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MANIFESTO CONGRESSO

IX Congresso Nazionale della Società Italiana di Psicopatologia (SOPSI)
RUOLO CENTRALE DELLA PSICHIATRIA IN MEDICINA

Roma.
Hotel Hilton Cavalieri
24 febbraio - 28 Febbraio 2004

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IL CONGRESSO ON LINE - REPORT ED INTERVISTE ESCLUSIVE DALLE SALE CONGRESSUALI

QUINTA GIORNATA - SABATO' 28 FEBBRAIO 2004
I REPORT DALLE SALE CONGRESSUALI

LETTURA MAGISTRALE: Approcci farmacologici alla depressione resistente
Il prof. Scapicchio ha introdotto la lettura magistrale del Prof. Fava presentando il relatore al pubblico che affollava la Sala Cavalieri 1. Il Prof. Fava e' professore di Psichiatria ad Harvard, dove si e' specializzato in psichiatria, ed e' famoso per i suoi studi sulla depressione.
Il relatore ha esordito proponendo alcuni dati di letteratura sul numero di studi compiuti su soggetti depressi (piu' di 100.000) e su soggetti affetti da depressione resistente (solo 4000). Dopo aver proposto alcune definizioni di depressione resistente, ha quindi riportato un dato relativo alla sua incidenza globale: circa la meta' dei soggetti trattati con terapia antidepressiva non migliorera' dal punto di vista sintomatologico (sia per assenza di risposta, sia per sua parzialita') nonostante l'adeguatezza terapeutica in termini di dosi e durata del trattamento. I dati della letteratura possono talora essere inficiati da errori causati da problemi metodologici, specie nel caso di studi retrospettivi.
La diagnosi di depressione resistente puo' essere erroneamente aumentata da classificazioni diagnostiche sbagliate (ad esempio per l'inclusione di soggetti affetti da disturbo bipolare), dalla presenza di comorbidita' psichiatrica (specie disturbi d'ansia o abuso di sostanze) o medica, dalla presenza di sintomi psicotici, da fattori farmacocinetici (uso di induttori enzimatici o metabolismo geneticamente accelerato).
Il relatore ha quindi proposto una dettagliatissima revisione dalla letteratura relativamente alle quattro strategie che possono essere utilizzate in questo ambito: aumento della dose del farmaco, sostituzione del farmaco antidepressivo con altro farmaco della stessa classe o di altra classe, potenziamento mediante l'associazione con un farmaco non antidepressivo, associazione di piu' farmaci antidepressivi.

SESSIONE PLENARIA : OMICIDIO-SUICIDIO: TRA NORMALITA' E PSICOPATOLOGIA
Apre la sessione plenaria il prof. Romolo Rossi che continua a delineare la sua nosologia shakespeariana dell'aggressivita' iniziata nella sessione di mercoledi' scorso individuando in Otello il modello di aggressivita' rintracciabile nel fenomeno dell'omicido-suicidio. In Otello ritroviamo una emozione umana generale, vista dall'interno dell'interpretazione artistica. Un altro riferimento letterario suggestivo a riguardo, citato dal prof. Rossi, e' un verso di W. H. Auden, da "September 1939", "l'uomo a cui e' fatto il male, fa il male a sua volta", scritto in occasione dell'invasione tedesca della Polonia e quindi dell'inizio della seconda guerra mondiale. E' lo stesso principio dantesco di Pier delle Vigne: "L'anima mia, per disdegnoso gusto/ credendo col morir fuggir di sdegno/ ingiusto fece me contro me giusto". Si tratta di una prodigiosa sintesi linguistica e poetica dell'amore-odio che e' all'interno della dinamica dell'omicidio-suicidio. Egli non ha tollerato che la maldicenza abbia fatto si' che il suo re, Federico II, lo abbia ignorato e disprezzato.
Freud, in "Lutto e melanconia", sostiene che quando perdiamo un oggetto in cui abbiamo investito molto in termini libidici, siamo in lutto. Ma ogni perdita deve essere recuperata per via narcisistica con l'introiezione e il rivolgimento su di se' della libido. Cosi' l'aggressivita' rivolta verso l'oggetto segue l'oggetto introiettato e l'aggressivita' si dirige verso il soggetto. Freud dice a proposito che i lamenti del melanconico sono in realta' accuse.
Quindi il suicidio avviene quando si associano l'attacco contro l'oggetto interno, cioe' l'odio furibondo per l'oggetto abbandonante e per tutti coloro che hanno permesso l'abbandono, e la ferita narcisistica con la relativa richiesta di risarcimento (A. Karenina, M. Bovary, Aiace). Percio' un doppio terribile ingrediente: perdita dell'oggetto e perdita dell'autostima.
Naturalmente il dealing in queste occasioni non riesce perche' interviene la negazione, che e' il principio di Don Chisciotte e che e' sempre presente nell'omicidio-suicidio. Ma il dealing piu' pericoloso e' il "mezzo fuori e mezzo dentro" che e' il principio di Otello, in cui l'oggetto non e' del tutto dentro e puo' essere aggredito sia all'interno che all'esterno in quanto proiezione e introiezione sono concomitanti. Nei versi di Shakespeare "I kissed thee ere I killed thee/ No way but this:/ Killing myself to die upon a kiss" ("Ti ho baciato finche' ti ho ucciso. Nessun altra strada: uccidermi per morire su un bacio") e' racchiusa tutta la psicopatologia e la psicodinamica dell'omicidio-suicidio.
Allora quale relazione vi puo' essere tra Otello e il kamikaze? Per ritrovare questo trait d'union secondo il prof. Rossi occorre:
-sostituire la gelosia (ferita narcisistica) con un intollerabile senso di frustrazione, d'ingiustizia subita (nessuno si uccide per una causa che sta vincendo, ma sempre per una che soccombe);
-applicare i due fattori: proiezione esterna dell'oggetto deteriorato e introiezione dell'oggetto deteriorato che deteriora il se', operazione mal riuscita con la contemporanea permanenza di entrambe;
e otterremo la distruzione del se' e del nemico, come in Otello, e questo permette di concludere che ogni suicida e' un kamikaze perche' ogni suicida ha la sua vendetta da consumare e una ferita narcisistica da sanare.
Interviene in seguito il Prof. P. Pancheri sul tema "Il kamikaze: la follia della normalita'", preceduto da un filmato che illustra la figura del kamikaze, dal 1944 in Giappone ai giorni nostri,con i bombers palestinesi, utilizzando brani storici e di cronaca di forte impatto emotivo.
La domanda che ciascuno si pone e': i kamikaze sono uomini normali o no?C'e' qualcosa di psicopatologico alla base del fenomeno?
Noi generalmente conosciamo 3 tipi di omicidio-suicidio: quello Clinico, in un contesto depressivo/delirante, quello Impulsivo, in un contesto emozionale/passionale e infine proprio quello kamikaze, in un contesto sociale/culturale, che a differenze dei precedenti non e' individuale, ma espressione di qualcosa di collettivo. Si definisce fenomeno kamikaze l'atto suicida finalizzato, attraverso l'uccisione di altre persone, ad ottenere vantaggi, veri o presunti, per il proprio gruppo di appartenenza.
Nello specifico, il "fenomeno K" ha una bassa incidenza assoluta (281 casi dal 1981 al 2001), ed ha clusters temporali ristretti (pochi mesi); e' quasi sempre espressione di un comportamento di gruppo (i singoli episodi sono rarissimi, ed espressione di psicopatologie classificate, per es. paranoia). Inoltre e' quasi sempre condizionato dal contesto socio-ambientale. Risulta specifico di gruppi ad alta coesione interna e con leaders carismatici (Zealots, Hashishianins, Martiri di Allah, Tamil Tigers—) e cerimonie. L'eta' si aggira tra i 16 e i 22 anni (finestra temporale tra 10 e 30 aa), il genere e' prevalentemente femminile, l'istruzione e' media, lo stato civile quasi esclusivamente single, lo stato socio-economico medio, ed e' sempre "volontario".
I terroristi suicidi apparentemente rispettano la distribuzione normale della popolazione nei termini di stato socio-economico-culturale e di tipo di personalita'. Nessuno e' senza istruzione, nessuno e' depresso, nessuno "simple minded", sembrano membri normali delle loro famiglie e sono profondamente religiosi. Puo' quindi il fenomeno k essere considerato psicopatologico? Si fa riferimento all'ammiraglio Takijiro Onishi, "padre" dei volontari suicidi della flotta aerea giapponese, che non fece missioni suicide, mentre assunse il compito per lui piu' importante di addestrare i kamikaze e che alla resa agli USA fece harakiri: in un discorso al suo reparto disse "Lo spirito di questo reparto terra' lontana dalla nostra patria la rovina", quindi una proiezione futura. Mentre l'ammiraglio Inuguchi, superstite, ricorda che nel '44 le probabilita' di ritornare vivi dopo una missione, di qualunque tipo, era estremamente bassa", e a posteriori disse: " Se qualcuno sa di essere destinato a morire, cosa c'e' di piu' normale di evitare uno stillicidio, ma causare il maggior danno possibile al nemico?"
Secondo un articolo apparso su Science sulla genesi del terrorismo suicida non c'e' apparente psicopatologia, e l'errore fondamentale degli psichiatri sarebbe di spiegare in termini di individuo quello che invece e' espressione della pressione di un particolare gruppo sociale. Casomai c'e' una psicopatologia di gruppo.
I criteri della psicopatologia classica applicati alla logica strategica dei terroristi suicidi (in termini di funzionamento del pensiero, di comprensibilita', di forma e contenuto del pensiero, di sofferenza soggettiva) sono scarsi o assenti per correlare ad un disturbo formale del pensiero. Puo' essere un delirio? E' un argomento delicato, si tratterebbe del raffronto tra la convinzione normale "La mia vita e' utile, me la devo tenere" e la convinzione eccezionale "La mia morte e' utile se causa morte di altri e vantaggi, a me, alla patria,—". Osserviamo i criteri psicopatologici del delirio in questo particolare caso: La certezza soggettiva e' costante, l'incorreggibilita' e' probabile, l'impossibilita'(falsita') non e' dimostrabile, l'autocentrismo e' in genere presente, la comprensibilita' e' in rapporto al contesto. Rispetto al DSM, il disturbo causa significante malessere clinico e compromissione nel sociale? Possiamo dire di no.
Consideriamo anche l'esempio della carica della cavalleria leggera Inglese contro i Russi armati di cannone a Bala Clava: una carica suicida con probabilita' (p) di sopravvivenza non nulla, infatti c'era una, anche se minima, probabilita' di salvarsi con gloria. Invece nel caso dei kamikaze la p e' uguale a zero, e noi non la comprendiamo.
Forse il confine sottile tra delirio o no e' nella probabilita' di sopravvivere?
Un altro sospetto e' che si tratti di una variante di Delirio Indotto (delirio psicotico condiviso), dovuto alla potente suggestione di un gruppo. Non e' facile qui fare distinzioni. Infine, potrebbe essere correlato ad un disturbo dell'affettivita'? Osservando l'emblematica foto di una madre kamikaze con in mano un fucile ed in braccio il suo bambino, ci accorgiamo che tutto questo va contro il programma della protezione della specie. Guardiamo lo stato emozionale del kamikaze: apparentemente non troviamo tristezza, depressione, hopelessness, ansia, panico o preoccupazione, e forse troviamo rabbia o ira. C'e' una strana discordanza affettiva tra quello che sta per avvenire ed il modo di viverlo delle persone. Forse e' un "delirio di eternita'" o "di onnipotenza"? Sono matti infine? Non abbiamo una risposta univoca. Il prof. S. Pallanti affronta il tema dei kamikaze giapponesi durante la seconda guerra mondiale, affermando che il fenomeno del "vento divino" nipponico non puo' essere facilmente accomunato ad altri fenomeni di omicidio-suicidio anche in territori di guerra. Non si potrebbe neanche fare una nosografia dei kamikaze giapponesi perche' diversi fattori concorrono nel determinare questo comportamento.
Il termine "kamikaze" (che condivide con l'originario "shinpu" la rappresentazione ideografica per definire un gruppo scelto di assaltatori-suicidi dell'esercito giapponese al termine della seconda guerra mondiale) nella mitologia giapponese designa il vento divino che per due volte salvo' il paese dall'invasione di Hubrai Khan. In realta' solo in Italia e' correntemente usato per riferirsi agli assaltatori-suicidi).
Il 20 ottobre 1944 la Forza Navale Imperiale nelle Filippine ha formato il primo Corpo Speciale di Attacco "Shinpu" che realizzano un attacco suicida con aerei. In seguito sono nati altri corpi speciali di attacco per altre missioni suicide. Un fenomeno quindi che per proporzioni richiede di essere contestualizzato in quelle condizioni e in quel paese. Bisogna pensare alle leggi militari vigenti che dal '38 imponevano a tutti i cittadini, uomini e donne, di difendere in armi il sacro territorio giapponese. L'etica del combattimento che discende dalla disciplina samurai non consente di rimanere in vita nel disonore, dopo un combattimento perduto. Cio' che e' irrinunciabile e' salvare l'onore.
Inoltre si era in un momento di grande propaganda militare in cui in ogni angolo del paese la notizia degli attacchi suicidi fu accolta con grandi entusiasmi, sia tra i militari che tra la popolazione civile, perche' si accettava che la guerra in quel momento fosse ormai perduta, ma si perdeva con l'affermazione di questo "vento divino" miracolistico.
I kamikaze venivano reclutati dai corpi speciali tra i volontari ma anche per assegnazione con un addestramento molto breve (due settimane) e approssimativo. Nelle canzoni popolari degli anni '30 e '40 ricaviamo il convincimento che questo atto potesse contribuire a salvare il territorio giapponese (a differenza dell'ottenimento del paradiso come ricompensa per il sacrificio nel terrorismo islamico odierno).
Le lettere dei kamikaze mostrano una sorta di rassegnata malinconia, una rassegnata consapevolezza di un compito fatale. Il tono non e' quello dell'esaltazione e dell'atto eroico.
Dal punto di vista piu' strettamente psicopatologico, il prof. Pallanti richiama il "suicidio altruistico" di Durkheim e Kraepelin, che ripercorrendo gli studi di Esquirol, mostra come solo il 30% dei suicidi riconoscerebbe alla base una specifica forma di insanita' mentale.
Nel background di questo complesso fenomeno si devono quindi prendere in considerazione i doveri di reciprocita', la forte appartenenza grippale, i doveri nei confronti degli altri legati alle religioni che in Giappone si sono sovrapposte, ma anche alcune peculiarita' biologiche. L'imperativo di questa cultura non e' amare il prossimo come se stessi, ma piu' di se stessi, e il kamikaze giapponese sentiva questo dovere morale, il codice etico dei samurai che impone di morire per il padrone e percepisce la vergogna, come tutta la cultura giapponese, in maniera molto sensibile. Andrebbe poi anche non scotomizzata, nell'interpretazione del fenomeno, l'etica del martirio e la religione. Scintoismo, buddismo, confucianesimo agiscono certamente come determinanti culturali.
Il contesto culturale potrebbe modulare anche alcuni aspetti dei disturbi dell'umore: per esempio il disturbo bipolare in Giappone potrebbe esprimere una forma fosca d'impulsivita'. C'e' inoltre l'identita' grippale. In alcune circostanze si puo' sacrificare il proprio DNA al DNA del gruppo. Il trasportatore della Serotonina (5-HTTLPR) nel 60% dei giapponesi e' espresso da un genotipo SS contro il 25% del resto del mondo. Da qui l'ipotesi che correla queste caratteristiche biologiche con certi comportamenti come la sensibilita' verso gli altri e l'impegno per mantenere l'appartenenza al gruppo.
Si puo' dire che in alcune particolari situazione emerga una psicopatologia, come nel caso di cronaca dell'ingegnere informatico che si fece uccidere e mangiare in maniera consenziente da un cannibale che aveva a tal proposito posto un annuncio su internet.
E' come se vi fossero moduli morali e comportamentali che emergono in situazioni particolari (cita il Sordi de "La grande guerra" di Monicelli). D'altra parte, anche a livello biologico, fenomeni come l'apoptosi o morte programmata cellulare senza risposta infiammatoria, modulata da specifici geni apoptosici che di fronte a situazioni stressanti attivano questi segnali di distruzione, potrebbe rappresentare un analogo del comportamento dei giovani kamikaze giapponesi della II guerra mondiale che forse sarebbe interessante approfondire. Il prof. D. Mainardi, etologo, interviene a proposito dell' "omicidio-suicidio: etologia del kamikaze.
Il professore sottolinea che vanno analizzati due tipi di comportamento: il suicidio e l'omicidio. Si puo' affermare che il suicidio in certi casi provoca l'omicidio. Questo e' dimostrato nella specie umana, ma si riscontra anche in altre specie. E' comune nella specie animale una forma di "suicidio altruista", perpetuato al fine di salvaguardare i geni della specie stessa.
Per esempio, esiste in natura una varieta' di formica che durante il combattimento ha la capacita' di far esplodere le sue ghiandole, uccidendo piu' di un nemico. In questo caso si puo' notare una somiglianza tra l'uomo (per esempio quei soldati biologicamente programmati per essere una bomba vera e propria) e questa specie animale. Ovviamente le strade si dividono subito, in quanto nell'animale non c'e' consapevolezza del gesto.
Procedendo analiticamente Mainardi parla dell' evoluzione della consapevolezza e della necessita' di creare un aldila', della capacita' di immaginare quest'aldila', del contesto sociale, delle culture e dei riti, e infine della cosiddetta pseudospeciazione.
E' dimostrato che mammiferi e uccelli, o per lo meno alcune specie di questi, hanno una certa consapevolezza di se', e del proprio comportamento sugli altri. Alcuni animali, come la volpe, addirittura riescono a manipolarne il comportamento. Esistono specie in cui esiste una consapevolezza della morte, intesa come la morte altrui, di un figlio o un genitore, in cui pero' manca la consapevolezza della propria morte. Solo l'uomo e' in grado di comprendere che la morte e' un evento inevitabile, di cui tutti saremo prima o poi partecipi. E cosi' solo l'uomo e' in grado di costruirsi un aldila', in cui la vita puo' continuare in qualche modo.
Il senso biologico della vita risulta essere il mantenimento della vita stessa, ogni essere e' segnato da una trama che pian piano evolve e a cui deve adattarsi. Il rifiuto dell'accettazione del proprio ruolo naturale e' tipico dello sviluppo di un "ego".
Ma, allora, la realta' e' che l'uomo e' solo un vettore di geni?
Da questa realta' nasce la credenza che esista una altro mondo successivo a questo, un mondo migliore. In quest'ottica il suicidio del kamikaze e' un atto eroico che regalera' a chi lo compie un mondo di delizie. Esistono due adattamenti diversi per duplicare il mondo: l'adattamento dell'insight, caratteristico di alcune specie evolute, capaci di organizzare relazioni spaziali e risolvere soluzioni complesse (palestra del cervello); percorsi alternativi per raggiungere la meta (mappa cognitiva). Ma rimane sempre e solo una prerogativa dell'uomo quella di immaginare un altro mondo.
In ogni contesto sociale esiste una guida, come nella disciplina militare, un leader, qualcuno che manifesti la sua autorita' e non solo la sua aggressivita', come invece accade nelle specie animali. In ogni contesto esiste una gerarchia di competenze, una gerarchia delle gerarchie, e cosi' una trasmissione "culturale" dall'infanzia all'eta' adulta di una sapienza che non e' informazione genetica o sperimentazione diretta, ma un sapere innovativo o conservativo che viene passato attraverso gli individui stessi.
Praticare ritualizzazioni crea un forte senso di appartenenza al gruppo, ha una forte funzione coesiva. All'interno del gruppo si crea una sorta di altruismo che permette di percepire come estranei coloro che ne sono al di fuori. Per questi motivi gli appartenenti a un gruppo, soprattutto di uomini, sentono gli uomini di altri gruppi come appartenenti ad altre specie. Il termini indigeno per designare diverse tribu' spesso significa proprio "Uomo", come a significare che chi non appartiene al gruppo non e' uomo e non appartiene alla specie.
Per sommatoria di tutti questi aspetti, il kamikaze ha una stigmate di umanita', e' cioe' normale in rapporto al contesto in cui vive da sempre.

SIMPOSIO: VALIDITA' DEL SOGNO NELLE TECNICHE PSICHIATRICHE
Questo interessante ed articolato incontro si apre ,seguendo un percorso logico, con l'intervento del prof. G. Roccatagliata sulla Storia dell'Interpretazione dei Sogni.
Il sogno,in qualunque ambito lo si voglia considerare, psichiatrico, neurologico o magico-superstizioso, e' sempre e soprattutto un rapporto a due: psichiatra-neurologo/malato; interpretante/cliente ecc—
Si tratta sempre di un fatto sacro, in cui la gente ha sempre creduto fortemente.
In questa giornata abbiamo iniziato ad affrontare il problema centrale del sogno nella civilta' classica. Esso e' considerato un elemento predittivo sia di malattia che di eventi futuri.
Plutarco disse che l'umanita'nelle caverne, povera ed annichilita, si creo' divinita' buone, a cui innalzare templi per ottenere concessioni, rese note attraverso i sogni. In seguito Asclepio soppianto' il culto della grande madre, e costitui' gli Asclepiadi, interpretatori del sogno a scopo terapeutico. Ippocrate in seguito si inseri' su Asclepio, negando la facolta' di interpretazione dei sogni da parte di maghi, sacerdoti, imbroglioni e riservandola al medico. Nel sogno, affermo', il corpo e' deafferentato dall'anima: esso dorme ma l'anima resta vigile e si infila tra gli organi, percependone piccoli indizi di malattia. Nella visione di Platone invece il sogno e' mandato dalla divinita': esiste un mondo delle Idee, ed un demiurgo ,che ci mette in rapporto con esso: il manda direttamente i sogni, che rispecchiano la vita intima dell'anima.
Questo non e' vero invece per Aristotele: il sogno e' un disordine del sensorio comune, viene meno la sintesi dell'intelletto, e puo' dare sintomi predittivi sulle future malattie.
Secondo Eraclito di Efeso il sogno manifesta la verita' interiore, il sogno e' la vera luce di se'.
Democrito al contrario porto' una teoria dei sogni avvalorata dagli Atomisti della cultura medica: nel cervello ci sono canalicoli (oggi diremmo le sinapsi) in cui camminano corpuscoli (neuroni), che si scontrano tra loro; toccano i leptomeri e in rapporto alla velocita' dei colpi ed alle aggregazioni si creano degli schemi/ombre, che sono poi i sogni; si tratta pero' di aggregazioni casuali di puri simulacri, senza alcun valore predittivo.
Segue la prof.ssa A. Berti con una relazione sul Sogno come predittore di comportamenti.
In tale ambito ci si ritrova in balia delle correnti, tra la spiegazione pre-scientifica di Artemidoro e la sua "Spiegazione dei sogni" (in particolare il sogno di Alessandro Magno), la decifrazione ipo-scientifica degli Egizi con il "Libro dei Sogni ieratico", alla base della radice popolare del sogno decifrato con criteri fissi, e la scientificita' neurobiopsicologica con le teorie di A. Hobson.
Insieme a Freud riapriamo il libro dei sogni, e analizziamo le tendenze prospettiche del sogno, con Presentimento onirico avveratosi (1899) e L'Interpretazione dei sogni (1900) con i concetti di sogno premonitore (visione), profezia in sogno (oracolo) e soprattutto del sogno come appagamento di desiderio (proiettato nel passato). Inoltre consideriamo Sogno nel Folklore (1911) e Sogno come mezzo di prova (1921).
Queste le parole dello stesso Freud :" Dimostrero' che esiste una tecnica che consente di interpretarre i sogni, e che applicando questa tecnica ogni sogno si rivela come una formazione psichica densa di significato".
Prendendo ad esempio il Sogno Premonitore (Sogno di Serse) possiamo dire che il sogno finisce quando il desiderio si concretizza; altrimenti si perpetua, ed abbiamo il sogno ricorrente.
Infine, si porta il confronto tra il sogno del piccolo Hans ed il sogno di Raskolnikov: Hans vede interpretata la sua aggressivita' mediante il padre e Freud e per quanto si sa guarisce dal sintomo, mentre Raskolnikov agisce e concretizza l'impulso omicida sognato. La domanda che possiamo porci e' "Se Raskolnikov avesse avuto la sua interpretazione, avrebbe infine ucciso?". In quest'ottica possiamo intendere l'interpretazione del sogno come mezzo preventivo?
Il terzo intervento e' quello del Prof. Verde, professore associato di Criminologia, sul tema "Sogni e perizie", che affronta natura, caratteristiche e possibile utilizzo dei sogni nel contesto delle consulenze tecniche d'ufficio. Viene considerata in particolare la problematica delle consulenza tecniche d'ufficio sull'affidamento dei minori in un contesto civile e penale. Sono state esaminate le produzioni oniriche di alcuni soggetti sottoposti a consulenza nell'approccio psicoanalitico, affrontando il "Sogno traumatico" inteso come tentativo della mente di padroneggiare l'evento intollerabile che ha fatto breccia nella barriera "antistimolo" attraverso la ripetizione dell'evento traumatico.
Segue il Prof. De Giacomo che espone un metodo di elaborazione dei sogni basato sul modello pragmatico elementare per migliorare la conoscenza di se stessi e della propria vita psichica in rapporto col mondo. Tale metodo ha ricevuto anche una sistematizzazione in un programma di computer in Windows.
Il Modello Pragmatico Elementare consente di far emergere dai sogni delle frasi che rappresentano punti di riferimento mentale da adoperare anche in campo professionale.
Esempi di frase derivanti dal metodo proposto si trovano nel libro (sempre del Prof. De Giacomo) "Manuale di Zen occidentale: la logica della saggezza". Le frasi scelte dai pazienti su questo libro possono costituire un specie di password della loro mente da usare in un approccio psicoterapico.
Conclude il simposio il Prof. Rossi sottolineando come l'utilizzazione del sogno in psichiatria possa essere molteplice, al di la' della teoria della tecnica e della prassi psicoanalitica, anche se non si puo' fare a meno oggi, in qualsiasi considerazione clinica del sogno, della teoria di base delle psicoanalisi. Tuttavia, e' possibile considerare il sogno come un certo tipo di comportamento, che puo'essere inquadrato da un lato, come un sintomo, e puo' servire di spunto per introdurre dimensioni diverse nel rapporto terapeutico. Piu' che sistematizzare le varie dimensioni del sogno, e' bene vedere, fa notare il Prof Rossi aiutandosi con alcuni esempi tratti dalla sua esperienza, come certi sogni esprimono in diversa maniera il quadro clinico del paziente, altri il movente del quadro clinico, altri ancora forniscono un linguaggio talmente particolare da comunicare un vissuto difficile. Bisogna sempre ben considerare come il sogno possa essere portatore della capacita' di "prevedere" una serie di eventi, cioe', in realta', di programmare una serie di avvenimenti.
Dote, in parte innata, del buon psichiatra e' quella di saper "raccontare" il sogno del proprio paziente, contestualizzandolo nella sua vita.

La paura degli altri: Ansia Sociale come dimensione trans-nosografica

Il simposio tematico e’ stato aperto dal prof. Rossi sulle note di una famosa canzone di Duke Ellington ("Nature boy"), occasione per presentare alcune riflessioni sul tema della shyness, i cui principi di fondo vengono identificati nella competizione, nella valutazione, nell’autostima e nella dipendenza dal giudizo degli altri. I principi fondamentali dell’ansia sociale (che della shyness e’ il rappresentante psicopatologico) sono individuati nella competizione estrema, nel senso di scacco, nel narcisismo (ovvero la ferita narcisistica di non vivere il proprio Se’ come valido indipendentemente dalla fattispecie del giudizio), nell’autogiudizio negativo autonomo. I meccanismi sono l’angoscia flottante, libera, la conversione (come paralisi o impotenza funzionale ("sono paralizzato dalla paura, dall’ansia …") e gli aspetti vegetativi (ereutofobia, effetti cardiovascolari, intestinali, …).

Si possono descrivere, poi, situazioni spcifiche, come nel caso del mutismo selettivo, dell’ansia sociale specifica (caso di un paziente seguito dal relatore, vicesindaco, che non poteva parlare durante i comizi se tra la folla scorgeva i suoi genitori) e di quella mirata (altro caso clinico di un pretore che, non riuscendo a dare lettura delle sentenze di condanna decise infine di cambiare professione divenendo giudice a latere).

Rispetto al tipo di contatto presente, poi, si osservano differenze rilevanti tra la timidezza (nella quale nonostante l’intensita’ dei sentimenti e’ presente un buon contatto), la sensitivita’ (con un contatto anomalo e narcisistico) e l’autismo (senza possibilita’ di contatto).

Sul piano dinamico la shyness deve essere riferita al principio dell’esposizione e dell’espulsione: queste persone non possono essere esposte, non possono uscire dal luogo chiuso che le contiene, con un parallelo tra interno ed esterno somatico e mentale, nella dinamica binaria dentro-fuori che e’ alla radice dei procedimenti del pensiero.

La shyness produce formazioni reattive importanti, quali l’ipersicurezza inadeguata, la loquacita’ eccessiva, l’ironia e l’autoironia fuori luogo.

Il prof. Hollander (New Jork) ha presentato un intervento nel quale ha mostrato come l’ansia sociale sia rintracciabile in diversi disturbi mentali, quali ad esempio il Disturbo da Ansia Sociale (Social Anxiety Disorder, SAD), l’autismo (ad esempio la sindrome di Asperger) ed il Disturbo da Dismorfismo Corporeo. Si tratta d’altronde di un sintomo che frequentemente si rileva nella popolazione generale.

Dopo aver preso in esame i dati della letteratura relativi al fenomeno, il relatore ha mostrato alcune scelte terapeutiche utili per il sintomo qualora esso si presenti nel quadro piu’ complesso del Disturbo da Dismorfismo Corporeo.

Il prof. Pallanti ha dapprima proposto alcune riflessioni di carattere generale sull’ansia sociale: si tratta di una dimensione che trascende l’individuo stesso a che appartiene alle cosiddette emozioni morali.

Nell’ambito della schizofrenia, contesto al quale il relatore fa riferimento nel suo intervento, la peculiare decifrazione dei messaggi produce una perturbazione emozionale che e’ stata variamente definita dai diversi autori (Wahnstimmung secondo Jaspers, Lamp fever per Conrad, Rottura del mit-dasein per Binswanger, Esperienza della fine del mondo per Borgna, Atmosfera del venerdi’ santo di Callieri, Panico prepsicotico di Arieti, Panico primitivo di Sullivan, Panico organismico di Pao). L’ansia sociale, che e ‘parte del reset cognitivo successivo al breakdown ed e’ presente sia all’esordio sia durante il decorso della malattia, comporta enormi difficolta’ nella quotidianita’ di vita del paziente, il quale la "racconta" come puo’.

Il relatore propone i dati di un lavoro di ricerca compiuto su un campione di soggetti affetti da schizofrenia seguiti ambulatorialmente e valutati mediante la somministrazione della scala di Liebowitz (LSAS) e presenta un breve filmato esemplificativo di un colloquio con un paziente del gruppo.

Il prof. Perugi ha concluso il simposio con un intervento dal titolo "Ansia sociale e Disturbi dell’Umore". Dopo aver spiegato in che cosa consiste la LSAS (Liebowitz Social Anxiety Scale), il relatore ha preso in esame il tema della comorbidita’ (soprattutto con Disturbi dell’Umore) che frequentemente si osserva in questo ambito e che rimanda ad una scarsa specificita’ dell’Ansia Sociale stessa. Sono numerosi i casi nei quali l’ansia sociale si associa al disturbo bipolare e per i quali probabilmente l’aumento di performance che succede ad episodi di abuso alcolico appare attribuibile piu’ al manifestarsi di un episodio ipomaniacale che ad un’azione diretta sull’ansia sociale. Analogo discorso puo’ essere fatto per gli effetti della somministrazione di antidepressivi, specie della classe I-MAO.

Sulla base di queste osservazioni si puo’ forse ipotizzare che alcune forme di ansia sociale possano essere ricondotte nell’ambito dello spettro bipolare ed essere considerate una fase o una particolare espressione fenotipica di esso (ove l’inibizione sociale rappresenterebbe l’equivalente della coartazione volitiva tipica della depressione bipolare).

Abusi sessuali e quadri psicopatologici correlati

Apre il simposio E. Aguglia con un intervento riguardante la pedofilia nell’ottica psichiatrica. Questa patologia, pur appartenendo alla nosografia psichiatrica, e’ una categoria ancora troppo poco esplorata, che ha il diritto di non essere ridotta al solo disturbo sessuale ma che deve essere inserito e valutato all’interno di una serie di funzioni psichiche quali l’affettivita’, gli istinti, la coscienza. Per una miglior interpretazione di questo problema e’ possibile rifarsi a modelli psicopatologici quali quello depressivo, l’ossessivo-compulsivo, l’addiction, il discontrollo degli impulsi….

B. Forresi nel secondo intervento, espone i risultati di una ricerca che ha come scopo quello di fare luce sulla psicopatologia dello sviluppo e abuso sessuale. Sono stati messi a confronto un gruppo di bambini abusati ed un gruppo di non abusati, e si e’ potuto constatare che il bambino che ha subito violenze non ha una sintomatologia ben precisa, ma ha una maggior probabilita’ di sviluppare ansia, depressione, scarsa autostima, aggressivita’ e comportamenti antisociali: le femmine sono piu’ soggette a manifestare comportamenti internalizzanti, i maschi comportamenti aggressivi.

Sono stati valutati anche gli effetti dell’abuso infantile nell’eta’ adulta e si sono osservati una serie di sintomi depressivi, disturbi d’ansia, comportamenti antisociali, disturbi da uso di sostanze, disturbi del comportamento alimentare, suicidio. Una percentuale di bambini abusati che va dal 21 al 49% e’ asintomatica. Per questi casi, alcuni autori hanno ipotizzato che non siano stati usati adeguati strumenti di misura.

Al trauma, c’e’ una risposta sia biologica sia psicologica, direttamente correlata al tipo di abuso, alla durata, ala frequenza, alla relazione con l’abusatore, alla forza fisica, all’eta’ del primo episodio di abuso…In Italia c’e’ un aumento dell’abuso sessuale perpetrato ai danni dei bambini da parte di soggetti minorenni.

E’ stato dimostrato che quando l’abuso sessuale e’ stato subito quando ancora e’ presente una certa plasticita’ neuronale, il sistema nervoso, nelle risposte allo stress rimane perennemente ipersensibile. La reazione peritraumatica puo’ compromettere l’esame di realta’, la comunicazione, le relazioni, la capacita’ di prendersi cura di se’, fino a portare a condotte suicidarie o di abuso. La violenza subita puo’ modificare la visione che il soggetto ha di se’ stesso, causare problemi nelle relazioni e, in eta’ adulta, puo’ alterare la visione del proprio ruolo genitoriale. In alcuni soggetti possono intervenire dei fattori protettivi, quali l’intelligenza, il temperamento sociale, buone capacita’ di coping….

Le conclusioni dello studio effettuato portano all’evidenza che le conseguenze dell’abuso sessuale vanno lette in un’ottica longitudinale, multidisciplinare, multiculturale, multicontestuale. Fondamentale e’ il potenziamento della ricerca atto allo scoprire fattori protettivi per una diagnosi ed un trattamento piu’ precoci.

G. Nicolais riportando alcuni dati relativi ad un campione di genitori seguiti presso "Il Tetto Azzurro" di Roma, struttura protetta per bambini di eta’ compresa tra 0 e 12 anni che hanno subito un abuso, pone l’accento su psicopatologia e genitorialita’. L’assetto familiare in questi casi e’ dissociativo, non solo per quanto riguarda il genitore abusante, ma anche per quello non abusante, verso il quale e’ presente un attaccamento disorganizzato, inoltre, esperienze traumatiche infantili costituiscono un forte fattore di rischio per lo sviluppo di condotte genitoriali segnate da insensibilita’ e distacco.

C. Della Rosa parla del concetto di "contesto" all’interno del quale si consuma l’abuso.

Secondo la definizione di Bateson del 1984, il contesto e’ "quella struttura nel tempo che da’ significato ai fatti e alle parole" ma e’ anche vero che per definire il contesto non si puo’ prescindere dalla relazione. Della Rosa afferma che non e’ cosi’ diretto il passaggio tra abuso e psicopatologia, e per valutare in maniera esaustiva ogni caso di sospetta violenza non ci si deve fermare alla valutazione delle caratteristiche comportamentali e sintomatologiche, ma bisogna effettuare una valutazione accurata del contesto relazionale in cui si trova il bambino. Segue la lettura di alcuni casi clinici.

Conclude l’incontro A. Balzotti che espone una brillante relazione sul clima incestuale come evento patoplastico nell’organizzazione patologica della personalita’ e nello sviluppo atipico dell’identita’ di genere. L’abuso sessuale causa quattro principali conseguenze nel bambino che lo subisce: depressione, comportamenti autolesionistici, problemi relazionali e sessuali, disturbi psichiatrici. I bambini che hanno subito violenza, spesso esprimono il desiderio di appartenere all’altro sesso,sia come reazione dissociativa a cio’ che e’ loro accaduto sia come fantasia riparativa. L’abuso non e’ mai soltanto fisico ma anche psicologico, e il clima incestuale accanto alla violazione concreta del corpo vede una corrispondenza nella violazione psicologica del corpo, che spesso portano a disturbi dell’immagine corporea, con relativa alterazione della sua rappresentazione. Raramente si giunge ad un vero e proprio disturbo dell’identita’ di genere ma spesso, tristemente, si giunge ad un’organizzazione patologica della personalita’.

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