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Una psichiatria separata, divisa e manesca

ovvero la nuova proposta Burani-Naro (febbraio 2004)

di Luigi Benevelli

Il testo, ormai il quarto in ordine di tempo, presentato agli inizi di questo febbraio al Comitato ristretto della XII° commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati, è risultato di un’operazione di innesto dei contenuti  della proposta di legge dell’on. Naro (UDC) [1] sull’elaborazione precedente dell’on. Burani.

Alla ricerca di una difficile coerenza interna fra l’esigenza di mantenere l’impianto sanzionatorio e stigmatizzante per le situazioni “gravi” e quella di far convivere nel Dipartimento di Salute Mentale (DSM) percorsi per il trattamento della depressione (questi ultimi a carattere volontario), l’articolato si è fatto  più complesso e faticoso. Alla fine, la proposta assume i tratti di un “progetto obiettivo psichiatria” (non per la “salute mentale) prevedendo e prescrivendo il cosa debba accadere in tutte le regioni e in tutte le Aziende Sanitarie. I DSM, centrali nell’offerta dei servizi alla popolazione, diventano strutturati in base alle singole patologie e alle fasi cliniche (acuzie, sub-acuzie, post-acuzie, cronicità)  e sono articolati per strutture, non per funzioni.

Ne risultano DSM “divisi” in spazi e operatori dedicati alle situazioni gravi (per lo più persone con diagnosi di psicosi schizofrenica), e spazi e operatori dedicati alla depressione, ai disturbi da attacchi di panico, ai disturbi del comportamento alimentare ecc.. Anche le regole proposte sono diverse a seconda della diagnosi e le modalità di intervento coatto diventano ben quattro: Accertamento Sanitario Obbligatorio (ASO), Accertamento Sanitario Obbligatorio Ospedaliero (ASOO), Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), Trattamento Sanitario Obbligatorio Prolungato (TSOP).

Sono possibili due tipi di trattamenti: il Trattamento Intensivo Prolungato e Trattamento Intensivo Limitato agli episodi di malattia.

La proposta intende sostituire le norme vigenti che sono quindi abrogate.

Secondo l’on. Burani, la Psichiatria di Comunità italiana si occuperebbero, esclusivamente  e male, di poche migliaia di “casi gravi” che “intaserebbero i servizi di salute mentale e troppo poco dei disturbi depressivi che affliggono centinaia di migliaia di cittadini. La responsabilità di tale situazione risalirebbe alla legge 180/1978 che impedirebbe ed ostacolerebbe opportunità di trattamenti efficaci e tempestivi. Evidentemente non le è mai venuto il dubbio che quando tali situazioni si verificano, esse potrebbero essere imputabili a Regioni e Aziende Sanitarie inadempienti, nonché a servizi, psichiatri, operatori  sciatti e inadempienti.

Sulla base delle proprie premesse, come rimedio, l’on. Burani propone da una parte di attivare un circuito separato per i disturbi “leggeri” o meno gravi e dall’altra di coartare il paziente grave non collaborante a seguire per la durata della sua vita le prescrizioni dello psichiatra del DSM ( e del medico di famiglia). Infatti, una volta “uncinato” nel DSM, sia il medico di famiglia che lo psichiatra, che qualsiasi medico possono intervenire al  domicilio del paziente, disporre trattamenti, “prelevarlo” se si oppone e portarlo in Ospedale e di qui in una varietà di strutture sempre meno presidiate e garantite dal punto di vista sanitario quanto più invecchia. Tanto, in quanto “grave”, non può migliorare e men che meno guarire.

L’uso della “forza pubblica” nella cattura del folle è abbondantemente e correntemente esibito: praticamente gli agenti accompagnano sempre l’operatore del servizio di salute mentale.

Ma la "situazione grave", i "pazienti gravi" sono altro rispetto all'idea che se ne è fatta l'on. Burani. Come afferma Carmine Munizza (2002) “Il paziente grave non è (…) un fenomeno nicchia, definito una volta per tutte e solo da alcune diagnosi (psicosi), istituzioni (famiglie, servizi) e discipline (dentro la psichiatria), ma è il coaugulo (spesso il precipitato) di una miscela complessa e variabile ( anche nel tempo e nei contesti), a seconda degli angoli di osservazione, delle priorità, dei bisogni, delle speranze, delle paure, delle emozioni, dei fallimenti di persone, gruppi, istituzioni, tecniche e campi sociali".

Le argomentazioni del presidente della più importante associazione scientifica nazionale degli psichiatri fanno giustizia del modo approssimativo e rozzo con cui l'on. Burani definisce "chi è il paziente grave".

La proposta Burani-Naro, anche nella sua  più recente versione, mantiene i caratteri di una vera e propria “legge speciale” per la psichiatria, perché  circonda l’assistenza psichiatrica di regole e norme esclusive. Per questo è una proposta che produce e conferma stigma, separatezza, paura, pregiudizio.

Una psichiatria separata

A conferma di tale affermazione, il sistema delle garanzie proposto va in direzione opposta alla legge sull’amministratore di sostegno  recentemente approvata dal Parlamento [2] , quindi anche dai gruppi parlamentari cui appartengono Burani e Naro. Tale legge è stata fortemente voluta dalla Psichiatria di Comunità italiana che ha sempre lamentato la rigidità, la pesantezza, la difficoltà a revocare gli istituti della tutela e della curatela.

La legge 6/2004 si preoccupa, infatti, di limitare al minimo la capacità di agire delle “persone  prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente” (articolo 1).

 Nel decreto di nomina dell’amministratore di sostegno, il Giudice Tutelare deve indicare:

·      l’oggetto dell’incarico e degli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario;

·      gli atti che il beneficiario può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore di sostegno.

 Il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno.

Insomma, la legge mostra grande scrupolo a rispettare, sostenere e valorizzare le autonomie, le abilità della persona in difficoltà.

L’on. Burani, invece, propone la figura del garante del paziente psichiatrico , una specie di  “angelo custode” nominato dal Sindaco, impegnato a garantire che il paziente esegua a puntino le prescrizioni dei medici psichiatri e addirittura tenuto a contribuire alle spese per l’assistenza della persona che gli è affidata, trattenendo quote della retribuzione delle attività ergoterapiche cui il paziente può essere forzosamente sottoposto. La mirabolante proposta è presentata come contributo alla crisi finanziaria del welfare  e, pare di capire, è dettata dalla volontà di venire incontro alle difficoltà dei Comuni a sostenere la quota di spesa assistenziale per i pazienti psichiatrici di cui sono caricati in forza dei LEA.  Insomma, il lavoro coatto dei pazienti gravi dovrebbe contribuire a finanziare il nuovo “welfare psichiatrico” dell’on. Burani.

Alla faccia delle campagne contro lo stigma, l’on. Burani propone che in ogni Comune sia aperto un Ufficio del Garante del paziente psichiatrico “grave” la cui vita è incanalata nei percorsi dei Trattamenti Intensivi Prolungati, sottoposta a un regime di vincoli o obblighi per i quali non è richiesto il suo consenso (basta quello del suo angelo custode).

Per le situazioni “gravi “ sono previste:

o      strutture residenziali “ad alta protezione” , pare di capire le vecchie SRA, per le quali non è chiarito chi debba garantire la custodia;

o      strutture a prevalente gestione infermieristica, che fanno presumere che il medico  non vi metta piede, come se quella che l’on. Burani chiama “cronicità” non richiedesse invece una grande e sofisticata attenzione multispecialistica alla salute della persona nel senso più globale del termine;

o      addirittura strutture “senza etichettamento di tipo psichiatrico” (sic!!) gestite da personale non sanitario.

Insomma, non è mai esplicitamente usato il termine “pericolosità sociale”, ma il paziente psichiatrico grave è fatto diventare una persona priva di diritti, pubblicamente connotata e sanzionata. Le norme sulla coazione, esaltano la discrezionalità dell’intervento (per attivare l’ASO, basta il semplice “fondato sospetto” del medico di famiglia).

Anche gli impegnativi e complessi problemi di bioetica che caratterizzano l’assistenza psichiatrica sono sottratti alla sede del Comitato Nazionale per la bioetica e dei Comitati Etici locali per essere affidati alle cure dell’Agenzia Nazionale per la Tutela della salute Mentale, organo consultivo di cui si dice solo che dovrà essere diretto da un medico psichiatra.

In sintesi, l’essere paziente psichiatrico in carico ad un DSM consente allo stesso ed alla sua famiglia di “beneficiare” di opportunità di:

  • lavoro tramite l'inserimento nelle liste di collocamento obbligatorio per portatori di handicap, con l'intesa che tale condizione non debba comportare alcuna discriminazione. Non meglio specificate "strutture curative" (DSM, Strutture protette, servizi ospedalieri?) devono supportare le attività lavorative (pare di capire di natura ergoterapica) e collaborare con le Cooperative sociali. Non sono previste opportunità di occupazione diverse dalle Cooperative Sociali, né la formazione Professionale. Prescritto il subappalto.  La scelta secca del collocamento obbligatorio comporta il dare per  persa, impercorribile la strada dell'inserimento lavorativo e abbandonare i percorsi difficili, ma straordinariamente ricchi, degli inserimenti personalizzati e guidati, uno dei nuovi e più  promettenti ambiti di attività per i DSM.

·      libertà di scelta delle strutture, dei medici e del DSM presso cui curarsi

·      possibilità di associarsi liberamente in gruppi di auto-mutuo aiuto

·      convivenza in famiglia: il CSM si deve adoperare per "incentivare" la convivenza. In particolare il paziente psichiatrico può far avere in casa i soldi del sussidio regionale, qualora la famiglia accetta la convivenza (articolo 7, comma 3 e 4).

 

Una psichiatria divisa

L’on. Burani propone che nel DSM operatori, spazi, percorsi siano divisi a seconda delle diagnosi, degli stadi di una malattia  definita secondo le nosografie psichiatriche manicomiali.

Il manicomio non c’è più, almeno così è detto (ma vedremo proposte di trattamenti affidati a chiunque offra prestazioni ai costi più bassi), ma si raccomanda che i pazienti gravi siano comunque tenuti fuori dagli sguardi della gente per evitare che le persone “normali” frequentino gli stessi posti.  Sistemati i matti con i Trattamenti Intensivi prolungati, con un’operazione paradossale perché giustificata da intenti di lotta allo stigma, si propone che le persone  “normali” e quelle con “nevrosi”, depressioni ed ansie non possano né debbano incontrare i matti.  Anche gli operatori del DSM devono essere “dedicati”, senza frammischiare chi fa “lavoro sporco” (coi matti) e chi fa lavoro clinico”pulito”.

Ma anche quelli che fanno il lavoro “sporco” con gli psicotici lavorano separati fra di loro, tanto che la “psichiatria territoriale” può comunicare con quella “ospedaliera” solo tramite protocolli. Viene da chiedere dove dovrebbe stare , secondo l’on. Burani, l’archivio del servizio di salute mentale, dove si tengono le cartelle infermieristiche, chi ha la gestione dei progetti individualizzati.

E’ difficile pensare come possano comunicare fra di loro addetti all’assistenza che operano in strutture pre-pineliane, in strutture a forte connotazione carceraria e in strutture, almeno formalmente con finalità terapeutiche.

Le ragioni che sostengono la separazione dei percorsi e dei trattamenti sono fatte risalire ai fondamenti biologici dei disturbi mentali [3] . Si tratta di una lettura “biologistica” e scientista, comunque estremistica, dei fenomeni di sofferenza psicologica. Come afferma John Searle: “la mente umana (…) possiede nel suo operare proprio questo elemento discriminante, l’intenzionalità, l’interpretazione, il significato” [4] . Credo non si possano, e men che meno si debbano, costruire servizi su teorie delle quali non è dimostrato il fondamento e sulle quali comunque non vi è consenso nemmeno nella comunità scientifica [5] .

Prudentemente l’on. Burani non fa azzardi sugli organici, ma certamente dovrebbero essere molto più folti degli attuali, se si considera il numero degli operatori  da ingaggiare per il trattamento delle depressioni e per la gestione dei Trattamenti Intensivi Prolungati (situazioni gravi). Si consideri che  devono essere previsti operatori che fanno solo o l’una cosa o l’altra  e che devono essere garantiti:

- un servizio per l’emergenza territoriale (intervento al domicilio nelle 24 ore)

- un servizio per l’emergenza ospedaliera ( sempre 24 ore su 24). 

In contraddizione con le affermazioni che esaltano il ruolo del servizio sanitario nazionale, la proposta Burani fa sì che una quota consistente delle situazioni più difficili sia affidata a circuiti sottratti alle competenze sanitarie, per i quali non vi è garanzia  perché si sono abbandonate le speranze di restituzione e riscatto.

Alla fine, pare di capire, le situazioni gravi finirebbero coll’essere espulse dal DSM che è spinto, invece, ad occuparsi delle situazioni meno gravi.

 

Una psichiatria manesca

Col ritorno della  presunzione di pericolosità associata alla psicosi si instaurano regimi di trattamento molto severi e sbrigativi. Di straordinaria eloquenza al riguardo è il comma 5 dell’articolo 2 della proposta Burani nel quale, a proposito dell’Accertamento Sanitario Obbligatorio Ospedaliero, si descrive l’operazione che porta il malcapitato in ospedale come “prelevamento” dal luogo in cui si trova.

Circa la distinzione fra TSO ordinario e ASOO /TSO d'urgenza, Eugenio Borgna (2001),  dopo aver negato che la violenza sia terapeutica, osserva che "il TSO d'urgenza costituisce una variante "anarchica" perché consente qualunque ricovero, anche quando avvenga sulla spinta di aspetti apparentemente gravi, in realtà magari legati soltanto a condizioni affettive o emozionali molto intense. Si configura così il tentativo di sottrarre al giudizio medico psichiatrico una decisione così drammatica sia dal punto di vista psicologico-umano, sia dal punto di vista giuridico”.

La “forza pubblica” interviene al domicilio, al Pronto soccorso, in ospedale; accompagna  sempre gli operatori del DSM quando hanno a che fare con i “matti”.

Per non parlare di quello che può, ed è autorizzato ad accadere nelle strutture ad alta protezione e nelle residenze gestite da non meglio specificati infermieri o volontari.

 

Il medico di famiglia

Il coinvolgimento dei medici di famiglia nel lavoro di salute mentale non è impedito dalla legislazione  in vigore, tanto che è da qualche anno in corso di sperimentazione in molti DSM. E’ certamente un obiettivo di grandissima importanza che comporta interventi nell’arricchimento della formazione di base e di quella permanente, la predisposizione di sedi, programmi, incentivi. Esso richiede quindi tempi che non possono essere imposti da una legge.

 

Chi decide le politiche di salute mentale. A livello locale il comma 6 dell'articolo 7 afferma che "Le associazioni (delle famiglie) devono essere consultate, in via preliminare, dalle strutture del CSM, in tutte le decisioni relative alla politica della salute mentale svolta sul territorio". Anche questo, non solo non è impedito dalla legge in vigore, ma addirittura indicato fra gli obiettivi del progetto obiettivo nazionale 1998-2000.

 

La prevenzione e il rapporto fra DSM e UONPI.  L'articolo 2, comma 13,  prevede che i DSM si occupino della prevenzione delle malattie mentali  e dell'informazione del "corpo insegnante" e l'articolo 14 assegna al Ministero della Salute il compito di stabilire le modalità di realizzare programmi di intervento nelle scuole.  E' detto anche che il DSM si occupa della "psichiatria adulti", e si specifica che fino al compimento del 18° anno di età siano le UONPI a occuparsi delle attività di prevenzione e cura dei disturbi mentali. Non si capisce perchè perché non si debba affidare alle UONPI tale attività: cosa ne sa il DSM adulti della salute mentale infantile e in età evolutiva e cosa ne sa il Ministero della Salute di pedagogia?.

 

Il problema “progetto obiettivo”

La proposta Burani sbaglia il bersaglio (imputando le deficienze e le difficoltà alla legge 180), scardina e sconvolge gli assetti della Psichiatria di comunità italiana seminando confusione, stigma, violenza.  La nuova proposta Burani assume i tratti di un, sia pure assai rozzo, progetto obiettivo nazionale, anche se, furbescamente, non dà indicazioni sugli standard. 

I progetti obiettivo nazionali, in particolare il secondo del 1998-2000, pur approvato dalla Conferenza stato-regioni, hanno trovato nelle Regioni un’applicazione insufficiente e inadeguata e le questioni si sono ulteriormente complicate con l’introduzione dei LEA.

Non mi pare che ci sia “aria” per imporre alle regioni ed alle Aziende Sanitarie, in forza di una legge nazionale, contenuti, finalità, standard organizzativi, risorse per i DSM, oltretutto se le proposte elaborate sono così  poco autorevoli e meditate.

In ogni caso, appare poco credibile la scelta di ricorrere a scorciatoie illusorie, quando i conflitti di competenze rendono i problemi complicati, non è corretto

L'on. Burani ripropone esplicitamente modelli, culture professionali e circuiti tipicamente manicomiali perché escludenti, ossessionati dalla finalità del controllo e del contenimento, separati secondo lo "stadio" della malattia.

La proposta Burani privilegia il potere degli psichiatri contro quello dei pazienti, ma poi fa uscire la gestione dell'assistenza dal circuito dei servizi di sanità pubblica e della psichiatria professionale per assegnarla alla discrezionalità e all'arbitrio di imprese che lavorano a basso costo, senza dover rispondere del proprio operato. Le conseguenze prevedibili sono che si moltiplicherebbero le situazioni di degrado delle condizioni della vita quotidiana dei pazienti ricoverati nelle residenze protette.

Il termine "salute mentale" è estraneo all'ispirazione dell'on. Burani, che invece vuole una psichiatria solo come attività di controllo e contenimento della follia, sganciata dalle comunità e dai territori di riferimento del paziente. Partendo da intenzioni di difesa sociale, con tragica coazione a ripetere, ripropone scenari e situazioni già viste che hanno portato a veri e propri disastri nella qualità di vita e dei trattamenti dei pazienti, nonché isolamento ed emarginazione delle loro famiglie.

Burani nega qualsiasi valore alle culture ed alle pratiche sulla quali è stata costruita e si è consolidata l'esperienza della riforma psichiatrica italiana. Anzi, volta radicalmente pagina rispetto alla legge 180, ai progetti obiettivo, a documenti quali il parere del Comitato Nazionale per la bioetica del novembre 2000, la Carta degli Intenti di Milano o i pareri espressi dalla Società Italiana di Psichiatria e da importanti e rappresentative associazioni di famigliari quali UNASAM e DIAPSIGRA sulle proposte di legge in discussione alla XII Commissione. Ma ignora anche le nuove e ricche declinazioni che i temi della formazione professionale e del lavoro dei cittadini disabili hanno assunto negli ultimi venti anni con importanti riscontri anche dal  punto di vista legislativo come nella legge 68/99 di riforma del collocamento, la Classificazione Internazionale delle Disabilità e dell’Handicap del 1999, né porta traccia dei lavori della Conferenza nazionale per la salute mentale e della Giornata mondiale per la salute mentale del 7 aprile 2001. Parlo di esperienze, elaborazioni, piattaforme, programmi che mettono al centro il tema della salute mentale, dei diritti di cittadinanza, la lotta allo stigma, la valorizzazione della partnership di utenti e famiglie e dell'empowerment come obiettivo del lavoro in psichiatria. Evidentemente un altro linguaggio, un'altra scienza, un'altra civiltà.

Ai problemi dei pazienti e delle famiglie che vedono ancora negate opportunità di promozione della propria salute mentale si può rispondere in altri, ben diversi modi. Questi altri modi sono stati resi possibili e praticabili proprio grazie alle esperienze aperte da legislazioni, come la legge 180, che pongono al centro il rispetto della persona [6] .

Nonostante l’on. Burani e i suoi ispiratori, la psichiatria italiana non è allo sbando [7] , i dati, la maturità delle riflessioni, la ricchezza delle esperienze lo dimostrano.

 

La psichiatria è tutt'altro che onnipotente e quando ha ritenuto di esserlo ha combinato enormi disastri nelle vite delle persone e delle comunità. Le esperienze nel mondo hanno dimostrato che, per funzionare bene, la psichiatria deve poter contare, oltre che sulle strutture proprie, su una rete di opportunità (formazione, lavoro, cultura, casa ecc.) la cui gestione deve rimanere autonoma, non può essere affidata agli psichiatri, pena la riproposizione di una psichiatria asilare, miserabile, ignorante e coercitiva. Per queste ragioni bisogna ripartire in Italia dal Progetto obiettivo nazionale (che affronta le questioni OPG, salute mentale in carcere e salute mentale in età evolutiva e adolescenti) con vincolo di risorse da parte delle Regioni e sanzioni sulle aziende inadempienti, dalla valorizzazione dei circuiti dei welfare locali (v. legge 328/00).

Il testo presentato non consente un confronto serio e civile perché non parte da una valutazione responsabile della situazione come essa è e, di conseguenza, non può dare un contributo alla soluzione dei problemi dell'assistenza psichiatrica in Italia e perché è una proposta che fa arretrare la psichiatria italiana di più di un secolo, e per taluni aspetti a prima di Pinel.

Nelle situazioni gravi, quelle che non possono essere abbandonate, i programmi riabilitativi a lungo termine (con adeguato trattamento farmacologico, opportunità di residenze protette, disponibilità di terapie di gruppo, avvio alla formazione professionale, attivazione di gruppi di self-help e di reti sociali nelle aree di residenza) danno un esito significativamente migliore rispetto all'internamento, specie per ciò che concerne i livelli di disabilità sociale.

La diagnosi medica, da sola, non può predire quali saranno le limitazioni alla partecipazione nei diversi ambiti di vita; invece, la partecipazione delle persone disabili è condizionata dalle legislazioni, dalla qualità delle politiche e delle pratiche sociali, dalle mentalità e dagli stereotipi di giudizio della popolazione.

Le persone con gravi problemi di salute mentale, assai frequentemente e facilmente, anche in ragione dei pregiudizi che li colpiscono, tendono a rinchiudersi in una situazione di non-attività e di isolamento. Ma lo stigma che colpisce le persone disabilitate arreca svantaggio alle stesse e priva la società di utili contributi. Per questo le persone disabilitate dovrebbero essere accettate come persone nella pienezza dei loro diritti, capaci di dare un utile contributo nel lavoro e nella società.

 

 

 

Mantova, 29 febbraio 2004



[1] OOnn. Naro. Milanese e Castellani: “Disposizioni per la prevenzione, il trattamento e il monitoraggio della depressione”  presentato nell’aprile 2003 (A.C. 3932)

[2] v. legge 9 gennaio 2004, n. 6 in  G.U.in. 14 del 19.01.2004

[3] Nella introduzione alla nuova versione l’on. Burani scrive: “la psichiatria è oggi a pieno diritto una scienza medica in grado di descrivere molteplici malattie e di cui si conosce esattamente i meccanismi e le alterazioni neuropsichiche corrispondenti, ciascuna con un suo specifico trattamento” e più sotto: “Se la sofferenza mentale è un aspetto ineliminabile della vita umana, la malattia psichica può sommarsi a questa amplificandola in modo talora smisurato. E’ oggi indispensabile distinguere la sofferenza esistenziale della persona malata dalla malattia che ha causato la sofferenza ed è quindi necessario separare in maniera chiara il percorso di cura da quello di supporto sociale”

[4] citato in Gianfranco Ravasi “Breve storia dell’anima”, Milano (2003) pag. 301

[5] v. Piero Coppo (1998):” Lo stato attuale delle conoscenze, non appena si esca dalla clausura nel riduzionismo medico-neurologico verso una prospettiva pluridisciplinare, fa apparire dunque falsa e riduttiva l'affermazione che la depressione è una malat–tia neurologica determinata dal disfunzionamento di un orga–no, interna e propria all'individuo. Sembrerebbe piuttosto trattarsi di un registro (quello della tristezza, della disaffezione e della disperazione) che va dallo stato fisiologico fino a quello patologico lungo tutto un percorso facilitato, determinato, confermato da molteplici fattori, esterni e interni”.

[6] il recente volume di Peppe Dell’Acqua “Fuori come va?- famiglie e persone con schizofrenia- manuale per un uso ottimistico delle cure e dei servizi “  Roma (2003) rappresenta l’elaborazione più ricca dei risultati dell’esperienza italiana nel lavoro per la salute mentale.

[7]   La tabella 1) in appendice mostra che, in Italia, non ci troviamo di fronte a un deserto di attività e capacità di intervento. Di lavoro in questi 25 anni se ne è fatto molto e la chiusura dei manicomi è stata accompagnata dalla creazione di una offerta di servizi diffusa su tutto il territorio nazionale. La situazione è differenziata da regione a regione ed anche nelle diverse aree di ciascuna regione.

La rubrica realizzata in collaborazione con
Associazione Laura Saiani Consolati - BRESCIA

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COLLABORAZIONI

Poche sezioni della rivista più del NOTIZIARIO possono trarre vantaggio dalla collaborazione attiva dei lettori di POL.it.  Vi invitiamo caldamente a farci pervenire notizie ed informazioni che riteneste utile diffondereo farconoscere agli altri lettori. Carlo Gozio che cura questa rubrica sarà lieto di inserire le notizie che gli farete pervenire via email.

     
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Carlo Gozio, psichiatra e psicoterapeuta, lavora a Brescia ed è responsabile del Centro Residenziale Terapeutico e del Centro Diurno degli Spedali Civili di Brescia.
Cura per conto dell'Associazione Laura Saiani Consolati il sito www.psichiatriabrescia.it. e le News Territorio di Pol.it

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