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IL DIBATTITO SULLA COSIDDETTA LEGGE 180

Tonino Cantelmi

Presidente dell’Associazione Italiana Psicologi e Psichiatri Cattolici
Presidente della Società Italiana di Terapia Cognitivo Interpersonale
Vice Presidente Associazione Psicoterapeuti della Società Italiana di Medicina Psicosomatica


Il Ministro Sirchia non ha esitato a parlare di “emergenza” riferendosi ai problemi connessi con il delicato tema della salute mentale, tema intorno al quale si accendono polemiche (spesso inutili) e dibattiti (spesso infiniti ed inconcludenti, come a volte gli psichiatri sanno fare). In effetti il dibattito sulla cosiddetta “riforma Basaglia” si è riacceso per l’ennesima volta dopo alcuni recenti fatti di cronaca, così come puntualmente succede da un paio di decenni. E, come quasi sempre succede, immediatamente si levano le grida a difesa dello status quo, quasi a voler coprire altre grida, forse più scomposte e addolorate di famiglie ed utenti.

E’ ovvio che non dovremmo addossare responsabilità ad una riforma di principi sacrosanti, che hanno sancito la fine dell’era manicomiale in Italia e chiarito che dinamiche di segregazione e di emarginazione non possono essere spacciate in nessun modo per cure. Eppure tutti dovremmo cogliere la necessità di andare oltre, oltre la cosiddetta legge 180, oltre modelli veteropsichiatrici che hanno caratterizzato alcune realtà italiane, stigmatizzate nel sempre dimenticato “Rapporto 2001 sulla Salute mentale” dell’OMS. Sarebbe anche bene mettere da parte vecchi ritornelli, come quelli della carenza del personale (un esercito di oltre 35.000 operatori nei Dipartimenti di Salute Mentale, altre migliaia di operatori presenti in Consultori, Dipartimenti Materno-Infantili, e altre strutture, universitarie e non, che più o meno direttamente si occupano di salute mentale) o come quello della mancanza di strutture (le strutture previste dall’ultimo Progetto Obiettivo sono state per lo più ampiamente realizzate, anzi alcuni indici sono oltre gli standard previsti, con l’unica eccezione per i posti letto per acuzie).

Dunque? Dunque qualcosa non funziona. Dunque è necessario mettere mano ad un ulteriore cambiamento. I difensori dello status quo, che spesso hanno costruito le loro carriere grazie all’appartenenza ideologica più che ai meriti scientifici, insistono: occorre applicare ciò che in un quarto di secolo non è stato applicato e che nessun Paese del mondo si è sognato di copiare tout court. Si tratta di una posizione insostenibile, astorica ed ascientifica. Non c’è dubbio che non siamo all’anno zero e non c’è dubbio che non è possibile alcun ritorno neanche a forme larvate di manicomialismo. La psichiatria del territorio è una realtà positiva, gli oltre 700 Centri di Salute Mentale, unitamente ad altre migliaia di strutture territoriali, benchè spesso al collasso e incapaci di fronteggiare le nuove emergenze (dove si curano i quasi cinque milioni di italiani affetti da disturbi affettivi, come la depressione, e dai disturbi d’ansia? Quali sono le risposte per l’anoressia? C’è qualcuno che si occupa di pazienti che oltre ad avere un problema psichiatrico fanno abuso di sostanze?), tuttavia svolgono una funzione insostituibile rispetto alla grave psicopatologia.

Eppure più di qualcosa non funziona e la più grande associazione di familiari, l’ARAP, da anni denuncia ciò che l’OMS ha scritto nero su bianco a proposito dell’Italia: la riforma ha avuto un prezzo, pagato per intero dalle famiglie. Le famiglie poi hanno subito anche una sistematica e incredibile demonizzazione, quando non erano alleate con il carro ideologico: quanti insuccessi terapeutici sono stati attribuiti dagli operatori alla famiglia stessa, accusata ora di essere “mattogena”, ora di “colludere” (tipico termine della veteropsichiatria ideologica) con la psicopatologia del figlio, ora di “mettere un atto resistenze e difese psicotiche” e di opporsi alle cure? Ma quanti ritardi invece sono da attribuirsi a diagnosi improprie e a protocolli terapeutici ignorati da operatori tenacemente ancorati a modelli socio-psicogenetici della malattia mentale, sino a negare quasi del tutto la dimensione biomedica della stessa? L’OMS, nel rapporto già citato, afferma che solo l’otto per cento delle 300.000 famiglie italiane, in cui un membro è affetto da schizofrenia, ha ricevuto un adeguato intervento psicoeducativo, giudicato fondamentale per il trattamento della schizofrenia stessa. Innegabile poi il gap formativo degli operatori italiani in relazione allo sviluppo delle neuroscienze ed all’adozione di protocolli terapeutici informati ai modelli biomedici più evoluti.

Rimane ovviamente ancora elusa una articolazione dell’obbligatorietà delle cure per pazienti gravi e non collaborativi più rispondente ad esigenze cliniche (chi può negare che la gran parte delle dimissioni dopo un ricovero obbligatorio per acuzie sia precoce rispetto alle necessità cliniche dei pazienti?) e una risposta concreta al bisogno di assistenza di pazienti cronici non assistibili a domicilio. I difensori dello status quo sembrano ignorare alcuni vecchi problemi (ideologicamente negati in passato) e soprattutto le nuove problematicità, a cui l’attuale organizzazione non può dare risposte ed affidano ad un superato Progetto Obiettivo (perennemente, a loro dire, irrealizzato e sempre da realizzare e da applicare) la risposta, negando pervicacemente ciò che l’OMS ha più volte sostenuto: perché le politiche per la salute mentale non siano velleitarie è necessario che le stesse siano sostenute da passaggi legislativi.

L’affezione per la cosiddetta legge 180 (successivamente assimilata nella legge istitutiva del SSN) è sicuramente tanta, tuttavia una svolta legislativa ci consentirebbe di uscire da un inutile dibattito ideologico, sostenendo un processo evolutivo in atto, che senza negare quanto già fatto, ci consenta di andare oltre. Il disegno di legge della On. Burani, grandemente criticato dai conservatori posti a difesa dello status quo, proprio nella sua ultima versione risponde alle esigenze di rinnovamento sopra descritte. Per esempio, con pieno accordo dei neuropsichiatri dell’infanzia e dell’adolescenza, attribuisce grande importanza ad interventi precoci (l’otto per cento dei bambini sotto i 10 anni presenta problemi psichiatrici), articola in modo efficiente gli interventi obbligatori, promuove risposte per la depressione, l’anoressia e altre patologie attualmente trascurate, offre una risposta ai bisogni diversificati dei pazienti in funzione della fase di malattia (acuzie, postacuzie e cronicità). La grandine di critiche, peraltro nell’ipotesi più benevola attribuibili ad una lettura superficiale del progetto, dimostrano che il partito dei conservatori e dei difensori dello status quo non ha nessuna intenzione di recedere da posizioni di fatto insostenibili: il 70% degli italiani, secondo una recente indagine, non sono soddisfatti dell’attuale organizzazione e la richiesta di cambiamento è ineludibile.

Al Ministro Sirchia un appello: il problema riguarda, più o meno, un quinto delle famiglie italiane e la difesa dello status quo è sostenuta da una nomenklatura potente, che però non rappresenta né la maggioranza delle famiglie, né la maggioranza degli operatori. L’esigenza di modernizzare il sistema è inarrestabile: non cè dubbio che le Regioni avranno un ruolo decisivo, ma tocca sicuramente al Governo il compito di dare un segnale, un segnale atteso da tutti.

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Rubrica realizzata in collaborazione con

Associazione Laura Saiani Consolati - BRESCIA
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