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R. Beneduce, La "black depression" e l’identità culturale africana, in M. Galzigna (a cura di), Volti dell’identità. Le scienze psichiche, l’altro e lo straniero, Marsilio, Venezia 2001, pp. 83-105, Lire 30000, Ä 15,49

Psyché / ethnos. Nota sui paradossi dell’etnopsichiatria

Riprendo il filo delle considerazioni suggeritemi dalla lettura di Volti dell’identità, che recentemente segnalavo in questa sede. Mi rifaccio ad uno dei saggi più stimolanti in esso contenuti, quello di Roberto Beneduce sulla Black Depression, sperando che questa breve nota aggiuntiva — una sorta di supplemento critico alla precedente recensione — riesca a barattare l’unilateralità di tesi enunciate troppo rapidamente con il rigore e la fedeltà all’essenziale.

Proverò, quindi, ad esprimermi anzitutto così: l’edificio dei saperi etnopsichiatrici è minato alla base da un paradosso rimasto per lo più inavvertito, benché racchiuso, con evidenza inquietante, già nel termine stesso di cui è questione, già nella sua etimologia: etno-psico-iatria. Vediamo di che si tratta.

L’etnopsichiatria è nata, in primo luogo, come etnopsicopatologia. Solo successivamente si è posta, cioè, la questione terapeutica. In primis la domanda è stata, diciamo così, fenomenologica, descrittiva. Ora, descrittiva di che? Lo dice, di nuovo, il termine stesso: descrittiva dei pathemata, dei perturbamenti e delle malattie della psyché dell’altro, dell’altro ethnos. Ecco allora il punto: già solo la forma di questa domanda, di questo intento descrittivo, determina il contenuto, determina la materia di ciò che la descrizione crederà di trovare sul campo. Essa decide infatti preliminarmente che, là dove si incontrano uomini, se ne incontrano le dimensioni della psiche e dei perturbamenti e delle malattie psichiche. Decide, cioè, che l’esperienza è esperienza psichica.

Il problema etnopsichiatrico, etnopsicopatologico diventa allora semplicemente quello di una comparazione tra le diverse forme che la cultura imprime a questa comune materia che è lo psichico, e che è la malattia o il perturbamento psichico. Ma non ha forse cominciato a comprendere, l’Europa, che quella della psiche, lungi dall’essere la materia prima originaria ed universale dell’esperienza, è semplicemente la forma che l’esperienza ha assunto sotto la pressione di alcuni eventi epocali che sono quelli della cultura europea stessa, cioè della cultura in cui essa si risolve quasi senza residuo? Il castello di carte di questa comparatistica, allora, crolla. Non si stava comparando nulla: si proiettava semplicemente l’identico sull’altro, l’europeo sul non-europeo.

È istruttivo vedere come questa curiosa vicenda si trovi confermata e acuita proprio nel momento in cui con più forza — e, va detto, con più coraggio — essa si difende da se stessa e dalla propria storia. Storia che, si sa, è pesantemente segnata dalla servitù nei confronti di un’intera costellazione di premesse positiviste, evoluzioniste, razziste, tanto che le problematiche e le prospettive attuali del lavoro etnopsichiatrico sono ancora in larga parte determinate dalla reazione a questa storia.

Per limitarsi, di nuovo, all’essenziale: all’origine sta la negazione di una qualsiasi prossimità dei modi di vita di pensiero africani ai tratti, alle caratteristiche, agli standard dell’umanità europea. Il che andava inteso, naturalmente, in senso negativo: quelle africane sono popolazioni prive di psiche, cioè ferme ad uno stadio evolutivo, biologico e culturale, inferiore a quello europeo, lontano mille miglia dalla raffinatezza, dalla complessità espressiva, dalla molteplicità dei modi di sentire e pensare fiorite a nord del Mediterraneo.

Ovvio che, reagendo alla brutale incomprensione testimoniata da queste tesi, e alle pratiche ancor più ripugnanti dello schiavismo, della colonizzazione, dello sfruttamento che ad esse si accompagnavano, traendone pretese giustificazioni, l’etnopsichiatria abbia proceduto per rovesciamenti successivi: non è affatto vero che quelle africane siano civiltà prive di raffinatezza; non è affatto vero che la vita sociale e culturale e personale che vi si svolge sia ignara di profondità; non è affatto vero che non vi sia anche laggiù, per usare una vecchia parola, anima. Anche l’Africa conosce le vibrazioni e i turbamenti dell’interiorità. Anche l’Africa si ammala esistenzialmente.

Di più: anche l’Africa conosce qualcosa di simile a quella Stimmung così eminentemente europea, così rarefatta e, nel suo dramma, così "superiore", che è la melanconia. Il tentativo di rintracciare e dimostrare l’esistenza di un typus melancolicus africanus diventa così una sorta di experimentum crucis per la psicologia e la psichiatra europea, epistemologicamente decisivo della sua maturità scientifica e democratica e, insieme, umanamente salvifico per l’Europa ancor prima che per l’Africa.

Anche l’Africa, ha dunque concluso la "nuova" etnopsichiatria", ha una psiche. Tutto bene, allora? Non proprio. Senza voler mettere in dubbio gli intenti, nobilissimi, di questo tragitto, è difficile resistere alla sensazione che qualcosa di diverso e di troppo, rispetto a quel che si aveva di mira, sia stato così ottenuto. Per mostrare, cioè, che l’africano non è inferiore all’europeo, gli si è attribuito qualcosa di irriducibilmente europeo come la psiche; si è dato per scontato che la forma europea dell’esperienza, la forma psichica, sia la forma universale dell’esperienza; al limite, che la forma universale dell’esperienza psicopatologica sia quella melanconica (un discorso a margine, in parte sovrapponibile a questo, meriterebbe la schizofrenia). Sicché il giusto anelito ad una comprensione dell’altro juxta propria principia è sfociato — ecco il paradosso — in un suo fraintendimento radicale: in un fraintendimento il cui eurocentrismo universalista non è meno profondo, benché meno aspro all’apparenza, di quello passato. Che fare?

Federico Leoni

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