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EGIDIO PRIANI

AUSCULTUM

INTRODUZIONE

Il lavoro che presentiamo ha per oggetto l’ascolto; più precisamente, muovendo da una prospettiva storico — epistemologica, prende in esame le diverse configurazioni che l’ascolto è andato assumendo nel corso della storia delle pratiche psichiatriche e psicoterapiche.

Figura filosofica e al contempo postura clinica, l’ascolto che viene qui messo a tema tenta di riconoscere, nella sua storia, le sue perdite e i suoi rischi : la storia epistemologica dell’ascolto della sofferenza mentale è una storia che passa attraverso scarti teorici, cambiamenti di direzione dei saperi, metamorfosi antropologiche, salti all’indietro e fughe in avanti delle pratiche e delle conoscenze, deragliamenti di paradigma, recuperi di senso; giunge infine sino a noi dopo aver percorso quelle medesime tortuosità che hanno contrassegnato la disciplina psichiatrica dalla sua nascita ai nostri giorni.

Ciascuno di questi passaggi ha impresso un cambiamento nei significati attribuiti all’ascolto, un suo dis-locamento, più spesso una rarefazione del suo volume di senso; la rottura più radicale si consuma nei confronti dell’ascolto delle origini: con il definitivo instaurasi del logos razionale, delle differenze tra uomo, dio e mondo, tra coscienza soggettiva e oggettività istituita quale sua emanazione; in ultima analisi con l’affermazione della razionalità scientifica, vanno perdute quelle essenziali dimensioni simboliche e antropologiche dell’ascolto che sono caratteristiche di civiltà e visioni del mondo pre razionali, mitologico - religiose o altrimenti definibili orali o bicamerali, che precedono l’avvento del dualismo soggetto — oggetto.

Intorno a questa perdita ed alle successive, intendiamo avvicinare lo sguardo e, naturalmente, l’ascolto, liberando però preliminarmente il campo dai possibili fraintendimenti che queste pur brevi note potrebbero già avere indotto: nella nostra ricerca non intendiamo dare spazio a nostalgici ritorni a presunte "età dell’oro" o a ripescaggi ingenui e anacronistici di "pezzi" di storia da idealizzare; ancora meno spazio vorremmo concedere ad atteggiamenti "antiscientifici".

Tuttavia non va sottaciuto che la storia dello sviluppo dei processi conoscitivi è contrassegnata da chiaroscuri, da linee di continuità e di rottura: a fronte di nuove acquisizioni, a fronte del guadagno di nuovi saperi e paradigmi, parti più o meno decisive dei precedenti assetti teorici vengono obliate, assorbite in un cono d’ombra; riportare alla luce taluni di questi luoghi, potrebbe forse riservare delle sorprese, contribuendo a rivitalizzare, ampliare e rinnovare il nostro sguardo sul presente.

L’ascolto della sofferenza mentale è il cuore del nostro interesse: la nostra attenzione è rivolta a quanto può potenziare, dilatare ed arricchire tale ascolto, ovvero a ciò che lo ostacola, lo coarta, lo paralizza; le nostre analisi saranno condotte con strumenti storico epistemologici ed antropologici, condividendo con le componenti più avvedute della scienza e della psichiatria contemporanea la convinzione che l’incontro qui ed ora con la sofferenza psichica possa aspirare ad accedere e ad esperire dimensioni forse inedite.

Nell’ascolto delle origini riteniamo di riconoscere un archetipo di ascolto mai più vissuto nelle epoche successive: l’uomo che precede l’avvento e la definitiva interiorizzazione della parola scritta, abita con i suoi simili uno stesso universo simbolico ed antropologico nel quale i significati, i valori, i vissuti, i riferimenti di senso, sono immediatamente condivisi; in questo stadio della civiltà che precede la nascita della soggettività e della coscienza, una sorta di empatia cosmica governa le vicende degli uomini, degli dei, del mondo, dove i confini tra queste tre dimensioni sono ancora mobili e fluttuanti.

La comunione e la reciproca coappartenenza ad un medesimo mondo fanno si che si crei unitarietà e pienezza di senso tra chi ascolta, chi viene ascoltato e ciò che viene ascoltato; in questa fase aurorale della nostra civiltà, l’uomo abita ancora il mondo e lo abita in maniera radicale in quanto sua parte, senza le successive mediazioni date dalle descrizioni razionali del mondo o da sue secondarie modellizzazioni.

Sarà proprio attraverso queste ultime che inizierà invece quel progressivo processo di selezione- riduzione e graduale contrazione dei processi di ascolto in cui il simile non ascolterà più il simile, ma l’uomo ascolterà l’altro uomo nelle forme e nei modi dati dal costrutto logico-razionale e storico sociale che lo istituiscono e che lo sovradeterminano. Tali costrutti porteranno in sé un proprio modello antropologico, saranno sottesi da una specifica e storicamente determinata idea di uomo.

Nel cuore della modernità iniziano a comparire le prime strutture manicomiali e la psichiatria inizierà ad istituire sé stessa quale branca specialistica del sapere medico.

L’ascolto del malato di mente viene qui sottoposto ad un duplice registro: da un lato, si rende necessaria la costruzione di categorie nosografiche attorno alle quali la nuova scienza medica si possa raccogliere ed agganciare per la sua legittimazione; tale processo non può che passare attraverso l’ascolto della follia e la sua osservazione all’interno delle mura asilari; dall’altro, la costruzione di un sapere attorno alla follia risponde ad istanze che poco hanno a che vedere con la conoscenza e la terapia dei disturbi mentali, obbedendo piuttosto ad esigenze di normalizzazione, repressione, controllo sociale: l’ascolto sarà identificato con i processi di presa sul folle e di produzione di un sapere su di lui finalizzato all’esercizio del potere sulla follia.

Sembrano così delinearsi, a partire dall’illuminismo e dalla fiducia nella forza terapeutica della scienza, due distinte opzioni di accostamento alla malattia mentale: l’una che sfocerà nel positivismo e nell’appiattimento della psichiatria sulla neurologia, ovvero nella riduzione della malattia all’organo; l’altra, definita romantica, che si lascerà contaminare dal contatto con la sofferenza psichica, che non è impermeabile allo stato d’animo e alle condizioni di vita dei pazienti, che cerca le connessioni tra circostanze della vita e disturbi: questi psichiatri dedicheranno infatti molto del loro tempo ad ascoltare le esperienze soggettive dei pazienti.

Di queste due visioni, la prima sarà di gran lunga prevalente è verrà definita biologica, nonostante la terapia morale continui a rappresentare sino alla metà del XIX° secolo l’unico strumento terapeutico di reale efficacia; con la riduzione dell’ umano al biologico, della malattia mentale a malattia cerebrale, del disturbo all’organo, introdotta dal metodo clinico — patologico, non solo l’ascolto viene declassato a variabile dipendente funzionale alla conferma degli assunti di causalità, ma è l’idea stessa di curabilità, di possibilità di trattamento che viene meno, aprendo così una stagione all’insegna del nichilismo terapeutico, della non speranza, dell’ineluttabilità.

Viene così smentito quello spirito illuministico e volontaristico che aveva animato la prima generazione di alienisti

Dalla sua nascita e sino ai nostri giorni, l’istituzione deputata al trattamento delle malattie mentali è percorsa dalla sua costitutiva e forse insormontabile ambivalenza: essa è al tempo stesso condizione di possibilità e condizione limite dell’ascolto; la scommessa di una psichiatria responsabile ed epistemologicamente avveduta, consiste proprio nel credere che tale limite possa essere costantemente spinto oltre, spostato in avanti, aprendo l’ascolto a nuove possibilità di espressione.

Lasciatasi alle spalle l’infamante stagione manicomialista, l’istituzione non cessa tuttavia di essere implicata in rinnovate ed inedite problematiche scientifiche e di patologia istituzionale, non cessa di essere potenzialmente istituzionalizzante: nella sua connaturata esposizione a derive antiterapeutiche, la grande posta che si gioca nella cornice istituzionale è rappresentata dal pluralismo identitario dei pazienti, dalla loro molteplice e sfaccettata personalità che, al di là dell’omologante e ottundente maschera della patologia, li caratterizza al pari di ogni essere umano; le risorse di umanità, di scienza e di cultura che l’istituzione saprà mobilitare, segneranno le sorti di questo pluralismo identitario, che potrà venire fagocitato dalle diverse forme di patologia istituzionale oppure valorizzato e rinforzato in prospettiva terapeutica. I limiti dell’ascolto istituzionale coincideranno anche con i limiti delle prospettive, delle visuali, dei vertici osservativi, delle possibilità immaginative, delle differenze, che una organizzazione ed un’equipe riescono a creare (poiein) e ad integrare, assumendole come un tutto attorno al paziente.

Quando intorno alla metà del ‘900 la stagione manicomialista inizia la sua fase declinante, si apre l’era "farmacologica" grazie alle prime rivoluzionarie scoperte in campo neurofisiologico: stagione per alcuni aspetti controversa e che tuttavia giunge ai giorni nostri con uno straordinario bagaglio di conoscenze sul funzionamento dell’apparato cerebrale; quest’ultimo lascia intravedere un prossimo paesaggio conoscitivo in cui i confini tra i saperi saranno sempre più fluidi e permeabili: ci riferiamo all’evoluzione delle scienze cognitive, della biologia, delle neuroscienze, della genetica, e della loro feconda integrazione con le tradizionali discipline della psiche: psichiatria, psicoanalisi, fenomenologia, antropologia. Le barriere che spesso sono state frapposte anche all’interno delle scienze psichiche perdono così ogni ragion d’essere e risulta finalmente incarnata e reale l’unitarietà e l’indivisibilità del sistema corpo/mente/cervello. Ma se l’attuale congiuntura scientifica è foriera di risultati incoraggianti, il percorso che l’ha preceduta non è stato sempre innocente: non tanto per lo strumento farmacologico in quanto tale, quanto per le tipologie di utilizzo a cui è stato piegato, per le proiezioni simboliche di cui è stato investito, per i diversi contesti che via via ne hanno segnato l’uso; come ci insegna la sapienza greca, il pharmakon può essere al tempo stesso rimedio o veleno: questa sua ambivalenza è sciolta dalla misura, dalla giusta proporzione, ossia dalla perizia con cui il medico saprà misurare e dosare la sostanza. Dall’avvento della psicofarmacologia, abbiamo invece di frequente assistito ad un alternarsi di posizioni oscillanti tra la demonizzazione del farmaco e la sua sopravvalutazione magica: posizioni ambedue cariche di riduzionismo e di ideologismo e soprattutto lontane dalla realtà del paziente; in quanto strumento, che, come tale, non è esente da forti limiti (secondo dati dell’OMS, circa il 30% dei pazienti affetti da diversi tipi di psicosi è insensibile al trattamento farmacologico), l’uso del farmaco non può essere scisso dall’ascolto del paziente, non può essere separato dalla relazione con la persona sofferente, non può essere disgiunto dai contesti in cui le condizioni di malattia prendono corpo e si esprimono.

Può accadere invece che la specifica natura del farmaco, le sue intrinseche proprietà e le peculiari modalità (ancora non del tutto conosciute) attraverso cui produce i suoi effetti, si prestino ad essere investite di un’aura magico-simbolica che catalizza su di sé le attese salvifiche di guarigione (sia del paziente che del medico); tutto ciò può indurre, anche inconsapevolmente, ed elidere la psicopatologia dalla realtà interna del paziente, dai suoi vissuti e dal suo mondo. Da qui, alla perdita delle dimensioni storico sociali, culturali ed ambientali della sofferenza psichica, il passo è breve: assistiamo così all’investitura del farmaco come assolutore simbolico; un tale processo di destoricizzazione può trovare incremento e potenziamento nelle fasi di stallo terapeutico, nei momenti di scacco e di crisi dello stesso terapeuta quando questi stenta a trovare strategie di cura alternative o quando smarrisce la sua capacità di autocomprensione metacognitiva: troverà allora nella farmacologia una via di fuga, una scorciatoia semplificatrice ed assolutoria.

Cedimento delle pratiche, riduzionismo e abbandono della prospettiva di complessità, destoricizzazione e decontestualizzazione delle affezioni morbose, indebolimento dell’atteggiamento ermeneutico, patologizzazione e psichiatrizzazione di problemi profondamente umani: sono queste alcune delle grandi aree di potenziale perdita e di rischio a cui va incontro l’ascolto della sofferenza nella prospettiva biologica; ad esse se ne aggiunge un’ulteriore parimenti significativa: la perdita dell’ascolto del delirio ad opera di un più che sollecito annichilimento farmacologico del delirio stesso; perdendo la possibilità di entrare in contatto con lo struggente e sconvolgente mondo delirante del paziente, viene meno per lo psichiatra una formidabile sorgente di comprensione dell’intero mondo del paziente che, nel delirio, disegna comunque una sua traccia di senso che chiede di essere ascoltata, accolta e compresa.

 

Nell’ascolto psicoanalitico e fenomenologico vedremo entrare più direttamente in gioco la relazione medico — paziente e le intenzionalità implicate nei rispettivi apparati teorici, la non neutralità di un ascolto pre-giudicato dallo sfondo teorico di riferimento, l’inaggirabile apriorismo da cui nessuna postura di ascolto si potrà, in epoca moderna, emancipare; definitivamente spezzato il legame originario tra chi ascolta e ciò che viene ascoltato (proprio dell’ascolto delle origini), nella relazione analitica e fenomenologia vengono messe a tema e si dialettizzano le polarità prossimità/distanza, immedesimazione/oggettivazione, intimità/neutralità.

Analizzeremo i tentativi operati da entrambe queste discipline di recuperare, in misura quanto più ampia, alcuni aspetti dell’ascolto delle origini rimanendo però entrambe prigioniere dei presupposti soggettivistici e coscienzialisti dai quali, per ragioni diverse, non riusciranno a liberarsi.

La psicoanalisi sarà contrassegnata dalla sua interna oscillazione tra l’energetica e l’ermeneutica - per dirla con Ricoeur -, tra l’insistita e fuorviante ricerca di un sigillo scientifico, tanto cara a Freud, e l’impossibilità di inscrivere la totalità dell’ incontro interumano nell’orizzonte della ragione calcolante; cercheremo dunque di seguire le tracce di alcuni pensatori, psicoanalisti e non, che hanno tentato di traghettare la psicoanalisi in un luogo altro. I dispositivi teorici anticipati dalla teoria freudiana sono ancora fortemente impregnati di causalismo meccanicistico, di positivismo e di sostanzialismo soggettivista e dunque, inevitabilmente, pre-giudicano la cifra dell’ascolto psicoanalitico; condotti in questo luogo altro, questi dispositivi cedono il passo a dimensioni di ascolto dal respiro più largo e che si avvicinano all’ascolto delle origini: oltre ad attraversare alcuni classici topoi della cultura psicoanalitica, come ad es. l’interpretazione , prenderemo in esame alcune figure particolarmente significative nel senso anzidetto, come quella dell’ abbandono, dell’ estasi, del vuoto (che affronteremo ulteriormente nella parte conclusiva), della maschera, figure accomunate dall’abdicazione del primato dell’io e dalla tensione a dislocare la psicoanalisi freudiana al di là della parabola post moderna del soggetto.

Dopo aver offerto un contributo decisivo nell’avviare questa parabola di decostruzione della coscienza soggettiva unitaria e fondazionale, dopo aver mostrato alla ragione calcolante l’intima duplicità che la anima e la governa, la psicoanalisi è rimasta impigliata nei suoi stessi irrisolti grovigli teorici e pratici, in quell’anomalo e mai sciolto statuto di scientificità cui ambiva e a cui ha dovuto però pagare un pesante dazio: l’impossibilità di accedere pienamente all’essenza dello psichico, perché nelle profondità che ascolta rischia di ritrovare l’eco della propria stessa voce.

Analoga sorte, per ragioni diverse, è toccata alla fenomenologia: la sua declinazione analitico-esistenziale ha forse rappresentato il tentativo più riuscito ed epistemologicamente avveduto di ascoltare la sofferenza alle sue stesse fonti; prendendo le distanze da ogni forma di naturalismo, la fenomenologia e la psichiatria che ad essa si ispira è sguardo, prima ancora che sulla psicopatologia, sull’ essenza della condizione umana: letta come originaria apertura al mondo a cui l’uomo costitutivamente appartiene e che prende corpo nella spinta dell’intenzionalità.

L’ascolto fenomenologico trarrà sempre ispirazione dalla ricerca di un mondo comune con il paziente, di una Wirheit (per usare una espressione di D. Cargnello) atta a cogliere l’intima essenza della sofferenza psichica, i principi che la informano, le matrici essenziali da cui prende le mosse: la considerazione del vissuto del paziente sarà prioritaria e parimenti fondamentali risulteranno le attitudini empatiche e di immedesimazione esercitate dal terapeuta nei confronti del paziente; nel rapporto uomo-mondo e nella priorità assegnata ai vissuti soggettivi, al mondo interno dei soggetti sofferenti, possiamo riconoscere gli assi portanti dell’impianto fenomenologico.

Ciononostante, vedremo come nemmeno la fenomenologia riesca a sfuggire da quella che lo stesso Cargnello definisce "l’ambigua natura della psichiatria", la sua difficoltà a fare i conti con la scienza moderna, difficoltà sperimentata dallo stesso Husserl che, al pari di Freud, riesce solo in parte nel tentativo di oltrepassamento degli approcci scientisti ed oggettivisti alle discipline della psiche. Psicoanalisi e fenomenologia si trovano dunque accomunate in un paradosso, lo stesso paradosso che segna radicalmente la soggettività post-moderna e che ne traccia la declinante parabola: fondando il mondo ed il soggetto sul principio dell’anima, (o della coscienza nel caso della fenomenologia) tale principio si rivela in infondato; è la stessa profondità dell’anima che, come ebbe a dire il grande Eraclito, nella sua incommensurabilità, o nella sua insostanzialità, smentisce ogni fondamento.

Sarà dunque nell’esame della decisive figure dell’ epochè e dell’ intenzionalità, che potremo cogliere il residuo coscienzialista in cui inciampa la fenomenologia e che impedisce ad essa, al pari della psicoanalisi, di uscire dall’orizzonte della ratio occidentale e dall’ordine della rappresentazione. "Ascolto dunque vedo" potrebbe essere il motto fenomenologico, dietro il quale riconosciamo però sempre un ego ed una conoscenza in forma rappresentativa. E tuttavia vedremo come psicoanalisi e fenomenologia possano trovare, in rinnovate modalità di incontro con l’altro all’insegna dell’apertura simbolica ed ermeneutica, le vie per un loro stesso oltrepassamento.

La parabola dell’ascolto si avvia infine a concludersi, ma questo epilogo non può non trovare filosofia e psichiatria solidali e accomunate dal medesimo destino: in sintonia con la riflessione di D. Cargnello, la psichiatria potrà ripensare le sue categorie a partire da una profonda riflessione sulla condizione umana e sull’essenza dell’uomo e dunque necessariamente infittendo il suo dialogo con la filosofia e l’epistemologia; in questo senso, anche la psichiatria non potrà sottrarsi dal confronto con la radicale problematica della soggettività. Soggettività che siamo portati ad intendere come centro e fondazione di ogni possibile rappresentazione del mondo e che dovrà invece cedere la propria sovranità, dovrà imparare a guardare sé stessa con distaccata ironia e con disincanto, nella consapevolezza che questo "indebolimento" troverà il suo contrappunto proprio nell’ arricchita facoltà di incontro col mondo e con l’altro che abbiamo poc’anzi richiamato. Fedele al pensiero delle origini, la parabola che abbiamo inteso tracciare è nel segno della circolarità: la sua fine è al tempo stesso un ritorno al suo inizio; là abbiamo accostato una visione antropologica che ancora non conosceva le proprietà fondazionali della coscienza e che non conosceva l’io. Ebbene, nel buddhismo incontreremo un luogo diverso ma analogo che fa del vuoto di sé, dell’ assenza dell’io, del nulla di coscienza, il centro della propria riflessione e della propria pratica conoscitiva, la meditazione. Potremmo forse guardare con rinnovata curiosità interrogativa, al fatto che agli albori della nostra civiltà occidentale e pure al suo tramonto, si collochino i più "orientali" e i più "buddhisti" dei nostri pensatori, cioè Eraclito e Nietzsche; ma altrettanta curiosità ci viene sollecitata dall’incontro e dal connubio, tutt’affatto originale ed impensato, tra buddismo, scienze cognitive, biologia, quasi a dare un ulteriore e forte sigillo alla circolarità che abbiamo richiamato; l’ascolto troverà qui un duplice registro di applicazione, nella meditazione e nella pratica psicoterapeutica di ispirazione buddhista esercitata da M. Epstein. Avremo così modo di comprendere come, ascoltando il vuoto che ci abita, ascoltando la mancanza di un nucleo coscienziale unificante, ascoltando l’assenza di un centro che fonda e solidifica la nostra soggettività - e una volta superata l’inquietudine e l’effetto di destabilizzazione che la condizione di impermanenza porta con sé - si aprano alla persona spazi di reale liberazione e di più autentica e dilatata comunione col mondo e con gli altri esseri umani.

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