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Fuori come va?
Famiglie e persone con schizofrenia
Manuale per un uso ottimistico delle cure e dei servizi



Perché un manuale per i familiari
“ Un ottimista è qualcuno che vi guarda negli occhi, un pessimista è qualcuno che vi guarda i piedi.” G.C.
“ Una piccola inesattezza risparmia tonnellate di spiegazioni. “ S.

Cosa sta succedendo? Cosa devo aspettarmi? A chi devo rivolgermi? Come devo comportarmi? Con chi posso condividere la disperazione ? Come posso difendermi dall’ assalto della solitudine ? Di chi è la colpa?
E’ colpa mia?
Queste, e tante altre, le domande che i genitori vorrebbero porre. Vorrebbero discutere, vorrebbero essere ascoltati. Con calma.
Lo scopo di questo manuale è parlare con le persone e con le famiglie che vivono l’esperienza del disturbo mentale. E dare informazioni proprio sulla schizofrenia, che ancora a torto è ritenuta una malattia misteriosa ed inesorabile.
Tenteremo di mettere insieme tutte le conoscenze che abbiamo acquisito su questa condizione, proponendo in comunicazioni semplici la complessità del lavoro terapeutico e riabilitativo.
Pur consapevoli di andare incontro a semplificazioni che qualcuno potrà giudicare eccessive accettiamo di correre questo rischio. Crediamo che solo parlando chiaramente sia possibile confrontarsi con i familiari su obiettivi semplici, praticabili, dichiarati.

Nella tradizione del lavoro psichiatrico, ma anche in molti dei nuovi servizi territoriali, i linguaggi, le definizioni, i comportamenti degli operatori sono troppo spesso tecnici, iniziatici e fitti di sottintesi, per addetti ai lavori, frutto di scuole, di schieramenti e culture diverse.
Le informazioni risultano incomprensibili, poco utili, discordanti e contraddittorie. E le famiglie, già frastornate e confuse per il carico della malattia che quotidianamente sopportano, si trovano a dover decifrare un mondo strano e misterioso. Non trovano strumenti per orientarsi. Rischiano di scoraggiarsi. Non ne possono più, diventano intolleranti e paradossalmente finiscono col chiedere luoghi di contenimento e non cure.

Fino a pochi decenni fa la famiglia aveva scarso valore per la psichiatria. Solo ”le tare ereditarie” venivano considerate e diligentemente annotate sulle cartelle cliniche.
Poi, dopo la legge 180 del maggio 1978, soltanto venticinque anni fa, la progressiva chiusura degli Ospedali Psichiatrici ha evitato alla famiglia il dolore di separarsi dalla persona cara e non ha più obbligato a rinunciare alla speranza. Eppure, riaccogliendo o trattenendo al proprio interno il parente malato, tanti familiari si sono sentiti costretti ad affrontare da soli e senza rete un carico che ben presto è diventato troppo grande.
Un carico che, se non condiviso con servizi capaci ed attenti, schiaccia qualsiasi prospettiva di ottimismo. Mentre mantenere viva la speranza è assolutamente necessario per i percorsi di ripresa e di emancipazione.
La crescita dei servizi territoriali, per quanto disomogenea, ha determinato per le famiglie la possibilità di partecipare alla cura, condividendone il progetto. Progetto, cura e partecipazione: una ricchezza che il manicomio, negando l'esistenza delle persone, aveva tragicamente escluso.
Siamo convinti che la legge 180 ha ottenuto i migliori risultati proprio favorendo il protagonismo delle persone affette da disturbo mentale, l’entrata in scena delle famiglie, la crescita delle loro associazioni.
Di pari passo è cresciuta anche la richiesta di informazioni rispetto al disturbo mentale, alle cure e ai modi per affrontarlo.


A Trieste questa domanda ci ha spinti a lavorare con le famiglie delle persone con schizofrenia. Da più di 15 anni i programmi di informazione e sostegno si susseguono e migliorano grazie all’apporto dei familiari stessi.
Questo manuale ne è il frutto e concretamente ne raccoglie i materiali.
E’ figlio dei tantissimi incontri avuti con i parenti delle persone affette da schizofrenia : riunioni fatte di lezioni e di ascolto, di domande e di serrato confronto.
E dato che gli incontri di un intero ciclo sono dieci, dieci capitoli ha pure il manuale : si tratta di un ordine, di un filo conduttore, di un espediente pedagogico. Ogni capitolo però possiede una sua autonoma completezza, tale da renderlo leggibile anche se preso da solo.
Potete dunque saltare da un capitolo all’altro, omettendo qualcosa e semmai tornandoci su più avanti. Ovviamente si può farlo in piena libertà, ma la lettura che suggeriamo noi è quella che inizia dalla prima pagina per finire all’ultima. La consigliamo perché è questo il percorso sperimentato in centinaia di incontri assieme ai familiari.
Dato che ogni testo vive nella collaborazione tra chi scrive e chi legge, chiediamo al lettore uno sforzo. Perché il tono ed il lessico usati nel manuale, per quanto familiari, per quanto semplificati, rimandano ad argomenti che, più di tanto, non è possibile banalizzare, pena lo svuotamento di senso all’intero libro.
Sapendo bene che questa lettura vi costerà tempo e fatica, abbiamo fatto ogni sforzo per renderla il più possibile piana e scorrevole. Ma non abbiamo voluto guadagnarci la benevolenza di nessuno, né attirarci facili consensi e non nascondiamo che vogliamo chiamare chi legge ad un impegno. Prendetelo allora come una specie di prescrizione medica. A Trieste si usa dire : me lo gà dito el dotor, me lo ha prescritto il dottore.
In cambio, alla fine di ogni capitolo troverete, quasi fosse un piccolo regalo, una storia raccontata da Kenka Lekovic, una giornalista che assieme ad altri ha organizzato corsi di lettura e di scrittura in uno dei tanti programmi di formazione che ogni anno si svolgono nel Dipartimento di salute mentale. Ragazzi e ragazze, uomini e donne, trovano la loro personale via d’uscita anche attraverso questi sentieri.
Nelle nove storie qui presenti, sono riportate in forma narrativa le parole e le vite di queste persone.
E dato che la schizofrenia è una sorta di costellazione di sintomi e di comportamenti, Kenka ha dato ad ognuno dei protagonisti il nome di una stella.


Le credenze feriscono, i fatti aiutano
A questo punto, merita una precisazione la nostra scelta di parlare di schizofrenia.
Si potrebbe dire che la diagnosi di schizofrenia è soltanto un’astrazione che non corrisponde a qualcosa di concreto, di unico e di certo. La nostra e la vostra esperienza ci insegna che alla diagnosi di schizofrenia non corrisponde un quadro di sintomi uguali e riscontrabili sempre, alla stessa maniera in tutte le persone. E che le persone affette da schizofrenia sono una diversa dall’altra e in ognuna di esse i sintomi e i comportamenti si annodano e si snodano in maniera completamente differente. In più, come vedremo nel manuale, non esiste nemmeno una unicità delle cause, non esiste un unico percorso che conduce alla formazione dei sintomi e alla produzione dei comportamenti. Perchè in maniera diversa incidono gli eventi della vita, le relazioni, il contesto sociale.
Insomma, alla parola schizofrenia non corrisponde una malattia unica e definita. Come invece alle parole diabete, infarto, tubercolosi corrispondono quadri clinici meglio definibili e circoscritti. Sintomi che nascono e si formano con cadenze universalmente note e che possiamo riscontrare sempre uguali in diverse persone anche quando il contesto cambia.
Tutto questo discorso ci porterebbe troppo lontano. Qui abbiamo voluto soltanto accennarvi, cercando di scoprire la ricchezza e i limiti di questi interrogativi.

Ciò non significa che non sappiamo di che cosa stiamo parlando. Significa invece che stiamo cercando di articolare meglio le nostre domande di fronte a un problema che, nel corso degli ultimi cento anni, si è sempre più rivelato non riconducibile alla semplificazione.
In questo manuale, la parola schizofrenia viene intesa e usata come un contenitore, dove trovano posto parole e definizioni diverse, che rimandano a condizioni simili, come psicosi, disturbo psicotico, psicosi in personalità psicopatica, dissociazione, sindrome dissociativa, psicosi schizofrenica, sindrome schizofrenica. Ed altri termini che pure vengono comunemente utilizzati.
Ecco, quando diciamo schizofrenia, noi ci riferiamo a tutto questo.
Forse parole relativamente recenti, come ad esempio psicosi o disturbo psicotico, apparirebbero meno connotate in termini di inesorabilità, di destino negativo, di stigma, come invece continua ad essere per la parola schizofrenia.. Anche se oggi tutto questo non è più vero : le persone con schizofrenia sempre più ci stupiscono per la loro capacità di farcela, di riprendersi. Perfino di guarire.
Alcuni dicono che sarebbe bene trovare un’altra parola per dire schizofrenia. Ma questo significherebbe solo censurarla, nasconderla e negarla confermando quanto ad essa si attribuisce di mitico, di misterioso e di alieno.
Noi pensiamo al contrario che bisogna consumarla e corroderla, questa parola. Oggi possiamo farla esplodere, riempiendola delle esperienze nuove e positive di tante persone.
Vivere con la schizofrenia non ha impedito a John Nash di vincere il Nobel per l‘economia, non ha impedito a Gianni di diventare portiere d’albergo, non ha impedito a David Helfgott di girare il mondo con i suoi concerti, non ha impedito a Marina di laurearsi in chimica concludendo il suo dottorato in Svezia e di essere una ricercatrice, non ha impedito a Philip Dick di scrivere i romanzi ed i racconti che lo hanno reso un interprete dei nostri tempi, non ha impedito a Nicole di riprendere il suo lavoro e di diventare la splendida madre che è.
Vivere dolorosamente con la schizofrenia ha permesso malgrado tutto a Paolo di andare almeno il martedì pomeriggio all’allenamento della squadra di calcio della sua associazione, a Silvia di essere una brava banconiera al bar della cooperativa anche se solo per quattro ore al giorno, di più proprio non ce la fa, a Mauro di partecipare al gruppo di scrittura e di riprendere la penna lasciata da parte da molto tempo e finalmente tornare a scrivere le sue belle storie.
Vivere con la schizofrenia e per di più senza tempo nel manicomio non ha impedito a tanti uomini e a tante donne di riaversi, di ritornare a vivere con timidezza e curiosità. E infine non ha impedito a Giovanni Doz, chiuso per trent’anni nel manicomio di san Giovanni, di ritornare nel suo paese in Istria, di riprendere il suo posto nella barca del fratello e la domenica pomeriggio giocare a briscola con gli amici nell’osteria di Umago.
E anche quando sembra che vivere con la schizofrenia sia la condanna inesorabile all’isolamento, al delirio e all’ostilità più cupa, anche quando sembra di essere finiti in una trappola è sempre possibile, oggi, individuare uno spiraglio, una via d’uscita.
L’infermiere del centro di salute mentale che riesce ad accompagnare Roberto alla partita della Triestina. Ogni volta è una scommessa perchè già dal venerdì Roberto si arrabbia con la madre e telefona al centro per dire che no !, che questa volta non ce la farà. E invece sì.
La cooperativa agricola che organizza un corso per giardinieri e un operaio che con ruvida gentilezza riesce a convincere Marisa a restare in aula e poi nel giardino per quasi l’intera mattinata.
E quella volta che Giorgio si era chiuso nella stanza, sigillando col nastro adesivo porte e finestre, e la paura di essere avvelenato lo aveva costretto ad un digiuno inesorabile, che lo aveva reso cattivo, perfino malvagio. L’intervento degli operatori del centro, la durissima trattativa, il trattamento sanitario obbligatorio. E poi via da casa, le parole, il farmaco, le cure. E adesso sembra che Giorgio ricominci a parlare con meno rancore con sua madre.


Il manuale : a chi si rivolge e chi l’ha fatto
Luigi è un papà attento e affettuoso. E’ anche il presidente di un’associazione di familiari di persone con schizofrenia in una piccola città della Campania.
Come esperto, ha letto le bozze del libro, così come hanno fatto altri familiari, contribuendo tutti a migliorarlo. Luigi dunque ha scritto una lunga lettera di commenti. Tra l’altro :
“Mi permetti ? Voi psichiatri guardate l’ammalato come un uomo guarda la sua amante. Avere una relazione extraconiugale significa avere un rapporto con una donna o un uomo diversi dal tuo coniuge “legale”. Ti curi meglio nel vestire, usi tutte le tue belle parole, sei accorto nel rapportarti…Con il proprio coniuge, generalmente è diverso: la routine…dormi insieme, mangi sempre insieme, conosci anche il suo alito al risveglio…Con l’amante ti incontri in piccoli pezzettini della tua giornata…in condizioni ambientali ottimali. Difficilmente avrai modo di sentire la puzza dei suoi piedi, se ne ha trascurato la lavatura per qualche giorno.
Noi con nostro figlio dormiamo, mangiamo, parliamo, ascoltiamo, insomma ci scontriamo24 ore al giorno, 12 di giorno e 12 di notte”.

Noi siamo consapevoli di queste differenze. Sappiamo che le conoscenze di Luigi e di tanti familiari sono conoscenze incondizionate,
costruite con gli incandescenti materiali dell’esperienza quotidiana, sul dolore del conflitto, nella pesantezza della frustrazione. Sono conoscenze non filtrate, non sostenute solo da riferimenti scientifici e perciò tanto più importanti.
Invece le nostre sono conoscenze condizionate, costruite prima a freddo nel rapporto con la scienza, poi verificate a caldo nel rapporto con le persone. Ma resta sempre uno scarto, una differenza, che si tenta di colmare con lo scambio e il riconoscimento delle reciproche e incomparabili esperienze.
Ecco allora che abbiamo scritto il manuale partendo proprio dalla valorizzazione di queste esperienze e di questi confronti.
Dunque vorremmo che fosse letto dai familiari e da tutti quelli che per una ragione o per l’altra vivono assieme ad una persona con schizofrenia.

Ma vorremmo che fosse letto anche da coloro che hanno attraversato o stanno attraversando l’esperienza del disturbo mentale. Perché anche di loro parliamo, chiamandoli continuamente sulla scena, come protagonisti.
E vorremmo che il manuale potesse diventare un utile strumento per gli operatori.
E, perché no, ci piacerebbe che se ne servissero anche i giornalisti che così di frequente si occupano di queste cose.
E vorremmo che lo leggessero i cittadini attivi, quelli che cercano di partecipare consapevolmente alla vita pubblica, quelli che si sforzano di capire e di intervenire, per mettersi al riparo dai don Abbondio delle amministrazioni pubbliche e dagli Azzeccagarbugli della psichiatria.
Ed infine che anche gli amministratori trovassero il tempo di sfogliarne le pagine, per cogliere la profondità dei bisogni di questi particolari cittadini.

Il libro è il frutto del lavoro comune di un gruppo di operatori del Dipartimento di salute mentale di Trieste, che negli ultimi quindici anni hanno contribuito a sviluppare i programmi di sostegno per i familiari.
Non sarebbe stato scritto senza l’aiuto di Adriana Fascì, Eva Bresci, Paolo Borghi, Roberto Mezzina, Paola Pinto, Neva Cok, Matteo Impagnatiello, Pasquale Evaristo, Paola Zanus, Benedetto Capodieci …….che hanno organizzato e gestito i corsi, ricercando e compilando il materiale didattico.
Gli studenti della Facoltà di Psicologia dell’Università di Trieste hanno partecipato ai gruppi di auto-aiuto ed hanno collaborato alle ricerche sul carico, sui bisogni dei familiari e sulle modalità di organizzazione e di funzionamento dei gruppi di lavoro. In particolare Caterina Barbagallo e Paola Ferrara che hanno raccolto e ordinato tutto.
Maristella Cannalire, Luciano Comida e Giuseppe Dell’Acqua, hanno lavorato insieme, cercando di rendere uniforme e leggibile tutto quanto.

Trieste, 3 marzo 2003




la giornalista

Nel ’93 ho fatto l’esame di stato e sono diventata giornalista professionista. Non avevo lavoro, l’agenzia di stampa e la TV privata per le quali lavoravo avevano chiuso, la prima per bancarotta, la seconda con Tangentopoli, e le opportunità a Trieste, dove stavo da qualche anno, erano praticamente nulle. Allora mi è venuta un’idea. Dopo aver pronunciato mentalmente una preghiera molto determinata, ho pensato: non so come, non so dove, voglio mettere al servizio della comunità le mie esperienze, il mio talento. E paf, colpo di genio.
La mattina dopo mi presento al Sert, il Servizio per le Tossicodipendenze, e dico alla dottoressa responsabile: vorrei fare la giornalista dei tossici. Senza batter ciglio, la dottoressa mi risponde: d’accordo, i prossimi 10 mesi stai con noi, osservi e registri tutto, io ti pago e tu mi produci informazione, divulgazione, comunicazione. Se noi quaddentro facciamo tante belle cose ma nessuno lo sa, poco serve.
La dottoressa era una basagliana, e solo un basagliano nella Trieste di allora avrebbe potuto dire, e soprattutto fare, una cosa del genere. Diventai la giornalista dei tossici. La giornalista si fece conoscere e l’anno dopo un primario e più tardi direttore del Dipartimento di Salute Mentale la chiamò a tenere, assieme ad altri “esterni”, un corso. Giornali, radio, lettura, scrittura, sopravvivenza urbana, dare voce, prendere la parola, esistere. In due parole: comunicazione sociale. Quel primario, che si chiama Peppe, diceva sempre una cosa: succede sempre quello che ti aspetti dalle persone.
Ed ecco la giornalista dei tossici e dei matti, la cronista dell’ottimismo, del “si può” triestino. Finché non ne venne fuori “Il cielo sotto Trieste”, il primo giornale di strada di una città che come poche sapeva nascondere la propria sporcizia sociale sotto un tappeto di rose… Corsi, laboratori e giornale di strada facendo, la giornalista che nel frattempo era diventata un po’ scrittrice, pubblicando di qua e di là, racconti e raccontini, poesie, un romanzo persino, fu costretta a ficcare il naso in questioni sempre più delicate. Accadde così che dialogò di Diritti Umani con donne devastate dalla vita, rovistò nelle morti solitarie e nei suicidi della gaia apocalisse triestina, suonò alla porta di famiglie sconquassate dalla malattia mentale, galeotta, fulminea, inspiegabile; incontrò nei caffè letterari cittadini e nelle cucine dei Centri di Salute Mentale persone strane, più o meno “diverse”, alcune sul punto di guarire, alcune forse, altre chissà. E queste la condussero per mano nei retrobottega delle loro menti, escursioni organizzate o improvvisate nel teatro anatomico della sottrazione, della paura, del dolore, ma anche della speranza e del desiderio, del coraggio di immaginarsi nuovi. Lei ci andò, ogni volta non potendo fare a meno di domandarsi se un giorno, domani stesso magari, al posto di una di quelle donne, di uno di quei ragazzi o di quei vecchi invecchiati anzitempo, avrebbe potuto starci lei. In fondo nulla lo vietava, nulla glielo poteva garantire, in fondo il cielo è uno. Oggi a te, domani a me, non è così?
Alla fine, quel poco o molto che ha fatto, lo ha fatto per sé, poiché investire un talento, una professionalità, un battito di ciglia se altro non si può, da qualche parte, nel mondo, dentro la vita di un altro, apparentemente inconciliabile con la “mia”, è coltivare un futuro anche per sé. Così le storie di Aldebaran, Vega, Cassiopea, Alfa e Beta Centauri e gli Altri e le Altre sono minuscoli accenni a ben più grandi e solenni esplosioni di stelle, che tuttavia mi piacerebbe facessero almeno un po’ di luce su un’Ombra che ho imparato essere di Tutti.
Ma non mi sarebbe stato possibile se quel mattino di 9 anni fa, una dottoressa basagliana non mi avesse restituito la spregiudicata, pazza, umana fiducia con la quale arrivavo da lei, il tesserino dei giornalisti nuovo di zecca, nella tasca dei jeans.

Rubrica realizzata in collaborazione con

Associazione Laura Saiani Consolati - BRESCIA
http://www.psichiatriabrescia.it

COLLABORAZIONI

Poche sezioni della rivista più del NOTIZIARIO possono trarre vantaggio dalla collaborazione attiva dei lettori di POL.it. Vi invitiamo caldamente a farci pervenire notizie ed informazioni che riteneste utile diffondere o far conoscere agli altri lettori. Carlo Gozio che cura questa rubrica sarà lieto di inserire le notizie che gli farete pervenire via email.

Scrivi a Carlo Gozio
                                   
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