p. 52) che, proprio perché inseparabili dalla loro espressione singolare, non hanno più nulla a che vedere con le etichette imposte dall’esterno dallo psichiatra. "Il genio di Ibsen" — scrive Binswanger — "si manifesta nel modo più chiaro nell’arte di rendere visibile l’"essenza delle cose", le forme essenziali dell’esserci umano" (p. 88). Per questo "non sappiamo e non abbiamo bisogno di sapere" "di che genere fosse il "sedimento" proprio al punto del corso della vita nel quale egli scrisse" questo o quel dramma (p. 91), proprio come non c’è bisogno, per il drammaturgo, di ritrarre dei personaggi reali per metterne in luce le forme fondamentali.

Ma in tal modo, attraverso la peculiarità del genio artistico di Ibsen, non è a ben vedere l’intento stesso della Daseinsanalyse a venire delineato?

Non è un caso se ad un certo punto del saggio lo psichiatra svizzero paragona la ""lungimiranza" del poeta in riferimento alla vita umana in generale" — quella che gli consentirebbe di intuirne e di metterne a fuoco le "forme antropologiche" — a quella del fenomenologo che "vede di volta in volta nel fatto empirico solo il fondamento esemplare per cogliere e fissare l’essenza che ne sta a fondamento" (p. 45). Binswanger si spinge sino a paragonare il poeta drammatico, che ""crea a partire dal dramma della "vita umana"", allo scienziato naturale che "parte dall’esperienza ingenua della natura, e si basa su di essa come suo autentico fondamento, al fine di poterla sempre più "ridurre" concettualmente in forme di pensiero sempre più pure" (p. 32). E tuttavia, ciò che distingue profondamente il poeta — e lo psichiatra binswangeriano — ad un tempo dal fenomenologo e dallo scienziato, è precisamente il fine di questa stessa "purezza" alla quale essi mirano attraverso la riduzione, giacché lo scopo dei primi è quello di "gettare un ponte" fra sapere e condotta di vita, non a spezzarlo, foss’anche temporaneamente, per fondare scienza e conoscenza.

Ed è proprio qui che ai nostri occhi si gioca in ultima analisi la relazione del pensiero di Binswanger con la fenomenologia, almeno in questa sua fase daseinsanalitica. È indubbio che, nella sua ambizione di rintracciare e delineare i "tratti essenziali a priori dell’esserci umano" (p. 46), nel suo puntare oltre la psicologia, verso l’antropologia e addirittura l’ontologia (cfr. p. 20) — il che evidenzia la sostanziale continuità dell’Ibsen con le Grundformen und Erkenntnis menschlichen Daseins (1942) — lo psichiatra svizzero sembra quasi dimenticare che questa sua analisi nasceva da un’esigenza e in un ambito che erano in origine quelli della clinica psichiatrica. E tuttavia, egli non manca di ricondurci indirettamente a quest’ultima al termine del suo studio, allorché rileva le "faticose e circostanziate descrizioni e interpretazioni" con cui l’antropologo giunge ad esprimere ciò che il poeta, invece, "ha "costruito" davanti a noi in una "superiore vista sulle cose", in un capolavoro d’arte drammatica, in una figura visibile e afferrabile" (p. 90). A differenza dell’antropologo — ma potremmo dire di qualsiasi posizione che intenda affrontare il problema dell’esistere secondo una forma teorico-esplicativa — il poeta è colui che ha "in vista l’umanità intera, l’esser uomo come un tutto" (p. 42) senza per questo trascurare "la mutevolezza e caducità di tutte le forme e i problemi storici" (p. 45). Anzi, proprio per questo, proprio raffigurando l’universalità in figure visibili e afferrabili (p. 74), egli mostra l’inseparabilità di quest’ultima dalle forme concrete attraverso le quali, solo, essa può essere indagata. È questo, ci sembra, il senso delle parole dell’Ibsen-Binswanger che emerge da questo saggio, allorché egli sostiene che "poetare è essenzialmente vedere" (p. 33).

Attraverso Ibsen, insomma, lo psichiatra svizzero chiarisce in ultima analisi la posizione della Daseinsanalyse stessa nei confronti di quella fenomenologia attraverso la quale, a sua volta, egli ha cercato di portare ad espressione l’esigenza ad un tempo teorica e concreta di comprendere le "configurazioni delle possibilità d’essere e delle potenze d’essere della vita umana in generale" (p. 42) a partire dal destino, dal dramma individuale di una singola esistenza. Come il poeta, citando Goethe, "possiede fantasia per la verità della realtà" (p. 31), allo stesso modo anche lo psichiatra-fenomenologo possiede la "lungimiranza" che gli consente di cogliere nel dramma individuale la mediazione immanente verso quelle strutture psicopatologiche che per Binswanger costituiscono l’architettura delle diverse forme di esistenza. E si tratta di strutture che, se da un lato possono essere colte dallo psichiatra in modo analitico, possono cioè essere fenomenologicamente "ridotte" — laddove il poeta, invece, le intuisce ma non le estrapola dalle figure che le incarnano — dall’altro, a maggior ragione per il fatto che tale riduzione è necessitata dall’ambito clinico, esse non possono essere in nessun modo pensate a prescindere da quel "caso", da quel dramma che le ha "occasionate".

È di estrema importanza, pertanto, sottolineare il modo in cui Binswanger qualifica in questo saggio tali modi strutturali che egli paragona all’essenza ricercata dal fenomenologo. Ad essere posto in primo piano, qui, non è tanto il problema fenomenologico della coerenza o della tipicità dell’esperienza, quanto piuttosto quello della sua proporzione, ed è interessante notare come lo psichiatra attribuisca a quest’ultima il carattere della "vitalità". Il "compito della vita" (p. 15), ovvero la realizzazione di sé, consisterebbe anzitutto in quella "totale adempibilità nel vivere" (p. 28) che significa il poter scegliere fra le possibilità che ci sono date in quanto esseri umani senza per questo perdere il "contatto" con la realtà, ovvero con la "condotta pratica di vita". Si tratta della tematica minkowskiana della "giusta misura", che Binswanger riprenderà ulteriormente nei saggi sulle Tre forme mancate di esistenza (1956), allorché delineerà la stramberia come una mancata articolazione dell’esistenza alla sua "situazione vitale". È precisamente a tale riguardo che Ibsen assurge agli occhi dello psichiatra a figura stessa della realizzazione di sé, nella misura in cui, pur scegliendo — o meglio, proprio perché ha scelto — di "dimenticare" la medietà dell’esistenza per acquisire una "superiore vista sulle cose" (p. 24), "è in grado di ricondurre alla giusta prossimità" (p. 11), di "gettare dei ponti sull’abisso tra vita estetica e condotta pratica di vita" (p. 49).

Questo riferimento indiretto a Minkowski, o comunque all’intuizione bleuleriana secondo cui il discrimine fra esistenza "normale" ed esistenza patologica sta nella qualità del contatto con la realtà, ci risulta prezioso per comprendere il senso in cui intendere il riferimento binswangeriano alla nozione fenomenologica di essenza. Se Ibsen costituisce l’emblema della realizzazione di sé nell’arte — sostiene Binswanger — è perché attraverso la sua opera egli crea, ovvero dà forma all’esistenza dei suoi personaggi e, così facendo, alla propria. Ora, il carattere della "vita" — della stessa vita in senso biologico, come lo psichiatra mostrava qualche anno prima nel suo saggio sull’Indirizzo antropoanalitico in psichiatria (1946) — consiste precisamente in questo, in una creazione di forme a partire dalla relazionalità mobile e normativa fra un soggetto e il suo mondo. È questo, in ultima analisi, il "compito della vita" al quale ogni forma di esistenza realizzata rimanda, a una relazionalità uomo-mondo che altri non è che quella misura, direzione vitale, proporzione che Binswanger non si stanca di additarci nel corso di questo saggio. Se Ibsen può assurgere ad emblema della realizzazione di sé, è non solo in virtù di ciò che ha creato, ma soprattutto perché, "una volta che egli ebbe trovato dimora nella sua arte", ha saputo fare "ritorno-agli altri nel senso di una comunicazione "superiore", vale a dire spirituale, con essi" (p. 69). A differenza del costruttore Solness, architetto di castelli in aria, che "pecca contro la "vita"" perché alla disperata ricerca della "pura forma, negata all’uomo" (p. 37), Ibsen può scegliere, può decidere di creare senza isolarsi da quella vita comune che resta invece la destinataria della sua arte. Questa, in ultima analisi, quell’essenza o quel nucleo strutturale, per dirla con Minkowski, che anche per Binswanger fa la differenza tra un’esistenza realizzata e una mancata.

Elisabetta Basso

elisabetta.basso@free.fr

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