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MANIFESTO CONGRESSO

IX Congresso Nazionale della Società Italiana di Psicopatologia (SOPSI)
RUOLO CENTRALE DELLA PSICHIATRIA IN MEDICINA

Roma.
Hotel Hilton Cavalieri
24 febbraio - 28 Febbraio 2004

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IL CONGRESSO ON LINE - REPORT ED INTERVISTE ESCLUSIVE DALLE SALE CONGRESSUALI

SECONDA GIORNATA - MERCOLEDI' 25 FEBBRAIO 2003
I REPORT DALLE SALE CONGRESSUALI

Lettura magistrale del Prof. J. Rosembaum “Behavioral Inhibition and the MGH longitudinal study of children at risk to develop anxiety and depression”.
Di un filone di studio importante, che ha impiegato l’osservazione di bambini con inibizione del comportamento per oltre 15 anni, citiamo solo alcuni dati: bambini con diagnosi di disturbo di panico o depressione mostrano nel 36% dei casi un comportamento inibito, di questi alcuni svilupperanno anche ansia sociale e ancora oggetto di studio è l’ outcome che avranno come adolescenti. L’ inibizione del comportamento correla con dati di neuroimaging (amigdala); inoltre bambini inibiti anche da adulti mostrano un’ iperattivazione dell’ amigdala agli stimoli nuovi.
Sono stati anche studiati correlati genetici di tali aspetti comportamentali, in particolare una serie di geni che mappano vicino al gene del CRH sembrano al riguardo promettenti.
Gruppi di studio hanno provato a verificare se un intervento precoce, prevalentemente di tipo psicoeducativo e cognitivo, rivolto ai bambini con disturbi d’ ansia e ai loro genitori potesse essere di aiuto. Al riguardo si è visto che tali interventi sono promettenti anche nel controllare l’ aumento di vulnerabilità che genitori ansiosi possono procurare premiando coping errati.
Il futuro di tale tipo di studi è indirizzato ora ad approfondire il comportamento disinibito e le sue eventuali associazioni con disturbi di tipo oppositivo, depressivo, e anche bipolare.

SESSIONE PLENARIA INTERATTIVA “VIOLENZA E AGGRESSIVITA’ IN PSICHIATRIA”
Apre la sessione plenaria di questa mattina il Professor Romolo Rossi con un intervento intitolato “Credo in un Dio Crudel” con un pezzo tratto dall’”Otello” di Verdi. L’aggressivita’ ha le sue radici biologiche che pero’ non bastano per comprendere fino in fondo certi comportamenti. Questo accade perche’ l’aggressivita’ ha dei percorsi diversi che trovano una profonda radice mentale nell’ l’abbandono e nella sua arcaicita’.
Si puo’ fare una distinzione in :
Aggressivita’ originaria: la nascita rappresenta il primo grande abbandono ( aggressivita’ orestea)
Aggressivita’ per necessita’ : rappresentata dal seno materno.
Aggressivita’ per rivalita’: il crimine edipico.
Il comun denominatore dell’aggressivita’ e’ il narcisismo: ogni volta che viene posto un ostacolo alle istanze narcisistiche, nasce l’aggressivita’.
Si puo’ cosi’ descrivere la nosologia dell’aggressivita’:
Principio di Stylock: aggressivita’ terribile ma lenta, sorridente, dilazionata.
Appartiene a questo tipo la vendetta sociopatica in cui l’aggressivita’ emerge quando la causa scatenante non si vede piu’.
Principio di Bruto: aggressivita’ espressa come invidia. L’invidia sta al di la’ della vendetta e distrugge l’oggetto dell’altro anche quando serve a noi stessi. L’ambizione riassume tutto: l’invidia puo’ esplodere, e in questo caso possiamo trovarci di fronte ad un assassino potenziale, ma piu’ frequentemente implode dando origine alle malattie somatopsichiche.
Principio di Amleto:comportamenti dissociativi o disintegrativi. Il trattamento dell’aggressivita’ qui e’ fallito (Amleto ha ucciso Polonio, padre di Ofelia) e ha dato origine alla dissociazione, con perdita del sentimento di proprieta’ degli atti di coscienza. Nella pratica quotidiana lo si puo’ vedere nelle attitudini maldestre, nella sbadataggine distruttiva, negli incidenti gravi, nei suicidi submeditati. Ne e’ un esempio anche il matricidio oresteo secondo Alfieri. La differenza e’ quantitativa, non qualitativa. All’esterno c’e’ la frammentazione e la disorganizzazione: aggressivita’ schizofrenica e reazione a cortocircuito.
Il trattamento nevrotico o normale che tutti noi mettiamo in atto contro l’aggressivita’ comprende: la formazione reattiva, passando attraverso l’ossessione, il riguardo, la gentilezza…il rovesciamento dell’opposto,con il quale si va dalla stupidita’ nevrotica alla moralizzazione, la razionalizzazione degli impulsi con comportamenti svantaggiosi e dimensioni improprie; l’annullamento: eccessivo undertaking, inerzia oblomoviana, per finire con una proiezione oculata dell’aggressivita’ consistente nella maldicenza.
Principio di Catone: rappresentato dalla sublimazione, soluzione economicamente piu’ vantaggiosa che troviamo in espressioni artistiche come l”Inferno” di Dante, “Il Giudizio Universale” di Michelangelo, oppure nei grandi ideali, nello svolgimento di importanti professioni….
Il secondo intervento, dal titolo “Il crimine violento e’ un disturbo psicopatologico?” e’ tenuto da R. Brugnoli
Alcuni studi effettuati negli Stati Uniti, in Canada e in Nord Europa hanno dimostrato una certa correlazione tra comportamenti omicidi e disturbi mentali.
Ci sono alcuni criteri per la definizione dei disturbi mentali: -Disfunzione biologica, disfunzione sociolavorativa, scolastica, sofferenza soggettiva e arrecata agli altri, deviazione dalla norma sociale. In futuro, il DSM V, non sara’ orientato verso rigidi criteri nosografici ma su fattori generici, biologici, di brain imaging, che permetteranno di caratterizzare meglio i disturbi.
Esistono varie ipotesi sulla ereditarieta’ del crimine, le principali vertono sullo studio di cromosomi sessuali, su gemelli dizigoti ed omozigoti. Sono state effettuate ricerche sull’influenza che il testosterone ha sul comportamento criminale. L’ormone maschile media la tendenza a dominare ed un suo aumento e’ legato all’aggressivita’ intenzionale e non intenzionale. L’ipotesi neurotrasmettitoriale sostiene che la riduzione dell’attivita’ serotoninergica e’ associata a comportamenti devianti, mentre studi di brain imaging hanno rilevato una “ipofunzione” della corteccia prefrontale quando scatta la reazione aggressiva.
Alla domanda “il comportamento criminale puo’ essere considerato un disturbo psichiatrico a se’ stante?” Brugnoli risponde positivamente per quanto riguarda la possibilita’ di includerlo nei criteri del DSM IV, per la presenza del substrato biologico, di una certa ereditarieta’, per la presenza di alterazioni ormonali e neurotrasmettitoriali, ma aggiunge anche che la variabilita’ nel tempo, l’eterogeneita’ della definizione del termine “crimine” , e il concetto stesso considerato come costrutto sociale ne impediscono l’inquadramento in una definita categoria nosografica.
A. Rotondo dell’equipe di Pisa ha presentato la relazione dal titolo “Dai comportamenti automutilanti al suicidio: correlati clinici e genetici dell’aggressivita’ autodiretta”, rispetto alla quale distingue le diverse condotte autolesive: suicidio, parasuicidio, automutilazione, quest’ultima intesa come comportamento cronico di danneggiamento tissutale priva di d’intenzione di morte, secondo la definizione di Feldmann del 1998. Le condotte automutilanti superficiali possono essere gravi o stereotipiche.
Rotondo intende differenziare i comportamenti suicidiari da quelli automutilanti, i quali possiedono in comune un substrato di aggressivita’ e sono spesso in comorbilita’ fra di loro, individuando nella condotta automutilante un atto teso al sollievo, e non alla morte, che partendo da uno stato di tensione in crescita continua, passa attraverso la ricerca della sua risoluzione, pervenendo ad una modificazione dello stato di coscienza. Individua due fattori, familiarita’ e “personalita’ a rischio”, i quali interagiscono fra di loro nel favorire disturbi mentali, abuso di alcool e di sostanze, stress, che hanno come punto di arrivo impulsivita’ ed aggressivita’; quest’ultima, quando transitoria, si esprime mediante il suicidio, se cronica da’, invece, luogo a comportamenti autolesivi. E’ stato effettuato uno studio che mette a confronto queste due categorie, anche nella situazione di comorbilita’, ponendo l’accento sul fatto che i T.S. dimostrativi non vanno assolutamente sottovalutati e sull’esistenza di un continuum ai cui estremi si situano un grado assai lieve ed uno molto alto di aggressivita’, che sfociano in comportamenti differenti; in persone con BLPD sono state rilevate alte percentuali di comportamenti automutilanti.
E’ stata proposta una patogenesi dell’impulsivita’ e si e’ applicata allo studio la strategia di partire dalla psicopatologia, afferire alla fisiopatologia (sistema serotoninergico), andando a ricercare dei geni polimorfici mutanti al fine di poter definire una mappa genetica. Risultato di tale procedimento è stata l’individuazione di due polimorfismi: il 5HTTLPR, associato in maniera abbastanza specifica con comportamenti di automutilazione, ed il TPH, associato invece al comportamento suicidiario. Termina il suo intervento richiamando l’attenzione sulla frase del famoso genetista Kendler, del 1997, secondo cui la definizione del fenotipo puo’ aumentare l’ereditarieta’ e puo’ ridurre l’eterogeneita’ genetica, ma non puo’ creare un “disorder mendeliano” da un “complex psychiatric disorder”.
Nell’ultimo degli interventi della mattinata F. Russo ha presentato i risultati dello studio E.P.I.C.A. in un contributo dal titolo “Aggressività e ricoveri psichiatrici”.
Si tratta di uno studio multicentrico realizzato in 15 SPDC distribuiti nel territorio italiano; sono stati reclutati, con arruolamento sequenziale a partire da un giorno predefinito) 728 pazienti valutabili, di eta’ media di 43 anni e con durata media del ricovero di 12 giorni. La valutazione comprendeva una raccolta dati strutturata, la somministrazione della scala BPRS (per i sintomi psicopatologici) e quella della scala MOAS di Kay e coll. (per l’aggressivita’, con la distinzione in 4 diversi domini: aggressività verbale, verso le proprieta’, verso se stessi, verso gli altri) e veniva ripetuta giornalmente nei primi 7 giorni di ricovero. I pazienti venivano anche inquadrati secondo categorie diagnostiche tradizionali (ICD-9) e pragmatiche (suddivisione in tre grandi cluster: spettro schizofrenico, che comprende anche i disturbi i personalita’ del cluster A; spettro dell’umore; spettro dei disturbi di personalita’).
I risultati hanno messo in evidenza punteggi medi della scala MOAS piuttosto bassi (2.53 su un range da o a 40) ed in trend in discesa dell’ingresso alla dimissione, con una diminuzione molto marcata nel primo giorno (“effetto ricovero”). I dati mettono anche in luce che i pazienti per i quali si e’ assistito ad un aumento dell’aggressivita’ nel corso del ricovero sono prevalentemente affetti da disturbi di personalita’.
La prevalenza di aggressivita’ al tempo 0 e’ stata stimata intorno al 33%; solo il 13.5% dei soggetti ha messo in atto agiti aggressivi verso altri che hanno comportato lesioni personali e per lo piu’ hanno riguardato pazienti con diagnosi di spettro schizofrenico, per i quali si e’ fatto ricorso piu’ di frequente al ricovero in regime di TSO.
I punteggi alla BPRS sono andati progressivamente diminuendo, in modo indipendente rispetto alla presenza del fattore aggressivita’, con un decremento del 10-20% dall’ingresso alla dimissione. Rispetto agli interventi messi in opera in risposta al comportamento aggressivo, i dati a disposizione non mostrano significativi tassi di utilizzazione di metodi di tranquillizzazione rapida (farmacologia) o di contenzione meccanica.
Dal confronto della distribuzione geografica dell’aggressivita’ si deduce una maggior incidenza di comportamenti aggressivi al tempo 0 negli SPDC cittadini (Sesto San Giovanni, Firenze, Roma e Napoli).

La presa in carico di pazienti autori di reato: nuovi percorsi di cura
Il primo relatore del simposio, il Dott. Peloso, ha presentato una relazione (realizzata insieme al Dott. Pirfo) sull’esperienza di consulenza psichiatrica in carcere realizzata a Torino ed a Genova, confrontando i dati dei due campioni e sottolineando le differenze. A Torino (carcere Le Vallette) esistono luoghi specifici e differenziati per la cura dei pazienti psichiatrici: si tratta delle aree di osservazione e trattamento, con 30 posti letto ciascuna.
A Genova (carcere Marassi), invece, non esiste alcun luogo “dedicato” ed i pazienti che necessitano di assistenza vengono ospitati presso il centro diagnostico-terapeutico del carcere, “contendendo il posto a soggetti affetti da malattia fisica”. Questo dato è indicativo della globale arretratezza del progetto genovese in confronto a quello di Torino, anche per importanti difficolta’ di finanziamento e consente di comprendere la complessita’ dell’agire psichiatrico in un contesto peculiare e con modalita’ precarie (“mordi e fuggi”), ove l’invio all’OPG spesso diviene l’unica strada percorribile. Altri dati, invece, mostrano una realtà piu’ omogenea; l’eta’ media si situa in entrambi i campioni intorno ai 40-45 anni e la nazionalita’ dei soggetti vede una prevalenza di italiani, con percentuali tra il 20 ed il 40% di extracomunitari. A questo riguardo il relatore esprime una riflessione sul ruolo del carcere non solo quale risposta al problema del reato, ma anche quale strumento di gestione dell’immigrazione clandestina.
Rispetto alle diagnosi, poi, i disturbi dell’umore sono i piu’ rappresentati (45%), seguiti da problemi aspecifici direttamente correlati con lo stato di carcerazione (ansia, insonnia) e dai disturbi di personalità (prevalente la tipologia borderline, mentre il disturbo antisociale di personalità si situa intorno al 6%); il disturbo schizofrenico si aggira intorno al 4% e la percentuale di soggetti per i quali si puo’ parlare di “doppia diagnosi” e’ piu’ elevata rispetto alla realta’ extra-carceraria.
Il dott. Peloso propone quindi alcune riflessioni di carattere generale relative al “pianeta carcere”: la detenzione è una situazione non fisiologica e, pertanto, ansiogena. Il carcere non introduce nuovi quadri psicopatologici, ma piuttosto peggiora quadri pre-esistenti ed è per taluni un luogo di contenimento. Il momento dell’uscita dal carcere (con la progettualita’ ad esso collegata) non puo’ essere gestito dall’operatore ne’ dal paziente e spesso segue logiche non comprese da entrambi.
In questo scenario il D. Lgs. 230/1999, garantendo il diritto dei detenuti alla salute ed alle cure anche psichiatriche (integrate con quelle extra-carcerarie e competenza del SSM), ha fatto sperare in un miglioramento dell’assistenza psichiatrica in carcere ed ha coinciso nel tempo con l’inizio della sperimentazione a Genova e a Torino.
La Dott.ssa Lorettu ha esordito sottolineando la relativamente recente attenzione della psichiatria nei confronti del comportamento violento del malato mentale. Nel suo intervento ha quindi preso in esame gli elementi indispensabili per riflettere e trovare strategie terapeutiche in questo campo. Innanzitutto è fondamentale l’identificazione del soggetto, cioe’ la conoscenza dei dati anagrafici, dei precedenti psichiatrici del paziente e dei familiari, dei precedenti giudiziari e delle sentenze precedenti, dell’ anamnesi medica.
Occorre poi conoscere anche dati relativi al comportamento violento: lo scenario (fantasie, alone che lo circonda, vissuti), le circostanze (uso eventuale di armi, violenza sessuale), le conseguenze (quali obiettivi sono stati colpiti ed eventuale rapporto di vittimologia), il luogo e i fattori associati, sia nel senso di precedente manifestazione di violenza o di esposizione o di violenza subita, sia nel senso di conflittualita’. Vanno anche messi in luce eventuali stress psicosociali scatenanti, utili per interventi preventivi. Infine la diagnosi psichiatrica formulata secondo il sistema multiassiale del DSM.
La relatrice ha quindi proposto un percorso diagnostico operativo (“albero decisionale”) strutturato in modo tale da consentire una diagnosi differenziale tra comportamenti devianti in senso stretto e comportamenti violenti legati alla malattia mentale. Infine è stata proposta una riflessione sulla necessita’ di un intervento terapeutico che abbia come “bersaglio” sia il disturbo psicopatologico rilevante (ad esempio il delirio), sia il comportamento violento di per se’.
Il Dott. Scapati ha presentato la sua relazione dal titolo “Il trattamento dei soggetti non imputabili: dalla pericolosita’ sociale alle misure trattamentali”. Dopo aver brevemente passato in rassegna i riferimenti di legge della materia (articolo 203 c.p. e legge 663), il relatore ha riferito le principali critiche che gli operatori del settore muovono, ormai da tempo, al concetto di pericolosita’ sociale, che per taluni andrebbe cancellato perche’ antiscientifico. La sentenza della Corte Costituzionale del luglio 2003 ha sancito l’illeggittimità di parte dell’articolo 222 c.p., richiamando il legislatore ad un profondo ripensamento delle misure di sicurezza (la sentenza prevede che in caso di paziente autore di reato affetto da disturbo psichiatrico per il quale sia stata dichiarata la pericolosita’ sociale, la misura di sicurezza possa venire sostituita dall’affido). Le soluzioni prospettate per risolvere questa questione vengono individuate nella riforma del codice penale, in una nuova previsione di ordinamento per i malati mentali (vedi Burani-Procaccini e dintorni) e, infine, nel principio di “imputabilita’ per tutti”, nel senso che se un malato delinque, egli ne risponde al pari degli altri. Il dott. Scapati si e’ poi soffermato sulla validita’ di definizioni quali “vizio parziale e totale di mente”: la prima risulta quella che meglio risponde alla realta’ clinica e peritale, mentre la seconda trova pochi spazi applicativi (demenza e stato confusionale in corso di psicosi).
In conclusione il relatore ha auspicato un passaggio dal giudizio di pericolosita’ sociale a quello di bisogno di trattamento, coinvolgendo le strutture territoriali di cura dei disturbi mentali e delle dipendenze patologiche.
Nell’ultimo degli interventi del simposio, il dott. Scarpa ha presentato un quadro sintetico della realta’ dell’OPG in Italia, fornendo dati relativi al numero degli internati (nel 2003 si sono registrate circa 1300 presenze), ai loro dati anagrafici, alla durata dell’internamento, alla diagnosi psichiatrica, alla tipologia dei reati commessi (nel 75% dei casi reati contro la persona, con il 45.7% di omicidi).
Sono numerose le critiche che, da decenni, l’opinione pubblica e gli addetti ai lavori rivolgono alla struttura OPG; un luogo destinato a soggetti affetti da disturbi psichiatrici, infatti, dovrebbe garantire il rispetto delle priorita’ della cura (e non della custodia), il mantenimento delle relazioni affettive e familiari, l’opportunita’ del lavoro, la garanzia della residenza, l’adeguatezza del luogo di cura, la presenza di risorse adeguate.
Il dott. Scarpa ha quindi presentato la realta’ di interventi di cura e riabilitazione all’interno dell’OPG di Montelupo Fiorentino, di cui e’ direttore, facendo riferimento al ruolo centrale del tecnico della riabilitazione psichiatrica in questo contesto. Da ultimo ha riferito i dati relativi alle dimissioni dall’istituto nel recente passato, precisando ai partecipanti che le dimissione puo’ avvenire con diverse modalita’ (revoca a termine, revoca anticipata, licenza finale esperimento, trasferimento in liberta’ vigilata) e che la recente sentenza della Corte Costituzionale gia’ ricordata non impedisce prescrizioni gestibili e modificabili, previo accordo del magistrato di sorveglianza, rivelandosi di fatto uno strumento piu’ duttile di quanto fosse previsto, anche se al momento non ancora largamento applicato.

SIMPOSIO TEMATICO. LA PATOLOGIA BORDERLINE: DISTURBO DI PERSONALITA’ COSTELLAZIONE SINDROMICA MULTIFORME?
La validita’ strutturale del Disturbo Borderline di Personalita’. C. Maffei. Per la maggior parte dei disturbi di personalita’ (DP) non esistono molti dati di ricerca. I piu’ approfonditamente studiati al momento sono il Disturbo Borderline (DBP), il Disturbo Antisociale (DASP) e il Disturbo Schizotipico di Personalita’. Tuttavia, anche per quel che riguarda il DBP, vi sono poche ricerche miranti a chiarire le caratteristiche diagnostiche strutturali. Il relatore cita quattro studi, collocati tra l’83 e il 2000, sulla validita’ strutturale del DBP, che suggeriscono una struttura categoriale di tipo polifattoriale per tre delle ricerche, monofattoriale per una sola di esse. Inoltre appare come l’efficienza dei criteri, ovvero quanto un singolo criterio sia rappresentativo dell’intero disturbo, non concordi con quella definita dal DSM-IV.
Comunque le ricerche empiriche concordano nel considerare il DBP come caratterizzato dall’impulsivita’ come “core construct” ad elevata stabilita’ temporale. L’impulsivita’ puo’ essere a sua volta meglio considerata come parte di piu’ articolati costrutti della personalita’, a base temperamentale. La “novelty seeking” di Cloninger sembra la dimensione temperamentale connessa propriamente all’impulsivita’ del borderline. Del resto l’impulsivita’ sembra giocare un ruolo importante anche nel comportamento antisociale in generale e nel DASP in particolare, ma il DBP e’ predetto dalla dimensione piu’ emozionale dell’aggressivita’, il disturbo antisociale piu’ da una qualita’ motoria.
La comorbidita’ fra Disturbo Borderline e Depressione Maggiore: una condizione paradigmatica. S. Bellino.
Il DBP e’ un’entita’ complessa i cui tratti fondamentali sono l’instabilita’ affettiva, le difficolta’ delle relazioni interpersonali, il disturbo dell’identita’ e l’alterazione del controllo degli impulsi. Le molteplici manifestazioni sono state ricondotte a tre dimensioni psicopatologiche fondamentali: il disturbo delle relazioni, la sregolazione comportamentale e la sregolazione affettiva. Tali fattori possono aiutare a comprendere la comorbilita’ di Asse I e di Asse II. La comorbilita’ piu’ frequente e’ quella con il Disturbo Depressivo Maggiore (DDM) che si attesta intorno al 53-83 %. Questo fatto pone due domande: come si deve inquadrare la comorbilita’ tra DBP e disturbi depressivi?
Qual e’ il trattamento piu’ efficace e qual e’ il ruolo degli stabilizzatori dell’umore?
Viene quindi presentato uno studio su pazienti ambulatoriali con codiagnosi di DP e DDM, distinti in due sottogruppi: con e senza DBP. Nei pazienti con DBP e DDM i sintomi depressivi autovalutati sono risultati piu’ gravi, il funzionamento sociale e lavorativo piu’ compromesso, l’eta’ d’esordio del DDM piu’ precoce, comportamenti autolesionistici frequenti, familiarita’ per disturbi dell’umore nei parenti di primo grado.
Per cio’ che riguarda il ruolo degli stabilizzatori dell’umore i dati piu’ numerosi concernono l’acido valproico. Un farmaco di recente introduzione in Italia, l’oxcarbazepina, risulta meglio tollerato e con minori fenomeni d’induzione enzimatica.
In conclusione si puo’ affermare che il paziente borderline che manifesta un episodio depressivo potrebbe rappresentare una variante specifica di disturbo dell’umore (per esempio a Pisa si considera una variante del Disturbo Bipolare). La terapia con antidepressivi e stabilizzatori dell’umore e’ efficace sia sulla depressione che sui tratti riconducibili alla sregolazione affettiva.
Comportamento autolesivo nel Disturbo Borderline: aspetti clinici e genetici. A. Rotondo.
Il DBP e’ frequentemente associato a comportamenti autolesivi che si estendono in un continuum di gravita’ da sporadici atti automutilanti fino al suicidio. Lo studio presentato si propone di confrontare le caratteristiche psicopatologiche di soggetti con DBP che presentavano tre diversi pattern di comportamento autolesivo: almeno un tentativo di suicidio (TS), due o piu’ gesti automutilanti senza TS; almeno un tentativo di suicidio e due o piu’ gesti automutilanti (TS/AM). Esiste comunque una comorbidita’ life-time del 55-80 % fra comportamenti suicidari ed automutilanti.
I comportamenti suicidari e quelli automutilanti possono essere considerati come distinte manifestazioni fenotipiche di un comune substrato di aggressivita’ nell’ambito di differenti profili personologici. Utilizzando il Tridimensional Personality Questionnaire (TPQ) per esplorare le tre dimensioni personologiche individuate da Cloninger, si e’ visto che nei DBP che mettono in atto AM la dimensione prevalente e’ quella dell’ “harm avoidance” (evitamento del danno), mentre i TS si associano alla “reword dependance” (dipendenza dalla gratificazione), a persistenza e perfezionismo.
Si e’ cercato inoltre di indagare l’associazione fra dimensioni psicopatologiche (assenza/presenza di TS e AM) e geni di suscettibilita’. Il sistema serotoninergico e’ implicato nella patogenesi dell’aggressivita’ sia auto- che eterodiretta. Sono stati cercati polimorfismi genetici correlati ed esattamente i geni codificanti per due molecole implicate nel metabolismo della 5-HT: il trasportatore della serotonina (5-HTTLPR), bersaglio dei farmaci antidepressivi, e la triptofano idrossilasi (TPH) che e’ l’enzima limitante della sintesi della serotonina. Si e’ appurato che i genotipi del 5-HTTLPR sono risultati significativamente correlati all’harm avoidance e quindi all’AM; i genotipi del TPH sono risltati significativamente correlati alla dimensione “persistenza”, “reward dependance” e quindi al TS. Si puo’ quindi affermare che il comportamento automutilante si differenzia da quello puramente suicidarlo nelle caratteristiche psicopatologiche e genetiche.
E’ possibile un utilizzo razionale degli psicofarmaci nel trattamento del soggetto con DBP? M. Nardini.
Ancora oggi si puo’ dire che non esiste un trattamento farmacologico di elezione per questa patologia per difficolta’ d’inquadramento come entita’ nosologica e clinico-diagnostica, elevata incidenza di comorbidita’, scarsa compliance farmacologia, eterogeneita’ della risposta farmacologia (forte tendenza a risposte tipo effetto placebo).
I tipi di approccio farmacologico al DBP sono: la monoterapia, che ha possibilita’ limitate data la complessita’ del DBP; la terapia sintomo-specifica, cioe’ armaci indirizzati verso specifici domini terapeutici; la polifarmacoterapia, che per il relatore e’ probabilmente l’approccio piu’ razionale ed efficace. Dopo aver passato in rassegna le classi di farmaci utilizzati nel DBP (SSRI, TCA, IMAO, Stabilizzatori dell’umore, Antagonisti degli oppiacei, Antipsicotici tipici e atipici) vengono illustrati algoritmi, sequenze attraverso le quali si costruiscono terapie razionali per cluster sintomatologici (sfera cognitivo-percettiva, affettiva e impulsivo-comportamentale).
In definitiva la personalizzazione e la specificita’ individuale sono la chiave per il trattamento razionale del DBP.

SIMPOSIO: ASPETTI PSICHIATRICI DELLA VIOLENZA CARNALE
Con un piccolo cambio di programma, apre il simposio l’intervento del dott. Traverso sulla classificazione dell’autore di reati sessuali.
Il professor Traverso sottolinea come il problema della violenza sessuale sia serio, in quanto produce effetti gravi e duraturi sulle vittime. Colui che e’ aggressore, cioe’ l’autore di reato, risulta essere di difficile inquadramento: Traverso tenta di definirne le caratteristiche, svolgendo alcune considerazioni in tema di prevenzione e trattamento.
L’ eta’ media di questi soggetti risulta essere di circa 31.5 anni, il loro grado di istruzione medio. Due terzi di essi sono occupati.
La domanda che viene posta, specialmente in ambito clinico, e’: La violenza sessuale e’ una parafilia? (Dal momento che spesso l’autore ricommette il reato non appena scarcerato)
La risposta e’ positiva, soprattutto per gli autori anglosassoni: gli aggressori tentano di controllare gli impulsi, che pero’ risultano troppo violenti da contenere, poi sopraggiunge il senso di colpa e si ricomincia il ciclo.
Lo sviluppo di un interesse sessuale deviante, la parafilia appunto, si sviluppa molto precocemente, prima dei 18 anni, in piu’ della meta’ dei casi. E sempre la meta’ degli aggressori al compimento dei 21 anni ha completato lo sviluppo dell’interesse deviante.
Teorie deduttive dalla clinica costruiscono tipologie di inquadramento dell’aggressore, nello specifico della violenza carnale (rape) ci sono 9 tipologie, che tengono conto di variabili importanti, tra cui la motivazione primaria alla violenza (vendetta, …), il comportamento sadico o non sadico …, e sono punti di partenza per modelli continuamente revisionati.
Un altro modello considerato è la valutazione laboratoristica che misura la preferenza sessuale, nello specifico la pletismografia peniena. Si sono accennate anche specifiche categorie di “violentatori”, a volte trascurate :
Donne sessualmente aggressive (Insegnante-Amante, Predisposta, Male-Coerced), Sacerdoti, Bambini che molestano, Professionisti nell’esercizio della loro professione.
In particolare sono state delineate le caratteristiche personologiche dei sacerdoti abusatori: Se’ indefinibile, Fallimento dell’intimita’, Vergogna, Grandiosita’, Violazione dei confini, Immaturita’ psicosessuale, Volo nella salute, Alexitimia, Deficit di empatia, Ribellione contro l’autorita’.
Segue l’intervento della dott.ssa Scardaccione sulla vittimizzazione nella precisa prospettiva criminologica. La vittimologia e’ statisticamente influenzata sia dai cambiamenti culturali e soprattutto da quelli giuridici. Con la legge del 1996 si e’ avuto un forte aumento di denunce di reati sessuali, soprattutto su minori, forse dovuto anche all’unificazione della violenza carnale con gli abusi sessuali.
Quattro aspetti sono oggetto di studio: Modalita’ di esecuzione, Relazione vittima/autore di reato, Vulnerabilita’ della vittima (ulteriori vittimizzazioni in futuro), Strategie della vittima per difendersi dalla violenza.
Alcune considerazioni emerse: l’alcol incide sulla gravita’ della violenza se non c’e’ alcun rapporto di conoscenza tra aggressore e vittima.
Inoltre, se c’e’ relazione affettiva (moglie/convivente) tra autore e vittima, il grado di vulnerabilita’ e l’impatto sulla vittima aumentano. Per quanto riguarda le strategie principali utilizzate dall’aggressore, la strategia di potere caratterizza la violenza nel rapporto affettivo, mentre l’uso di droghe accompagna piu’ frequentemente la violenza tra sconosciuti.
Le donne aggredite dal proprio marito presentano una maggior vulnerabilita’ alla violenza e una paura di riaggressione, a fronte delle donne aggredite da sconosciuti che presentano una maggior vulnerabilita’ personale e paura per la vita.
Prende la parola come terza relatrice la Dott. ssa Baldry che presenta un interessante studio clinico sulle donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza del comune di Roma.
Secondo l’ISTAT l:
- 8% delle donne che ha subito violenza sessuale consumata o tentata, l’ha subita in famiglia (dal coniuge o da altro parente);
- 7% delle donne ha subito violenza sessuale consumata o tentata da parte del fidanzato o dell’ex fidanzato;
- 5% delle donne ha subito violenza da parte di altri parenti.
Il profilo della donna maltrattata parla di una donna tra i 35 e i 59 anni, rappresentante di uno status sociale basso, che ha subito violenze ripetute in famiglia da parte del coniuge o di un parente. La diagnosi di quello che viene comunemente chiamato disturbo post traumatico da stress, che nel caso di violenza sessuale può anche essere ribattezzato come Sindrome da Stupro, si basa sul racconto dell’evento, sulla conseguente pena , sull’impotenza della vittima e su quello che e’ il “rivissuto” del trauma tramite sogni o flashback, nonche’ sulla reazione fisiologica di disagio.
La ricerca condotta a Roma punta a osservare se esiste una diversa incidenza del disturbo post traumatico da stress in base al tipo di violenza (psicologica/fisica vs psicologica/fisica e sessuale), all’autore del reato, agli anni in cui la violenza e’stata perpetuata ( la gravita’ del quadro clinico aumenta con gli anni in cui la donna e’ stata vittima di reato),all’eta’ della donna (risulta fattore protettivo la giovane eta’).
L’ipotesi e’ che ad una piu’ efferata violenza la vittima risponda con un aumento della sintomatologia. Lo studio ha coinvolto 145 donne che afferivano a 3 diversi centri antiviolenza: il 72.5 % Italiane, il 13.1 % dell’Europa dell’Est, il 7.1 % dell’America Latina ed il 4.9 Asiatiche. L’eta’ media era di 37.8 anni (prendendo in considerazione soggetti da 20 a 68 anni). Gli anni in cui la violenza e’ stata perpetrata in media 8.5. Nel 52.1% dei casi e’ il marito ad usare violenza, nel 22.6 % l’ex-marito, nel 25.3 % il convivente o l’ex-convivente. Sono in aumento le vittime di abusi da parte degli ex.
Lo studio tramite intervista faccia a faccia dimostra che le donne vittime di violenza psicologica fisica e sessuale presentano un quadro clinico di Disturbo Post-Traumatico da Stress piu’ grave rispetto alle donne che hanno subito un solo tipo di violenza.
Infine l’approccio evoluzionista, portato dal dott. M. Marchetti.
La violenza sessuale, ma anche la sua condanna, e’ uno degli universali della cultura umana. E si ritrova presso tutte le popolazioni umane. La maggior parte delle vittime di stupro sono giovani donne in eta’ fertile.
Questo contrasta con la teoria sociologica che lo stupro possa essere semplicemente una manifestazione di potere da parte dell’uomo sulla donna. Lo stupro e’ anche piu’ probabile quando c’e’ un massimo di ostilita’ maschile e un massimo di vulnerabilita’ femminile (es. durante le guerre). Non è inoltre un metodo adattativo per assicurare all’uomo una maggior riproduzione.

PSICOPATOLOGIA DEL CAMBIAMENTO CORPOREO : DALLA REALTA’ AL DELIRIO
Il simposio viene aperto dal Prof. Romolo Rossi il quale afferma che la mente e’ uno strumento ingannatore,e casi in cui la realta’ corporea e’ percepita in maniera modificata.
Vengono descritti tre gruppi di deliri particolari. La dottoressa Priori parla del delirio di Cotard, un delirio di negazione che Cotard associava alla negazione della realta’ e alla perdita della visione mentale degli oggetti.
Chi ne e’ affetto e’ come se dicesse “Nulla esiste piu’ oltre il mio estremo dolore”, dove un Io megalomanico e grandioso e’ inserito in un grave disturbo dell’umore, e’ quasi la prova empirica della dipendenza della mania dalla melanconia stessa.
Il delirio di Cotard costituisce in un certo senso il punto di passaggio tra neurologia e psichiatria, un continuum tra somatizzazione da un lato e delirio dall’altro (con la negazione come meccanismo di difesa). Utilizzando la descrizione di due casi clinici Priori spiega come, talvolta, la negazione del corpo sia legata non tanto ad un organo, quanto alla perdita di consapevolezza di una funzione complessa, un’allucinazione corporea. Dal punto di vista neurofisiopatologico si ha una somatoagnosia, dal punto di vista psicopatologico si ha la perdita del senso di proprieta’ del proprio corpo.
La dottoressa A.Berti affronta il tema relativo al delirio dei falsi riconoscimenti di Serieux e Caprags. Tale patologia fu introdotta nella nosologia francese agli inizi del 1800 e consiste nella convinzione delirante dell’esistenza di doppi degli altri, di se’ o di entrambi. E’ vicino all’ossessione e al registro illusorio, ed ha una radice emotiva ed una percettiva.
A questo tipo di delirio appartengono:
-Sindrome autoscopica (il doppio visto)
-Il delirio di Fregoli (il persecutore cambia volto)
-Il delirio di intermetamorfosi (scambi a catena)
Oggi piu’ che una sindrome, il delirio di Serieux e Caprags e’ considerato un sintomo delirante sia nello spettro schizofrenico, sia nel quadro depressivo grave.
Alla base del quadro clinico ci sono due riferimenti psicoanalitici: Freud in “Lutto e Melanconia” parla della perdita dell’oggetto, del recupero dell’oggetto per via narcisistica e dell’aggressivita’, prima rivolta all’oggetto e in seguito viene rivolta all’Io.
L’altro riferimento e’ quello a Melanie Klein per la quale l’Io scinde se stesso e proietta al di fuori di se’ la parte cattiva, persecutoria.
L’intervento successivo e’ quello del dott. S. Mungo che tratta il Delirio di Ekbohm. E’ un delirio monotematico

Simposio: Dalla depressione in eta’ evolutiva al tentativo di suicidio
Apre i lavori l’ intervento del Prof. Ammaniti incentrato sulla depressione materna (che riguarda il 10% di donne sia in gravidanza sia nel primo anno post-partum)e le sue conseguenze nella relazione madre bambino. I figli di madri depresse hanno un rischio 4-5 volte superiore di ammalarsi rispetto ai controlli.
Lo studio di tale condizione appare inoltre un interessante paradigma per lo studio dei meccanismi di trasmissione intergenerazionale, caratterizzati dalla interazione di fattori genetici (vulnerabilita’ genetiche materne), temperamentali (disfunzioni temperamentali del neonato) e ambientali (difficolta’ genitoriali, conflitti, stress).
Vengono citati poi due modelli riguardo alle relazioni tra depressione e comportamento materno. Il primo, anche in ordine di tempo, e’ il modello a soglia degli effetti della depressione, di Cohn (1986) per cui maggiore e’ il grado di depressione materna e maggiore e’ la sua ripercussione sulle capacita’ genitoriali della donna. Il secondo invece e’ il modello correlato di Lyons e Ruth (1999) per il quale le capacita’ genitoriali della madre sono piu’ legate alle sue antiche esperienze di attaccamento precoce che non all’entita’ della sua depressione attuale; a cio’ consegue, secondo il relatore, che il trattamento della depressione, in tali casi, non e’ sufficiente a garantire una adeguata capacita’ di funzionamento materno. Vengono citati poi gli stili materni di comportamento affettivo e sociale di Cohn e Tronick (1989) che individuano madri intrusive (depresse e ansiose)), madri distaccate (depresse con forte grado di inibizione), madri positive (con attaccamento sicuro, che interagiscono in modo sano con il bambino) e madri intrusive e distaccate al tempo stesso; gli effetti di tali stili materni saranno di produrre nel bambino un attaccamento vischioso nel primo caso, evitante nel secondo caso, sicuro nel terzo.
Vengono analizzate poi le correlazioni tra tali stili di attaccamento ed i rischi psicosociali o depressivi e le rappresentazioni che le madri hanno di se stesse (integrate, ambivalenti, ristrette). Le dinamiche di interazione madre-bambino possono implicare un fallimento nel processo di mutua regolazione (con disregolazioni croniche nell’ambito di tale rapporto), una sperimentazione di emozioni negative da parte del bambino con il conseguente consolidamento di un nucleo affettivo negativo (rabbia, tristezza, sfiducia), con una madre ipoattiva e ipostimolante. Al di la’ quindi della depressione tali dinamiche interattive svolgono un ruolo notevole, in un contesto piu’ ampio, dove acquistano importanza anche fattori psicosociali quali un basso livello socio economico e le possibili conseguenze (inadeguati comportamenti sanitari con ripercussioni sulla gravidanza, tensioni coniugali e mancanza di supporto sociale).
Gli esiti nei figli sono evidenti: neonati ipotono, con ridotte capacita’ regolative e di risposta sociale; difficolta’ affettive con riduzione delle espressioni facciali positive e delle vocalizzazioni, maggiore irrequietezza e maggior distacco, ridotta interazione ed esplorazione; deficit cognitivi a 9 mesi, 18 mesi, 5 anni; attaccamenti insicuri e disorganizzati. Risultano allora di fondamentale importanza tanto una diagnosi precoce sulla madre (sia in gravidanza sia nel primo anno post-partum) quanto una serie di interventi terapeutici, tra i quali viene proposto come particolarmente efficace l’home visiting (utile a migliorare l’interazione madre-bambino e la capacita’ della madre di rispondere in modo adeguato ai bisogni del figlio).
Segue l’intervento di F. Mancini incentrato sulle principali teorie cognitive che pongono l’assunto di una sostanziale continuita’ nei disturbi depressivi tra infanzia ed eta’ adulta. Tali modelli considerano fondamentale , nella genesi e nel mantenimento della depressione, il ruolo di specifiche strutture e di processi cognitivi (quali ad esempio lo stile attributivo) che si attivano a seguito di eventi stressanti.
I fattori di mantenimento si individuano nell’ambito di processi funzionali tipo circolo vizioso (scopi e assunzioni attive influenzano condotte, emozioni e cognizioni con un risvolto sulla realta’ delle relazioni interpersonali, tali aspetti funzionano poi a feedback sui primi con il risultato di creare circuiti interpersonali problematici).
Secondo le teorie della depressione di Teasdale parliamo di priming effect: lo stato emozionale rende piu’ disponibili immagini, pensieri e ricordi congrui con tale vissuto, anche se esso viene suscitato da eventi appartenenti ad un dominio diverso. La metavalutazione negativa dei propri stati emotivi, che puo’ verificarsi gia’ in eta’ precoce, ha poi un ruolo drammatico nel mantenimento e nell’aggravamento del disturbo depressivo.
Viene preso in esame in particolare il processo cognitivo noto come “ragionamento emozionale” o “affect as information mechanism”, che individua l’attitudine peculiare ad alcuni soggetti nel considerare lo stato emotivo come prova e conferma della validita’ delle credenze che induce l’emozione stessa. Viene posta come esempio di ragionamento emozionale la presenza, in determinati soggetti, di elevati tratti di colpa e l’influenza che cio’ determina sul perpetuarsi di circoli viziosi a sfondo depressivo; il ragionamento emozionale favorisce la chiusura di tali circoli viziosi ed il mantenimento della depressione.
Nell’intervento di G. Levi vengono messi in evidenza i percorsi evolutivi dei sintomi e dei sentimenti depressivi fino agli estremi del comportamento suicidiario o parasuicidiario.
Lo sviluppo della depressione in eta’ evolutiva si manifesta attraverso diversi quadri clinici piu’ o meno caratterizzati a seconda dell’eta’, della persistenza, della gravita’, dell’associazione con altri problemi psicologici. Il notevole polimorfismo clinico della depressione in eta’ evolutiva rende difficile la dimostrazione della continuita’ clinica che sembra esistere per una parte significativa della popolazione.
La diagnosi di depressione in eta’ evolutiva si basa su due parametri:
1- riscontro di un quadro sintomatologico significativo.
2- Riscontro di sentimenti depressivi specifici, pertinenti ed attivamente interagenti.
L’ipotesi di lavoro e’ che una valutazione a doppia griglia dei sintomi depressivi e dei sentimenti depressivi puo’ consentire di individuare meglio, per la diagnosi e per la terapia, i casi che hanno piu’ tendenza a stabilizzare la depressione, mantenendo il problema dentro un percorso evolutivo coerente e al di la’ dell’apparente polimorfismo clinico.
I problemi clinici delineati vengono discussi sulla base di tre casistiche cliniche individuate in tre diverse fascie di eta’ (4-6 anni; 7-8 anni; 9-11 anni). I dati raccolti sembrano orientare ad una possibile e tempestiva differenziazione tra un gruppo di soggetti che persistono nella depressione ed un gruppo che rinuncia alle scelte depressive. Tutto questo in accordo con le ipotesi piu’ recenti circa la continuita’-discontinuita’ tra depressione infantile e depressione adolescenziale.
G. De Renoche ci parla degli antecedenti depressivi nel tentativo di suicidio in adolescenza. Le potenziali correlazioni tra le problematiche di tipo depressivo ed i tentativi di suicidio negli adolescenti rappresentano un’area di interesse che coinvolge sia l’ambito della ricerca sia l’ambito clinico. Infatti il riscontro di tali elementi negli adolescenti che hanno tentato il suicidio risulta essere piuttosto frequente nelle casistiche riscontrate a livello della letteratura internazionale.
Vengono valutate, in una casistica di 92 soggetti adolescenti che hanno tentato il suicidio quali possano essere le possibili correlazioni tra gli antecedenti di tipo depressivo e lo sviluppo dell’atto suicidiario, nell’ipotesi che tali eventi possano rappresentare un fattore di rischio nello sviluppo della personalita’ dei soggetti considerati.
Attraverso l’utilizzo di una scheda di valutazione delle condotte parasuicidiarie sviluppata sulla base dell’esperienza di un decennio, sono stati identificati i seguenti parametri come possibili elementi meritevoli di una analisi volta ad indagare i possibili modelli di sviluppo della condotta suicidarla in adolescenza in relazione alle problematiche di tipo depressivo. E’ stata data una particolare attenzione a quei precedenti che nella storia del soggetto richiamassero esplicitamente (es. lutti) o implicitamente (equivalenti depressivi, conseguenze psicosociali, fattori di stress) alla sfera depressiva.
Fattori demografici (eta’, sesso), fattori psicosociali e familiari, caratteristiche psicopatologiche del soggetto, ideazione suicidarla, modalita’ del gesto, eventi significativi precedenti il gesto sono stati identificati ed analizzati in relazione al sesso e alla presenza di significative tracce pertinenti l’area depressiva.
Attraverso l’analisi statistica vengono identificate alcune possibili correlazioni tra i fattori considerati. Tali correlazioni vengono discusse alla luce di quanto emerso dal nostro campione e dal confronto con gli studi esistenti al riguardo.

Aggressivita’ e schizofrenia: dalle ipotesi biochimiche alla identificazione dei fattori predittivi
Il simposio serale si apre con l’intervento di F. Schifano, Professore Associato di Psichiatria delle Tossicodipendenze della Facolta’ di Medicina dell’Universita’ di Londra, del S. George’s Hospital, “Aggressivita’: aspetti neurobiologici e trigger farmacologici”. Dopo un excursus sui sistemi neurotrasmettitoriali implicati nell’aggressivita’, quali una scarsa disponibilita’ di NO e la correlazione fra aumentata concentrazione di DA (specie a livello mesolimbico e del nucleo accumbens) ed aumentata incidenza di deliri paranoici, Schifano sposta il focus sull’impatto significativo delle sostanze d’abuso sull’asse dello stress e sulla loro frequente associazione nell’aggressivita’ auto- ed etero- diretta, in funzione dello sbilanciamento dei sistemi neurotrasmettitoriali.
Si e’ riscontrata un’evidente relazione fra intossicazione da alcool e violenza, specie negli alcoolisti di tipo II, i quali cominciano a bere piu’ tardi, sviluppano tolleranza in tempi piu’ rapidi, andando piu’ facilmente incontro ad episodi di violenza ed aggressivita’; questi ultimi sono concentrati in particolar modo nella fase discendente della curva alcoolemica. Per quanto concerne le BDZ, nel soggetto normale inducono sedazione, mentre nel tossicodipendente ad alta dose provocano un effetto paradosso di aggressivita’ – come puo’ capitare anche nell’anziano – in quanto si viene a modificare la biochimica della subunita’ alfa del recettore GABAergico.
Il Diazepam inficia selettivamente la capacita’ d’espressione di ansia e paura ma non di altre emozioni ed il Flumazemil, a riprova, reverte completamente tali episodi paradossi.
Il Flunitrazepam e’ dotato di un alto livello di solubilita’, pertanto supera bene la BEE: i soggetti divengono violenti, agiscono “a sangue freddo” (vedi rapine in banca). L’astinenza da eroina, nella fase del craving, porta ad un’aumentata attivazione del sistema dopaminergico, con tendenza all’aggressivita’, dovuta anche alla necessità di reperire il denaro necessario all’acquisto della dose).
L’etimologia della parola “Assassino” va ricercata nella parola araba “Hashish”; fra i cannabinoidi, le varieta’ Skunk e Superskunk presentano una maggiore concentrazione di Delta9THC e quanto piu’ quest’ultima e’ alta tanto piu’ aumenta la loro capacita’ psichedelica ed allucinogena. Il 9 % dei nuovi episodi psicotici e’ dovuto esclusivamente ad uso di cannabinoidi (anche assunti in dosi modeste in pazienti particolarmente fragili): essi possono indurre aggressivita’ ed arrecano dipendenza.
Cocaina ed amfetamine portano ad un’iperattivazione del sistema dopaminergico con aumento diretto ed indiretto, per l’induzione di deliri paranoici e conseguente autodifesa, dell’aggressivita’. L’assunzione cronica di ecstasy porta ad una diminuzione della serotonina, con comportamenti quali tendenza alla guida spericolata, alle aggressioni ed alle risse. Anche l’uso di steroidi ed anabolizzanti , che viene effettuato a cicli, conduce alla “Rhoid rage”, la rabbia nel momento dell’aumento della dose.
Affronta poi il fenomeno della “Dating violence” e del “Date rape”, analizzando le sostanze piu’ frequentemente utilizzate a tal fine per le loro caratteristiche di essere inodori, insapori ed incolori, e di arrecare spesso nella vittima un’amnesia che rende inoltre assai difficoltosa la denuncia alle autorità competenti; ricorda la Ketamina, anestetico e.v. a breve durata, non cardiotossico, la Fenciclidina o Angel dust, il GHB o “Liquid XTC” che crea un’ebbrezza simile a quella alcolica.
L’aumento di ansia, depressione, impulsivita’, sono legati ad un’ipoattivita’ del sistema serotoninergico. L’utilizzo di sostanze, nella casistica londinese, sta assumendo le caratteristiche di uso ricreazionale, con polifarmacoassunzione durante il weekend, che alla lunga si ripercuote sul rendimento infrasettimanale; spesso i SerT non sono pronti ad affrontare questo tipo di problema, cosi’ come talvolta ai SSM manca una specifica competenza tossicologica.
Interviene a seguire M. Picozzi, Responsabile dell’Unita’ di Analisi e Ricerca sul Crimine dell’Universita’ C. Cattaneo, LIUC, di Castellana (VA), nonche’ consulente dell’Unita’ Crimini Violenti della Polizia di Stato, con il tema “Aggressivita’ e schizofrenia: da una review della letteratura alla identificazione dei fattori predittivi”. Partendo dal fenomeno della “Cannabis Swiss Cup” (concorso che si tiene ogni anno in Svizzera, nel quale viene premiato chi riesce a selezionare la varieta’ a piu’ alta concentrazione di principio attivo), pone l’accento sull’esistenza di un unico lavoro di review specifico sull’argomento, sviluppato a Losanna, con una casistica di 10-12 soggetti, del 2003.
Procede quindi con l’analisi del rapporto fra schizofrenia e violenza e la concomitanza con doppia diagnosi con i disturbi di personalita’, presentando le evidenze maggiormente significative degli studi recenti. Nel libro del 2000 “Psicopatologia e crimini violenti”, specie quelli attuati verso familiari e conoscenti, si trovano correlazioni sugli assi I (soprattutto Disturbi Mentali Maggiori) e II (BLPD e Paranoide) del DSM IV. Nel 1999 lo studio di Weiner e Hess ha evidenziato quali fattori predittivi: pregresse violenze o un atteggiamento ostile associato ad abuso di sostanze ed a sintomi psicotici in fase attiva quali soprattutto convinzioni deliranti di essere minacciati ed interpretativita’ delirante; fra gli altri fattori annoverano allucinazioni di comando, erotomania, recenti ed attuali ferite narcisistiche, isolamento affettivo, affettivita’ inappropriata, minacce o comportamento provocatorio misconosciuti o minimizzati, disponibilita’ di armi.
Morgan (2000) individua il rischio di violenza in pazienti psichiatrici con pregressi episodi, precedente uso di armi, minacce, atti impulsivi, abuso di droghe, sesso maschile, interpretativita’ persecutoria verso terzi, fantasie di violenza. Per valutare il potenziale a breve termine di violenza debbono essere ricercati ed individuati in maniera assai precisa gli elementi specifici dei comportamenti violenti dei singoli pazienti, vale a dire per Tardiff (1196) data d’insorgenza, frequenza e bersaglio, schemi comportamentali ed escalation, esami psicodiagnostica effettuati in passato, traumi al capo e malattie internistiche precedenti o intercorrenti; per Hess e Weiner (1999) e’ basilare la raccolta di informazioni dettagliate sul passato, sulle circostanze, e la consapevolezza dei clinici della loro tendenza a negare e minimizzare tali episodi, nonche’ determinare il livello di insight del paziente.
L’ultimo intervento, “Il controllo farmacologico dell’aggressivita’ senza sedazione: una sfida possibile?”, e’ a cura di L. Piani, Dirigente di Ricerca dell’Istituto di Neurogenetica e di Neurofarmacologia, CNR, di Cagliari. Partendo dalla considerazione che Impulsivita’ ed Aggressivita’ siano correlabili a diverse situazioni, quali la presenza di lesioni/espansioni, abuso di sostanze, disturbi di personalita’, epilessia temporale, demenza/BPSD, tali condizioni sembrano avere in comune un malfunzionamento a livello corticale, con mancata regolazione da parte sottocorticale della corteccia.
Il farmaco deve pertanto agire aumentando l’attivazione corticale, tenendo sempre presente che la memoria di lavoro funziona efficacemente solo all’interno dell’ambito di un range definito, pertanto bisogna cercare di rimanere nella sua parte centrale, nell’optimum. Clozapina, Stabilizzanti dell’umore a dosi basse, fra gli SSRI la DLFenfluramina (non la Fluoxetina), alfa2antagonisti, 5HT1b antagonisti ed SNRI, aumentano la trasmissione corticale. La prima e’ quella usata con migliori risultati; la Quetiapina ha una valenza simile, ma richiede dosi di almeno 750 mg/die per il controllo dell’aggressivita’ (con le dovute riduzionio posologiche nel paziente anziano). L’attuale difficolta’ consiste nell’uso “off label” degli APA, che deve essere attuato solo se confortato da adeguate esperienze cliniche di conferma.
Diversi farmaci psicotropi hanno effetti selettivi sulla trasmissione corticale responsabile delle funzioni cognitive superiori e del controllo del comportamento, ma, a suo parere, e’ meglio procedere ad un uso abbinato di piu’ farmaci al fine di un approccio maggiormente efficace della questione in esame.

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