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Henri Maldiney, Penser l’homme et la folie. A la lumière de l’analyse existentielle et de l’analyse du destin, Grenoble, Jérôme Millon, 1991 (19972); tr. it. a cura di F. Leoni, Pensare l’uomo e la follia: alla luce dell’analisi esistenziale e dell’analisi del destino, Torino, Einaudi, 2007

È con grande entusiasmo che accogliamo la traduzione italiana di questa raccolta di articoli di Henri Maldiney, filosofo-fenomenologo francese attivo sin dagli anni cinquanta nel panorama intellettuale del suo paese, ma del quale in Italia, finora, erano stati tradotti solo tre brevi saggi, come precisa Federico Leoni nella sua ricca introduzione al volume (Henri Maldiney. Una fenomenologia della follia, pp. VII-XXV).

La nostra disamina prenderà le mosse proprio da questa Introduzione, giacché essa ha il merito di presentare al pubblico italiano non soltanto questa prima raccolta di spessore (sono stati scelti quattro ampi interventi che il filosofo francese compose tra il 1961 e il 1990), ma anzitutto il suo autore e l’originalità del suo pensiero.

Lo stimolante saggio di Federico Leoni è inteso a delineare il contorno della speculazione di Maldiney a partire da quello che egli avverte come lo scarto fra l’orientamento eminentemente ontologico inflesso da Heidegger alla fenomenologia e quello invece husserliano, di carattere egologico-trascendentale. È precisamente questo scarto che qualificherebbe in modo pregnante il progetto teoretico del filosofo francese rispetto alla Daseinsanalyse binswangeriana, dalla cui meditazione esso prende progressivamente forma. L’"antropologia" esistenziale di Binswanger, che fa leva sull’analisi di un Dasein pensato ancora in termini di soggetto e quindi di una trascendenza che di conseguenza viene declinata nella forma del trascendentale, verrebbe dunque superata da Maldiney partire da un’esigenza di carattere più marcatamente ontologico. Così, l’Heidegger che Leoni avvicina a Maldiney non è più — com’era in Binswanger, a torto o a ragione — l’Heidegger del Dasein, ma quello dell’Ereignis, giacché "il luogo del senso è il luogo di questo eccesso rispetto alla partizione tra soggetto e oggetto, tra io e mondo, tra ordine psicologico e ordine "mondano" dell’esperienza" (p. XIX).

È precisamente su questo snodo teoretico del pensiero di Maldiney — portato alla luce in modo così acuto dall’analisi di Leoni — che vorremmo soffermarci, poiché ci sembra che proprio ragionando su di esso si possa giungere a toccare quello che ai nostri occhi emerge sicuramente come uno dei punti-cardine del progetto speculativo del filosofo francese. Più in particolare, è sulla nozione di Ereignis sviluppata da quest’ultimo che vorremmo interrogarci, sulle "ragioni" di questa che Leoni definisce come l’"esigenza ontologica" della concettualità maldineyana e quindi del suo "svoltare" verso il "secondo" Heidegger.

A noi sembra, infatti, che a voler troppo insistere sul carattere heideggeriano della nozione maldineyana di evento e quindi sulle ragioni ontologiche attraverso le quali si declinerebbe l’esigenza del filosofo francese di comprendere il "senso" dell’esperienza della follia, il suo progetto di tentarne "un’analitica come figura e come avventura non del Dasein, dell’esserci "antropologicamente" inteso, ma dell’Ereignis" (p. XXI), si finisca forse per trascurare una delle direzioni fondamentali secondo cui Maldiney ha inteso superare il concetto heideggeriano di Dasein, quella direzione, più precisamente, che del Dasein ha criticato proprio l’unilateralità di carattere ontologico.

Rendere conto di questo aspetto ulteriore della speculazione di Maldiney significherà, nell’ottica che intendiamo tracciare, anzitutto soffermarsi sul carattere tipicamente "francese" della sua speculazione filosofico-psichiatrica, con tutto ciò che tale aggettivo comporta. Proprio questo carattere, infatti, ci sembra in un certo modo essenziale per poter cogliere la specificità della prospettiva di questo originale lettore e interprete di Binswanger, di questo pensatore che proprio da Binswanger attinge l’esempio della possibilità di far propri gli strumenti della filosofia per sviluppare autonomamente una ricerca psichiatrica che è tutt’ora in fieri.

L’importanza di quell’aggettivo, dicevamo, sta anzitutto nella peculiarità della ricezione francese di Binswanger, che avviene — a partire dalla metà degli anni quaranta — sotto l’egida di autori quali Minkowski, Merleau-Ponty, Ey, Sartre e, non ultimo, Foucault. Peculiarità che consiste nell’accogliere la "fenomenologia" binswangeriana in senso ampio, e soprattutto a partire da un riferimento fondamentale a una biologia che troppo spesso o troppo in fretta viene tutt’oggi accantonata dalla lettura attraverso cui i filosofi tendono ad interpretare questa corrente "fenomenologica" della psichiatria, guidati in parte dalla considerazione che tale modello del pensiero psichiatrico prende forma, all’origine, proprio per distinguersi dalla psichiatria tradizionale di marca organicista. Rimarcare la forte presenza di quegli autori nella speculazione psichiatrico-fenomenologica francese significherà allora non poter esimersi dal tener conto del peso — all’interno dello stesso programma di Maldiney — proprio di quei pensatori assieme ai quali in Francia venne accolto il progetto binswangeriano, ovvero Kurt Goldstein, Viktor von Weizsäcker ed Erwin Straus. Solo in questo modo, ci sembra, il progetto di Maldiney di ripensare e approfondire il concetto heideggeriano di Dasein potrà essere colto in tutte le sue sfacettature e quindi in tutta la sua ampiezza.

È proprio attraverso il riferimento al vivente, infatti, ad un Dasein che si preferisce tradurre come divenire piuttosto che come "essere-nel-mondo" — come precisava Minkowski — che la corrente fenomenologica viene accolta in Francia a partire dagli anni venti, ed è per questo che Binswanger, nei testi degli psichiatri francesi, si trova spesso ad essere accompagnato dai nomi di Weizsäcker, Goldstein, Straus, tutti autori che avevano in qualche modo tentato di superare l’unilateralità organicista della psichiatria classica per fondare su nuove basi quelle scienze — neurologia, medicina e psichiatria appunto — che pur tuttavia non avrebbero potuto rinunciare ad un altrettanto essenziale riferimento al carattere biologico dell’esistenza. È in quest’ottica allora, che, spinti dall’esigenza di trovare una nuova forma non soltanto per la psichiatria, ma per quella stessa biologia a cui essa avrebbe dovuto comunque fare riferimento, questi autori avevano imboccato la strada del recupero della "fenomenologia" per ripensare su nuove basi il problema dell’esistere in quanto relazione di "uomo" e "mondo". Ed è in quest’ottica, precisamente, che il concetto heideggeriano di Dasein viene recuperato e fatto proprio anche dagli psichiatri-filosofi francesi, in quanto concetto finalmente in grado di rispondere all’esigenza di superare l’opposizione naturalista di soggetto e oggetto o — come mostrava Merleau-Ponty nella sua Fenomenologia del 1945, e proprio attraverso Binswanger — l’alternativa classica fra empirismo e intellettualismo.

Come viene esplicitato in modo particolarmente chiaro dalla tesi centrale del saggio binswangeriano sulla fuga delle idee, se il Dasein si trova ad essere al centro dell’indagine della psichiatria è perché il suo essere, in quanto "vita che si apre nello spazio di azione", si esprime attraverso un peculiare funzionamento, mediante un’attività organizzativa che si dispiega nella forma di una precisa elaborazione di carattere normativo (Sulla fuga delle idee, tr. it. di C. Caiano, Torino, Einaudi, 2003, p. 117). È attraverso l’analisi dell’auto-strutturazione del Dasein quale emerge dalle sue espressioni pratiche, quindi, che sarà possibile pervenire a quella norma che costituisce la chiave per comprendere le diverse forme effettive di esistenza, quel processo organizzativo che altri non è se non la costituzione di un mondo. E si tratta, in ultima analisi, di quel carattere normativo che è la cifra essenziale della vita stessa, del vivente in quanto "abitante del mondo", come avrebbero messo bene in evidenza, in Francia, Minkowski, Canguilhem, Lagache, Merleau-Ponty…

Si può facilmente notare allora come tale ripresa della concettualità heideggeriana si ponga in modo fortemente polemico rispetto a quel decreto inappellabile che — proprio a partire da Essere e Tempo, come viene bene messo in luce da Maldiney stesso — intendeva marcare una volta per tutte la distanza ontologica del concetto di "essere-nel-mondo" da ogni suo abbassamento ontico, fosse questo di carattere psicologico, antropologico o biologico. E si tratta di una ripresa polemica che avrebbe contato fra le proprie fila, nella Francia degli anni cinquanta, anche il giovane Foucault, all’epoca assiduo lettore e promotore di Binswanger, nonché — vale la pena di ricordarlo — traduttore, nel 1958, dell’opera fondamentale di Weizsäcker, Der Gestaltkreis (con prefazione di H. Ey).

Sarebbe interessante potersi soffermare sui numerosi richiami interni che possono essere ravvisati nelle opere di questi autori, e non ultimo nell’opera dello stesso Maldiney, alla quale tuttavia ci dobbiamo limitare in questa sede. È interessante notare, ad esempio, come il filosofo francese richiami la critica che Erwin Straus aveva rivolto — nel suo Vom Sinn der Sinne — all’insufficienza dell’approccio heideggeriano alla biologia, un approccio che finiva per limitare quest’ultima allo studio della sola "vita vegetativa" (p. 336). Ed è interessante notare anche come, a questo proposito, Straus citasse in suo appoggio proprio Binswanger, che nel suo Grundformen und Erkenntnis menschlichen Daseins avrebbe trattato l’esistenza — nel senso ontologico heideggeriano — come un caso-limite antropologico inaccessibile (Vom Sinn der Sinne, p. 298). Si tratta di un’osservazione che viene ripresa da Maldiney stesso in un saggio che non è contenuto nella raccolta alla quale sono rivolte queste nostre pagine — ma della cui traduzione lo stesso Federico Leoni si è occupato qualche anno fa (Della transpassibilità, Milano, Mimesis, 2004) — e che può forse esserci d’aiuto per mettere in luce i problemi che contraddistinguono la peculiarità del concetto maldineyano di evento dal quale siamo partiti.

Lo scopo del filosofo francese è quello di mettere in luce le difficoltà che sorgerebbero dalla netta separazione heideggeriana fra Leben e Dasein, ed è proprio contro una lettura unilateralmente ontologica del concetto di "essere-nel-mondo" che sono rivolte le numerosissime pagine che Maldiney dedica — lungo tutto l’arco della sua speculazione — all’opera di Weizsäcker, che egli caratterizza precisamente come "l’inverso dell’ontologia heideggeriana". Quel che più ci interessa è allora notare come lo stesso concetto di Ereignis venga pensato da Maldiney in analogia con la nozione weizsäckeriana di "atto biologico", e anzi proprio su questa base venga elaborato uno dei concetti-cardine del pensiero del filosofo francese, quello di transpassibilità. A noi sembra, dunque, che questa "svolta" verso un pensiero della "presenza" come ex-istenza che "si tiene fuori a partire da, cioè a partire dal fondo indeterminato" (Psicosi e presenza, p. 70), che questo esser-ci che si apre "all’evento" (Crisi e temporalità nell’esistenza e nella psicosi, p. 76) abbia molto più in comune con quella biologia pseudo-heideggeriana di cui qui stiamo cercando di mettere in luce almeno i tratti essenziali piuttosto che con la "svolta" heideggeriana stessa, con quel gesto ulteriore verso un’ontologia ormai inconciliabile con l’antropologismo ancora insito nella nozione di Dasein. E il nostro invito è quindi rivolto precisamente a soffermarsi sulla presenza forte e costante — nella riflessione di Maldiney — di Weizsäcker, di questo neurobiologo che con l’Heidegger di Essere e tempo aveva certamente condiviso l’esigenza di sottrarre l’"esistenza" ad una sua considerazione meramente "ontica", ma che tuttavia aveva finito per rendersi conto di non poter acconsentire al "divieto" filosofico di accostarsi attraverso una qualsiasi "scienza positiva" quale biologia o antropologia alla questione dell’essere, tematica di sola competenza dell’"ontologia fondamentale".

Allorché Maldiney mostra con Weizsäcker come non sia al Dasein che ci si deve rivolgere per comprendere l’"apertura all’essere" che contraddistingue l’esser-ci dell’esistenza, non è solo alla dimensione antropologico-soggettiva dell’"essere-nel-mondo" che egli rinuncia, ma anzitutto alla sua dimensione puramente ontologica, per pensare invece in termini di vita questa relazione stessa. Così, quell’Ereignis al quale egli perviene una volta bandita ogni caratterizzazione antropologistica, trascendentalistica, coscienzialistica del Dasein, quell’"evento" che è "ogni volta avvento del mondo" (Psicosi e presenza, p. 69) viene formulato a partire da un pensiero che intende rendere conto anzitutto del carattere concreto, vitale, dell’esistenza, di questo esser-ci la cui trascendenza come "apertura" all’essere non si risolve in un rapporto estrinseco di un "sé" e di un "mondo", ma in una presenza che è "rivelazione aurorale" di un mondo che "si apre ogni volta a partire dall’evento" stesso (Crisi e temporalità, p. 76). E si tratta di un "evento" il cui carattere trascendente non si risolve in un discorso dell’Essere d’ascendenza heideggeriana, ma che — se con Heidegger condivide certo la necessità d’essere pensato non più come "fenomeno ontico" — dall’ontologia del filosofo tedesco si scosta proprio in quanto questo "ontico" è pensato non più nella sua opposizione all’"ontologico" ma, con Weizsäcker, al "patico", ovvero a quel carattere che definisce negativamente l’esser-ci accreditandogli una trascendenza che non è nulla più che il suo poter essere, la sua transpassibilità (Crisi e temporalità…, cit., p. 74). Così, il "fondo" a cui l’esistenza si rapporta "originariamente" non è più l’essere dell’"ontologia", ma quell’indefinibile poter essere che — come il "senso" delle immagini del sogno di cui Maldiney tratta nel suo saggio sul Comprendere — ha un’origine che è "perpetua" e che potrà essere "compresa" solo attraverso una "fenomenologia della presenza" e dell’incommensurabile metamorfosi delle sue forme (p. 137). Quel "luogo del senso", che Leoni giustamente pone "più alla radice" di un soggetto o di una coscienza, quale luogo dell’"eccesso" rispetto alla partizione fra soggetto e oggetto, troverebbe dunque la sua ragion d’essere più profonda in quella "radice", in quel "fondo" che è anzitutto il fondamento vitale dell’esistente, del suo "originario" e "perpetuo" appartenere a quell’evento del mondo che è la genesi delle forme stesse dell’"essere-al-mondo".

Ma c’è di più. A noi sembra, infatti, che il riferimento di Maldiney alla biologia piuttosto che all’ontologia per delineare la sua proposta filosofico-psichiatrica contenga una preziosa indicazione metodologica per comprendere il significato del riferimento alla "fenomenologia" da parte di questa corrente della psichiatria alla ricerca di un modello filosofico attraverso cui interrogare la psicopatologia. Allorché Maldiney sottolinea come per Weizsäcker "ciò che è vero del vivente lo è anche dell’esistente", come "le trasformazioni costitutive della forma biologica" sono "analoghe alle trasformazioni costitutive dell’esistenza come essere-nel-mondo" (Evento e psicosi, p. 122), egli mostra infatti di saper cogliere la posta in gioco anzitutto metodologica che il modello weizsäckeriano di una legalità immanente al comportamento biologico offriva a una psichiatria sempre più propensa, nei confronti della "patologia" mentale, a mettere "fuori gioco ogni presa di posizione pregiudicata, e in primo luogo ogni distinzione normativa" (Psicosi e presenza, p. 5).

E in questo senso, ai nostri occhi, va colto anche quel riferimento di Maldiney a Foucault presente all’inizio del primo saggio della raccolta, un riferimento che appare quanto meno strano se confrontiamo le idee preconcette che si possono avere dei due autori in questione, ma che trova la sua ragion d’essere più profonda proprio alla luce di quella che abbiamo ravvisato come la parentela d’origine della psichiatria fenomenologica di marca francese. Nel sostenere come, nell’ottica di questa corrente della psichiatria, "evitando di applicare al suo caso le norme di una "saggezza acquisita altrove", si tenti invece di portare all’evidenza e di far propria la domanda immanente alla sua esistenza in questione" (pp. 4-5), Maldiney non può che far propria l’idea foucaultiana secondo cui la psichiatria moderna avrebbe "alienato" il folle confermandone e codificandone l’alterità rispetto a un "normale" stabilito esteriormente (p. 5). E così facendo, è il Foucault dell’Introduzione al binswangeriano Sogno ed esistenza (1954) che egli ritrova, prima ancora che quello della Storia della follia, quel Foucault che si era avvicinato al progetto di Binswanger in quanto in grado di "pervenire all’uomo" attraverso l’uomo stesso e le sue forme di esistenza, quel Foucault, ancora, di cui è così viva la presenza in tutti quei passaggi in cui Maldiney prende spunto da un’indagine sulle immagini del sogno (cfr. in particolare il saggio del 1961, Comprendere) per abbracciare infine la convinzione fenomenologica che "la sola realtà che riconosciamo è quella del fenomeno nudo, nella sua integra integralità, cioè la realtà delle espressioni dello psicotico, prese per se stesse e non in quanto sintomi o indizi d’altro" (Psicosi e presenza, cit., p. 5).

Ma non solo, giacché questa esigenza di analizzare l’esistenza a partire dalle sue forme intrinseche per ridefinire su una nuova base le prerogative della "psicologia" è precisamente ciò che ha caratterizzato la ricezione francese della fenomenologia in ambito psichiatrico, una ricezione che non ha esitato a recuperare l’intuizione heideggeriana secondo la quale "il problema dell’esistenza non può essere posto in chiaro che nell’esistere stesso" (Essere e tempo, § 4) per ridefinire il concetto di Dasein a partire dal suo radicamento nel mondo come apertura "vitale" a esso, e che nel farlo si è servito degli strumenti concettuali della biologia. Ed è precisamente questo, ci sembra, lo spirito con cui Maldiney ha fatto propria e ha sviluppato la nozione weiszäckeriana di "atto biologico", questo originale concetto che si poneva come l’esempio di un pensiero finalmente in grado di rinunciare a risolvere l’"essere-nel-mondo" nei termini di una relazione soggetto-oggetto, ma che allo stesso tempo non ne ascriveva le prerogative ultime alla forma vuota di una soggettività trascendentale, né a un fondamento di carattere totalitaristicamente ontologico.

Se quella "piega entro cui l’io e il mondo sono originariamente intricati è la piega di un esser-ci" (Crisi e temporalità…, cit., p. 76), è perché l’esistenza è "avanti-a-sé", è "impossibile a intendersi come un che di positivo (Psicosi e presenza, pp. 69-70), è insomma — come mostrava Weizsäcker attraverso la nozione di Gestaltkreis — genesi immanente e perpetua di quel presente che sono le sue forme, le forme di un "essere-al-mondo" che coincide con l’"avvento del mondo".

In conclusione, ancora qualche breve considerazione più specifica in merito alla traduzione di questi saggi di Maldiney. Nelle brevi citazioni che abbiamo riportato, infatti, ci siamo permessi di operare qualche variazione rispetto alle scelte terminologiche di Leoni. Si tratta di piccole modifiche che risultano essere tali più rispetto al linguaggio scelto dal curatore dell’edizione italiana che a quello di Maldiney stesso, di cui abbiamo preferito mantenere la "letteralità" in ragione della prospettiva secondo cui abbiamo inteso rileggerne i testi, e che si è voluta attenta all’"assonanza" concettuale fra questo autore e la corrente biologico-fenomenologica all’interno della quale ci è sembrato giusto collocarla.

Nel primo caso, si tratta di un avverbio: Maldiney afferma — in un passaggio relativo alle caratteristiche dell’esistenza schizofrenica — che il rapportarsi al tempo nasce "de l’événemement qui est à chaque fois avénement du monde" (p. 81 dell’ed. fr.), mentre Leoni traduce quel "à chaque fois" con l’avverbio "sempre" (p. 69), ciò che inspiegabilmente non avviene, invece, nell’occorrenza successiva di questa espressione (p. 76). A costo di sembrare pedanti, ci è sembrato di una certa importanza cercare di mantenere la sfumatura che Maldiney imprime proprio a tale caratterizzazione del tempo, giacché attraverso di essa egli intende mostrarci il carattere "perpetuamente" in fieri del tempo stesso, quella sua "origine" che non si cela in un "sempre" di carattere quasi ontologico, ma che è "originaria" solo in quanto "presente-origine". E Maldiney lo spiega espressamente, d’altronde, nel momento in cui mostra come la temporalità dell’esistenza in quanto transpassibilità si distingua dall’esistenza schizofrenica proprio in virtù di questo carattere perennemente "originario" dell’esistere. Ciò che definisce la temporalità dello schizofrenico, invece, è esattamente il fatto che il tempo "non è più fondato sulla perpetuità di un presente-origine, capace di accoglimento inaugurale o di inaugurale decisione", ma sulla staticità che è la fissazione di quel presente dell’ogni volta in un "presente-limite" (p. 62). Più in particolare, nell’ottica che abbiamo cercato di delineare in queste pagine, ci è sembrato che il rendere l’"ogni volta" maldineyano con un "sempre" di più immediata assonanza heideggeriana, non rendesse ragione di quel forte riferimento alla nozione weizsäckeriana di "atto biologico" che Maldiney richiama esplicitamente per definire la sua stessa concezione dell’esistenza come transpassibilità. Ed è interessante sottolineare come quell’ogni volta venga impiegato da Weizsäcker proprio nel momento in cui egli si trova a delineare il contorno di quel mondo che per lui non può essere che un "mondo effettuale" che si forma ogni volta come attualità, come "presenza sensibile" (La struttura ciclomorfa, tr. it. a cura di A. Masullo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, p. 37). Ma non solo. Anche Binswanger fa ampio uso di questa espressione, e proprio per definire — il che può apparire a prima vista contraddittorio — come i "momenti strutturali costitutivi a priori" che la Daseinsanalyse ha il compito di "diagnosticare" costituiscano l’architettura "di ciò che è ogni volta il tutto del mondo dell’essere-nel-mondo" (Sulla fuga delle idee, cit., p. 197). Così — egli afferma — se è vero che, heideggerianamente, l’uomo "è già sempre gettato" nel mondo, tuttavia questo "mondo" su cui fa presa la Daseinsanalyse è una "totalità di significato" che è tale solo in quanto l’uomo vi "vive" "in quanto questo uomo che ogni volta si trova, si comprende, si preoccupa in tale modo" (ivi, pp. 73-74).

Si comprende allora, in questo modo, il significato del tutto peculiare che il riferimento all’"ontologia" riveste per la "fenomenologia" che Maldiney traccia attraverso questi autori, un’ontologia alla quale, con Heidegger, davvero resta poco in comune, e della quale proprio Binswanger aveva fissato in modo pregnante i tratti, accostandola alla Daseinsanalyse non per assegnarle il compito di un’interrogazione filosofica radicale, ma solo come termine oppositivo rispetto a un’indagine sull’"essere-nel-mondo" intesa nei termini di "logica" e "teoria della conoscenza" (Accadimento ed Erlebnis, tr. it. di E. Filippini, in Per un’antropologia fenomenologica, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 346).

Si comprende, inoltre, il significato anzitutto metodologico che Maldiney assegna al riferimento psichiatrico alla "fenomenologia", a questa "corrente" della filosofia alla quale già Lantéri-Laura — proprio in Francia, sin dall’inizio degli anni sessanta — aveva assegnato il carattere più di un’"attitudine" che di un’ortodossia e rendendola in tal modo compatibile non solo con la psichiatria, ma con le stesse scienze biologiche. Ed è proprio quest’ultimo riferimento a darci il la per accennare alla seconda variazione terminologica che ci siamo permessi di operare sulla traduzione di Leoni. Si tratta di un passaggio in cui Maldiney sottolinea precisamente l’attitudine secondo la quale la sua prospettiva filosofico-psichiatrica intende avvicinarsi alla psicopatologia. Egli sostiene, dunque, che "au lieu de lui [allo psicotico] appliquer les normes d’une "sagesse acquise ailleurs", nous cherchons à mettre en évidence, pour le faire nôtre, le questionnement immanent à son existence en question" (p. 7 dell’ed. fr.). È su quell’aggettivo, "immanente", che Maldiney utilizza quasi a mo’ di avverbio, che vorremmo soffermarci, giacché la traduzione italiana sembra non essersi accorta del valore metodologico che esso riveste all’interno del saggio, dal momento che lo rende con: "portare all’evidenza e far propria la domanda che si nasconde nella sua esistenza in questione" (pp. 4-5). La precisazione ci sembra tanto più significativa nella misura in cui, poche righe più sopra, Maldiney sostiene precisamente l’impossibilità, per la sua ottica, di "partire da una definizione a priori dell’esistente" per definire il "senso dell’esistenza" (p. 4). Ecco allora che in questo modo si chiarisce ulteriormente il significato ma soprattutto il valore, dicevamo, che la "fenomenologia" acquista per la ricerca psichiatrica in generale, e in particolare per quella di "marca" francese, una ricerca che del procedere fenomenologico ha apprezzato anzitutto la capacità di trovare nella realtà stessa il principio della sua giustificazione, a prescindere da qualsiasi "saggezza acquisita altrove", fosse essa di carattere oggettivo-naturalistico, "ermeneutico" oppure "ontologico". Come sosteneva Lantéri-Laura, insomma, dalla fenomenologia — "in quanto medici" — "ce n’est pas une doctrine philosophique que nous attendons, mais plutôt un renouvellement de nos moyens cliniques d’investigation" (La psychiatrie phénoménologique, Paris, PUF, 1963, p. 8).

ELISABETTA BASSO

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