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XII COMMISSIONE
AFFARI SOCIALI

INDAGINE CONOSCITIVA
Seduta di martedì 5 febbraio 2002

La seduta comincia alle 11,55.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Audizione di rappresentanti dell'AITSAM, dell'ARIS, della Fondazione IDEA, di Psiche 2000, dell'AIPPC, dell'AUPI e della Pre-Sam.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'attuazione del progetto obiettivo «tutela della salute mentale», l'audizione di rappresentanti dell'AITSAM, dell'ARIS, della fondazione IDEA, di Psiche 2000, dell'AIPPC, dell'AUPI e della Pre-Sam, che ringraziamo per la loro presenza. Ricordo che, sulla base di accordi già presi, interverrà un rappresentante per associazione.
Do la parola ai nostri ospiti per i loro interventi introduttivi.

LINA TALI MATTIOLI CORONA, Coordinatore nazionale dell'AITSAM. La ringrazio, signor presidente, per avere offerto la possibilità di dare il nostro contributo.
Innanzitutto, ci sembra necessario tracciare, sia pur brevemente, un quadro della situazione generale dal punto di vista delle famiglie. La risposta complessiva alla domanda di salute mentale è disomogenea e carente su tutto il territorio nazionale e la diffusione delle buone pratiche mediche, pure esistenti, è lenta e poco incoraggiata. La normativa in vigore, che riteniamo in larga misura sufficiente, è tuttavia scarsamente applicata; le strutture territoriali sono carenti e inadeguate; il numero degli operatori è insufficiente; non ci sono sanzioni per le regioni e per le ASL inadempienti e questo è uno dei nodi del problema. Inoltre, gli enti pubblici non onorano gli impegni e le responsabilità che la normativa vigente attribuisce loro (disponibilità di strutture e quote di edilizia popolare).
È in questo contesto, ci sembra, che prende forma la proposta di legge n. 174, la cui struttura complessiva appare sostenuta più da esigenze e richieste di tipo sociale (contenimento-sicurezza) e familiare (esasperazione-delega) piuttosto che dai bisogni terapeutico-sanitari riconosciuti oppure espressi dai malati.
Vorrei svolgere adesso alcune osservazioni sui progetti di legge presentati. L'obbligatorietà dell'internamento, così come la sospensione, richiesta da « chiunque ne abbia l'interesse», rappresenta emblematicamente la visione complessiva della proposta di legge che insiste, si occupa e si preoccupa esclusivamente della pericolosità e del controllo e mai della sofferenza, dei diritti del malato, della sua complessità umana, psichica e spirituale.
Il trattamento sanitario obbligatorio non può che essere richiesto e revocato dal medico di famiglia o dallo psichiatra, poiché si tratta di una cura sanitaria ed ha finalità mediche. Riteniamo comunque il trattamento sanitario obbligatorio uno strumento «estremo», il quale provocando nella persona malata sentimenti di paura, di angoscia, di disistima e di sfiducia, è causa di stigma; spesso è una resa terapeutica là dove è fallita la presa in carico ed il progetto riabilitativo personalizzato non è stato realizzato. Ovunque i servizi territoriali sono efficienti, infatti, il trattamento sanitario obbligatorio si riduce vistosamente.
Di maggior interesse si prefigura, invece, il trattamento sanitario obbligatorio territoriale. Riteniamo che l'uso di questi strumenti debba essere comunque limitato, controllato e regolamentato secondo i criteri di fondo della normativa vigente. Riteniamo altresì importante ed apprezzabile che la tipologia delle strutture residenziali per i trattamenti terapeutico-riabilitativi (le CTRP indicate dal progetto obiettivo nazionale) sia distinta per fasce di età, fermo restando il numero di 12 persone e l'inserimento in contesti urbani (non negli ex ospedali psichiatrici) ed in luoghi possibilmente separati dall'ospedale e dai centri di salute mentale.
Inoltre, non crediamo si possa attuare una riabilitazione in strutture affollate (50 persone), spersonalizzate, in un contesto socio-ambientale lontano dalla realtà, dagli effetti, dal territorio di appartenenza e dalla dinamicità della vita quotidiana. In queste condizioni emarginanti, si riproducono la malattia ed il manicomio piuttosto che la normalità, si escludono i nostri familiari malati dai più elementari diritti di cittadinanza e si rischia di sovrapporre alla cronicità spontanea della malattia anche quella dell'emarginazione e dell'istituzionalizzazione.
Se si ritiene che il servizio pubblico non sia in grado di dare risposte adeguate, è pensabile che lo possa fare il privato? Riteniamo invece urgente che nel servizio pubblico sia resa attiva la funzione di effettivo controllo sulla programmazione, sulla qualità e sulla spesa.
Infine, un altro aspetto preoccupante e carente della proposte di legge n. 174 è la gestione di pazienti minorenni che, così come è delineata, è in aperto contrasto con il progetto obiettivo nazionale e anche con qualsivoglia approccio orientato alla qualità, al rispetto umano ed alla dignità della persona.
Da ultimo vogliamo segnalare il tema della prevenzione, che riteniamo il cardine di tutta la progettualità connessa alla salute mentale, la quale viene citata nel titolo della proposta di legge n. 174, ma poi è completamente ignorata nel testo. Le conclusioni che vogliamo trarre da questo breve intervento e le proposte che intendiamo avanzare sono le seguenti: introdurre vincoli per l'attuazione della normativa in vigore (progetti obiettivo nazionali e regionali), associando a questi l'applicazione di sanzioni; valorizzare e diffondere i più avanzati progetti obiettivo regionali e contestare i meno adeguati. Al riguardo, esistono ottimi progetti obiettivo regionali, ad esempio quello del Veneto, che potrebbero servire da modello anche per altre regioni. Inoltre, occorre attuare i patti per la salute mentale (previsti dal progetto obiettivo nazionale) tra tutti i soggetti coinvolti ed i molteplici attori che devono intervenire nel campo della salute mentale (sanitari e sociali, pubblici e privati, enti locali, associazioni e risorse del territorio); sollecitare la conferenza Stato-regioni a rispettare gli impegni assunti dal suo presidente nel corso della prima conferenza nazionale della salute mentale (tenutea l'anno scorso nel mese di gennaio a Roma), in particolare il vincolo del 5 per cento del budget della spesa sanitaria regionale; realizzare le strutture intermedie previste; attuare tutte le strategie di promozione e prevenzione; promuovere e incentivare le buone pratiche mediche; sollecitare i servizi affinché gli aspetti clinici, farmacologici, terapeutici e sociali siano fortemente integrati tra loro ed i progetti terapeutici personalizzati elaborati insieme alla persona interessata, condivisi con la famiglia e dinamicamente monitorati e modificati, tale da rendere le persone consapevoli e coinvolte nelle loro processo di guarigione.
Infine, occorre promuovere una politica sociale che valorizzi le cooperative di tipo B e l'informazione sul campo di operatori tecnici delle aziende sociali.
In conclusione, chiediamo che la normativa vigente sia applicata e che l'attuale progetto obiettivo nazionale, sostenuto dalle proposte di sanzioni, possa essere continuare per almeno altri due anni, dando modo a tutte le regioni di adeguarsi e di applicarlo.

ELISABETTA ANGIOLINI, Presidente dell'ARIS. Ringrazio la Commissione per l'invito a partecipare alla seduta odierna.
A mio avviso, il progetto obiettivo 1998-2000, pure così ricco di suggerimenti al riguardo, è stato recepito in modo abbastanza soggettivo dalle diverse ASL e dalle varie zone territoriali. Mi riferisco, in particolare modo, a quanto successo in Trentino; ho notato che è stato sottolineato, nell'ultimo progetto obiettivo, il problema dei malati cronici ovvero dei malati gravi: mi sembra che, da tale punto di vista, qualcosa, per così dire, «si sia mosso». Ma, data la complessità della situazione psichiatrica, ritengo che non si possa prendere in considerazione solo il malato grave.
Per quest'ultimo, tra l'altro, sono state attivate alcune strutture di tipo solamente assistenziale, senza nessuna valenza terapeutico-riabilitativa e neppure socio-riabilitativa, come, invece, si sarebbe dovuto fare in conformità al progetto riabilitativo. Anche sulla base della nostra esperienza quale associazione di familiari di malati, ritengo che qualsiasi paziente, anche cronico e grave, possa, se riabilitato adeguatamente, riuscire a trarre beneficio dalle cure e fare progressi. Non bisogna mai, in questo settore, perdere la speranza perché le implicazioni e gli effetti dei trattamenti possono essere imprevedibili.
Debbo tuttavia rilevare che, almeno con riferimento alla situazione provinciale del Trentino, si persegue l'obiettivo della sola assistenza; infatti, le strutture presenti sul territorio, sono esclusivamente quelle per malati gravi cronici mentre mancano centri riabilitativi. Ricordo, al riguardo, che già la legge n. 180 del 1978 parla di prevenzione, cura e riabilitazione: il momento successivo alla cura, infatti, deve essere la riabilitazione. Pertanto, non si può effettuare soltanto il trattamento farmacologico disgiunto da tali interventi successivi; non si può conferire al reparto la natura di luogo dove si cura e si fronteggia esclusivamente l'emergenza al fine, poi, di dimettere il paziente senza provvedere ad una sua riabilitazione. Quest'ultima è prevista per tutte le patologie e non vedo perché non debba essere stabilita anche per il malato psichiatrico, che, tra l'altro, ne ha, forse, maggiore bisogno.
Però, al di là del malato grave e cronico, esiste tutta una gamma di bisogni che le famiglie rappresentano alle associazioni, riguardanti per esempio la situazione in casa ovvero in famiglia, di giovani con alcuni sintomi iniziali. Se si rivolgono ai servizi, non ricevono risposta perché non vogliono farsene carico; generalmente, infatti, si aspetta che la situazione cronicizzi e diventi grave; attendono, cioè, che «succeda qualcosa» per poi intervenire quando è troppo tardi: ciò non deve capitare più.
Bisogna intervenire a tutto campo, coprendo lo spettro di tutte le possibili utenze, fornendo mezzi, strumenti (anche farmacologici) e strutture che prendano in considerazione l'insieme dei loro bisogni. Deve esserci, anche a livello di strutture, un maggiore coordinamento ed una maggiore differenziazione, secondo un percorso dinamico, graduato per gravità della patologia; in tale senso, occorrono strutture per i malati gravi; strutture riabilitative dove, eventualmente, possa accedere anche il malato grave, se riabilitato almeno in parte; centri basati sulle cooperative del lavoro, dove i pazienti possano svolgere un certo tipo di attività; infine, case-famiglia o appartamenti protetti. Naturalmente, per ogni paziente deve essere seguito e verificato uno specifico progetto terapeutico. In particolare, i giovani che presentano i primi sintomi della malattia mentale non devono essere più abbandonati; bisogna farsene carico perché il servizio interviene sempre troppo tardi.
Anche la nostra associazione ha aderito ai punti sui quali numerose associazioni, nella riunione di Torino - incontro tenutosi il 25 Novembre 2001 nella sede della DIAPSI del Piemonte - sono convenute. Nella mia esposizione, cercherò ora di attenermi a detti punti, che ho illustrato nella relazione a vostra disposizione. Trattandosi di aspetti già illustrati nei precedenti interventi, mi soffermerò solo su quelli che, a mio avviso, meritano maggiore attenzione ed approfondimento.
Il punto n. 1, nel presupposto che si tratti certamente di una malattia vera e propria, contiene l'asserzione secondo la quale la malattia mentale «deve rimanere di competenza sanitaria».
Quindi, al punto n. 10, si precisa l'esigenza di procedere ad un monitoraggio delle situazioni esistenti nei vari servizi attraverso l'istituzione di una apposita commissione, che, per la sua natura composita ed esterna, sia al di sopra delle parti e verifichi, di volta in volta, il grado di raggiungimento degli obiettivi irrogando adeguate sanzioni. Si dovrebbe, invero, trattare di una authority in grado di valutare il funzionamento dei servizi, lo stato dei pazienti, l'eventuale loro possibilità di uscire dalle strutture quando si trovino nella condizione, per così dire, di «passare oltre». I pazienti, infatti, devono avere anche questa possibilità, seguendo nuovi trattamenti qualora si sia raggiunto un certo grado nel percorso riabilitativo. Invece, tuttora, spesso, il malato non può «uscire», è costretto a rimanere vincolato ad un determinato tipo di struttura al di là della quale, oltre che sulla famiglia, non può contare su nulla. Occorre, dunque, che, da un lato, il paziente abbia la possibilità di usufruire di trattamenti maggiormente graduati e, dall'altro, si responsabilizzino maggiormente - con apposita normativa legislativa - i vari operatori del settore.
Il punto n. 14, intitolato consultazione obbligatoria, prevede, al fine di monitorare i bisogni effettivi del territorio, la consultazione appunto obbligatoria delle associazioni di familiari. Queste, infatti, sono il primo filtro per accedere ai servizi.

SIMONA PIZZIGONI, Direttore generale della fondazione IDEA. Anzitutto, desidero ringraziare la Commissione per l'invito ricevuto dalla nostra fondazione, che opera sull'intero territorio nazionale dal 1983. Le proposte che avanziamo in questa sede si riferiscono alle persone che soffrono di depressione e di ansia, sottolineando come sia necessaria, oggi, una maggiore attenzione verso tali soggetti. È importantissimo estendere l'assistenza anche ai pazienti affetti da disturbi che, se mi permettete, solo erroneamente vengono identificati come patologie minori: non solo, infatti, a livello statistico, la loro percentuale nella popolazione è decisamente maggiore rispetto alle patologie gravi, ma è anche stato provato che le forme di depressione e di ansia, se non trattate correttamente, possono cronicizzare e, quindi, dare luogo a forme sicuramente più gravi.
Per noi, quindi, è fondamentale porre innanzitutto l'accento su una seria e reale prevenzione; è ovviamente necessaria, a tale fine, una campagna di informazione rivolta all'intera popolazione. Bisogna, infatti, fornire un'informazione corretta non solo sulla realtà di tali disturbi ma anche sulla loro curabilità. A nostro modesto parere, invero, sarebbe indispensabile una campagna di informazione rivolta, da un lato, all'intera popolazione - tale da coinvolgere, quindi, famiglie, comunità, scuola e via dicendo - e, dall'altro, direttamente agli studenti delle scuole medie superiori. Un altro grave problema sul quale è oggi necessario, infatti, porre l'accento è la diffusione di tali patologie tra gli adolescenti, patologie spesso non riconosciute, che successivamente si cronicizzano dando luogo a problemi gravissimi.
Teniamo inoltre a sottolineare l'importanza del riconoscimento del ruolo svolto dalle associazioni da parte dello Stato e del settore pubblico: infatti, siamo convinti che la sinergia tra pubblico e privato possa fare molto in questo settore. Se mi consentite, vorrei citare come esempio due attività che abbiamo realizzato insieme al settore pubblico ed i risultati che queste hanno prodotto. Infatti, da anni siamo impegnati, ad esempio, nella creazione presso ospedali pubblici di centri ambulatoriali specializzati nella cura della depressione e dell'ansia. Occorre ricordare che oggi chi soffre di tali patologie è costretto, per motivi logistici, a farsi visitare presso centri che si trovano nei reparti psichiatrici degli ospedali. Dal momento che già si tratta di patologie invalidanti, per una persona che soffre di depressione è ancora più critico farsi visitare in un reparto psichiatrico. Attualmente, sono stati aperti con il nostro supporto due centri in ospedali pubblici a Milano e tali centri sono diventati in pochissimi anni un punto di riferimento per moltissime persone. L'affluenza in questi centri è maggiore rispetto a quella registrata presso gli ospedali psichiatrici pubblici nell'anno precedente e nello stesso anno. Quindi, una persona che soffre di depressione o di ansia è più portata a farsi curare presso un centro o un ambulatorio separato dal reparto di psichiatria: credo sia importante sottolineare questo aspetto.
Inoltre, riteniamo doveroso, o comunque necessario, anche il riconoscimento delle attività di supporto terapeutico ai malati di depressione o di ansia, vale a dire il riconoscimento (recentemente operato dalla regione Lombardia) della validità e dell'importanza dell'autoaiuto quale valido complemento nella gestione a lungo termine del paziente che soffre di tali patologie. Il concetto di autoaiuto per la depressione o per l'ansia è entrato in Italia solo da pochi anni; addirittura, fino a quattro o cinque anni fa lo si riteneva uno strumento assolutamente superfluo e non sufficientemente valido per i pazienti affetti da tali patologie. Ebbene, a distanza di pochi anni la sua grande validità è stata riconosciuta non solo dalla comunità scientifica, ma anche dagli operatori sanitari perché, come sapete, la depressione o l'ansia (oltre al grave dramma e al tasso individuale di sofferenza altissimo che la persona patisce) comportano per il malato anche una grave difficoltà di inserimento sociale.
L'autoaiuto, quindi, permette alla persona che soffre di sentirsi molto più compresa e di iniziare un lento lavoro di riabilitazione ai fini del suo reinserimento sociale. Tenete conto che l'autoaiuto non viene concepito come un sostegno terapeutico psico-rieducazionale perché non prevede la presenza di medici, bensì di volontari appositamente preparati. A distanza di quattro anni, attualmente abbiamo in Italia 40 gruppi di autoaiuto e 20 sono in fase di costituzione. Abbiamo dunque a supporto dei dati molto confortanti, tanto che nell'ultimo anno sono moltissime le strutture pubbliche che ci hanno chiesto di costituire al proprio interno gruppi di autoaiuto o di poter inviare persone per tale scopo perché, non nascondiamocelo, questi sono anche modi per abbattere i costi sociali ed economici che tuttavia aiutano in modo concreto le persone che soffrono.
Infatti, i costi sociali si abbattono in modo molto chiaro sia con gli ambulatori, sia con i gruppi di autoaiuto. È stato provato intanto che le persone si rivolgono più frequentemente al centro pubblico perché si sentono comunque appoggiate da questa collaborazione tra l'ambulatorio ed il gruppo di autoaiuto che li segue. Sapete benissimo peraltro che la persona che soffre di depressione o di ansia si rivolge allo psichiatra, in media, con una frequenza decisamente superiore rispetto a qualsiasi altro malato di diversa patologia. Ebbene, è stato dimostrato che grazie all'ambulatorio ed al gruppo di autoaiuto diminuisce il ricorso al medico ed il paziente migliora decisamente prima. Ciò significa che dobbiamo assolutamente avere riguardo di chi soffre di depressione e di ansia, perché oggi la situazione è allarmante. Tenete conto che si rivolgono a noi circa 50 mila persone ogni anno e più della metà sottolineano le carenze oggi esistenti proprio dal punto di vista assistenziale (non voglio addentrarmi nella valutazione della capacità degli specialisti: vi sono specialisti validissimi), proprio perché oggi il sistema sanitario è orientato (e possiamo capire perché) alla cura e alla prevenzione delle patologie maggiori.
Credo quindi che per affrontare in modo serio e a 360 gradi tali patologie - che purtroppo, non dobbiamo nascondercelo, sono sempre più diffuse - si debba adottare un approccio completo che vada dalla prevenzione all'informazione fino alla risposta concreta ai bisogni delle persone grazie ai centri specialistici e di autoaiuto. Sono convinta, dunque, che attivando una politica a 360 gradi nel giro di cinque anni si possano non solo abbattere i costi economici (cifre alla mano), ma risolvere il problema in modo abbastanza completo.

ALDO THIELLA, Vicepresidente di Psiche 2000. Voglio innanzitutto dire che l'essere riusciti a liberare il paese dall'esperienza manicomiale costituisce da oltre vent'anni il nodo del dibattito svoltosi nel nostro paese; tuttavia, come accade nel fervore di un dibattito ideologico, può darsi che l'ideologia invada spesso lo spazio proprio della legislazione. Questo non significa negare alcuni meriti della legge n. 180 del 1978 e conseguentemente della legge n. 833 del 1978 che ha istituito il servizio sanitario nazionale. Purtroppo, molti di questi meriti teorici sono rimasti a livello di intenzioni o semplicemente di dibattiti fumosi. Sono comunque evidenti, di fatto, le inadempienze o meglio le lacune dell'attuale legislazione, che include anche il progetto obiettivo nazionale e quelli regionali.
Tali inadempienze sono numerose; in primo luogo, l'attenzione specifica ai problemi della salute mentale in età evolutiva è stata scarsa o inesistente e lo sviluppo di strategie di prevenzione è stato praticamente assente nelle scuole. In secondo luogo, il centro di salute mentale, che dovrebbe essere il fulcro della psichiatria, funziona se ci sono operatori adeguati, capaci e motivati; purtroppo questo avviene in ben poche ASL, ed allora è necessario responsabilizzare gli operatori, altrimenti rischiamo di passare altri vent'anni in chiacchiere. Per di più, la cronicità dei pazienti, dimenticata dal legislatore, e la non consapevolezza della malattia hanno prodotto devastanti sofferenze ai malati e ai loro familiari.
Un altro problema è costituito dal fatto di non aver posto attenzione sulle responsabilità di chi, a tutti i livelli, deve applicare quanto previsto; inoltre, sono stati predisposti, peraltro con gravissimo ritardo, progetti obiettivo che in gran parte sono pure utopie, perché non sono cogenti e non hanno la forza di legge essendo, in realtà dei regolamenti. Infatti, la loro applicazione dipende quasi esclusivamente dalla sensibilità di singole figure a livello politico, dirigenziale della regione e locale delle ASL, quali i direttori generali, i medici e paramedici.
Esiste anche il problema relativo al trattamento sanitario obbligatorio, che non è ancora espletato con modalità di garanzia per il cittadino. Il trattamento sanitario obbligatorio, infatti, non è solo un problema psichiatrico-medico, ma riguarda anche il giurista: è necessario trovare un equilibrio tra la libertà del singolo, la responsabilità sociale e il problema della malattia nel momento della crisi acuta, il che non può essere affrontata con ore di ritardo solo perché ci sono numerosi passaggi, carte da produrre o «palleggi» di responsabilità.
Vorrei evidenziare, inoltre, come l'ospedale civile al quale viene assegnato l'onere del ricovero psichiatrico spesso non è capace di rispondere alle esigenze del malato, che non ha bisogno solo di un posto letto, ma anche di un ambiente vivibile, dove il trascorrere del tempo non sia più alienante della stessa malattia. Infatti, gli spazi nei reparti ospedalieri riservati a questo tipo di pazienti da amministratori scellerati sono spesso angusti, se non dei veri e propri minimanicomi.
Vorrei segnalare, infine, che le comunità di accoglienza sono troppo poche ed è tuttora sottovalutata la questione di pazienti cronici o quelli che non hanno più famiglia, il cosiddetto «dopo di noi», sottolineando tra l'altro che i finanziamenti erogati per la psichiatria sono stati scarsissimi.
Visto che l'odierna audizione è indirizzata conoscere lo stato di attuazione del progetto obiettivo «Tutela salute mentale 1998 -2000», ribadiamo che tale progetto, inclusi i progetti obiettivi regionali, si sono rivelati strumenti inadeguati ed inefficaci per garantire un'assistenza reale ai malati di mente. A nostro avviso, non è possibile lasciare tutto alla buona volontà di politici ed operatori regionali e locali, considerato che in questo paese tali figure vengono comunque stipendiate anche se fanno poco o nulla; non è necessario essere dei profeti per immaginare quanto è accaduto in Italia, essendo la psichiatria una tematica che desta poco interesse o appetiti.
A riguardo, facciamo due esempi. In primo luogo, che senso ha prevedere un operatore ogni 1.500 abitanti quando questo parametro non è rispettato da nessuna ASL italiana ed alcune sono al di sotto del 50 per cento rispetto al livello di personale necessario? Inoltre, che senso ha invio di una circolare da parte del ministero della salute per invitare le regioni a spendere almeno il 5 per cento del budget regionale ? Tale parametro, oltre che inadeguato, risulta non rispettato dalle regioni stesse; il tutto, invece, dev'essere reso obbligatorio.
Infine, vogliamo ricordare la permanenza in attività degli ospedali psichiatrici giudiziari che, dipendendo dal ministero della giustizia, non sono stati coinvolti dalla riforma del 1978; essi costituiscono, spesso, il rifugio «obbligato» di pazienti psichiatrici che, commettendo piccoli o insignificanti reati, vengono inviati in queste strutture per tempi orrendamente lunghi. Alla luce di quanto sopra, pur non negando il merito ed i principi ispiratori della legge n. 180 del 1978, crediamo fermamente non più rinviabile un suo aggiornamento; infatti, tale legge, per le lacune rivelate, va migliorata anche perchè, nel suo funzionamento, nella maggior parte dei casi, dopo brevi trattamenti, restituisce il paziente alla famiglia quando, pure, questa sussista. A nostro avviso, attraverso norme aventi forza di legge, si deve necessariamente indicare con precisione i servizi e le strutture e definire gli standard minimi; penalizzare gli amministratori pubblici che non applichino quanto previsto; affrontare con realismo il problema dei malati gravi che rifiutino le cure; responsabilizzare maggiormente gli operatori; definire i finanziamenti per la spesa corrente; prevedere un apposito finanziamento per la costruzione ed il miglioramento degli edifici-strutture; prevedere controlli costanti.
In ultima analisi, il piano-obiettivo nazionale 1998-2000 sarebbe valido e meriterebbe di essere trasformato in provvedimento con forza di legge se si apportassero tali doverose modifiche: il TSO deve essere umanizzato; vanno migliorati i servizi; si devono prevedere opportune sanzioni per chi non rispetta quanto previsto dalla legge.

TONINO CANTELMI, Presidente dell'AIPPC. Anch'io desidero ringraziare la Commissione per averci convocato. Credo occorra spendere qualche parola circa l'aspetto tecnico dell'ultimo progetto-obiettivo che, come gli altri e come tanta «materia» correlata, pone la propria attenzione soprattutto sugli indici di struttura. Vi è stata, nella nostra tradizione psichiatrica recente, una lunga sottovalutazione degli indici di processo e degli indici di esito; abbiamo registrato un paradosso che è tipicamente italiano: da un lato, la rinuncia straordinaria e magnifica ai manicomi ovvero qualcosa di ultramoderno; dall'altro, un progressivo arretramento dell'aspetto tecnico-scientifico della nostra psichiatria, proprio attraverso un meccanismo di sottovalutazione degli indici di processo e degli indici di esito. Ciò, a proposito dei progetti-obiettivo, cambia i termini della questione, anche se essi rimangono, comunque, per così dire, «liste di desideri» a maglie molto larghe ed interpretabili, che consentono la differenziazione tra varie aree. Anche nei casi nei quali si sono raggiunti sufficienti o, addirittura, discreti indici di struttura, non mancano, poi, le inefficienze e, quindi, occorre spostare l'attenzione su altri indici.
Consideriamo con favore il dibattito in corso su due punti, a nostro parere, essenziali, semplici e tuttavia, per certi versi, complicatissimi. Il primo attiene alla grande conflittualità - che, in qualche modo, siamo chiamati a risolvere - tra la graduazione della pur necessaria obbligatorietà delle cure e la tutela della dignità dei pazienti. Non vi è dubbio alcuno che, per affrontare il problema, sia necessario molto realismo; vediamo, quindi, con favore l'ipotesi di introdurre gradi di obbligatorietà differenziati purché vi siano rigorose modalità di controllo, di valutazione dell'operato e di tutela dei diritti e della dignità dei nostri pazienti.
Da sempre conflittuale nella psichiatria italiana è anche il drammatico rapporto tra la residenzialità, con il suo frequente scivolamento verso forme di abbandono e di ghettizzazione, e, invece, la necessità di dare una risposta a pazienti affetti da malattia cronica. Il problema della cronicità non è così banale; la sua sottovalutazione, insieme a quella degli indici di processo e di esito, è un altro degli elementi che hanno reso meno moderna la nostra psichiatria. La cronicità esiste, la patologia psichiatrica è complessa e necessita anche di risposte che hanno una valenza di residenzialità. Tra l'altro, il futuro del manicomio, se non provvederemo in questo senso, sarà il carcere, come già lo è, per esempio, negli Stati Uniti e in tanti altri paesi.
Ci sembrano, poi, interessanti i tentativi di integrazione vera, reale tra le università ed il territorio - anche a tale riguardo osservo che si tratta di entità il cui rapporto si è spesso posto in termini conflittuali se non, addirittura, di reciproca indifferenza - nonché l'attenzione per l'integrazione pubblico-privato. Non vi è dubbio alcuno che, come già avviene in alcune regioni italiane, il privato accreditato possa fronteggiare le situazioni addirittura in modo migliore rispetto ad un pubblico elefantiaco e burocratizzato.

MARIO SELLINI, Segretario generale dell'AUPI. Desidero, anzitutto, ringraziare la presidenza della Commissione ed i suoi componenti per avere deciso di audire le associazioni e quanti sono in prima persona direttamente coinvolti in tale settore.
Secondo dati del ministero della salute, la nostra associazione rappresenta circa duemila psicologi che lavorano nel settore pubblico e un migliaio di psicologi che lavorano nelle strutture private accreditate. Ebbene, complessivamente, nella sostanza, condividiamo l'idea di una rivisitazione del modello assistenziale per la salute mentale; al riguardo, la nostra convinzione è maturata sulla base di una serie di elementi: il punto di partenza, ovviamente, è stato la legge n. 180 del 1978 la cui importanza, quale irrinunciabile fattore di civiltà, è stata unanimemente riconosciuta. Essa, infatti, nel superare il modello dell'ospedale psichiatrico, ha individuato e proposto un nuovo modello assistenziale per quanto riguarda la salute mentale. Però, dal 1978 in poi, il modello proposto dalla riforma n. 180 - quindi, la territorializzazione dell'assistenza alla salute mentale - ha, per così dire, camminato grazie alle risorse umane, culturali ed anche economiche che discendevano dalla vecchia struttura ospedaliera. Ciò ha creato una frattura tra quanto ci si proponeva e quello che poi concretamente si è realizzato; ovviamente, avendo a disposizione risorse umane, materiali, culturali e professionali limitate, ci si è scontrati con una realtà nella quale il concetto di sanità e di salute evolvevano, tant'è che il ministero della sanità recentemente ha cambiato - a nostro avviso, molto opportunamente - la sua denominazione in ministero della salute. Quindi, tale passaggio, che è importante, dobbiamo, in qualche modo, recepirlo e realizzarlo anche nel nuovo modello di assistenza alla salute mentale che vogliamo definire.
Se il concetto di sanità e di salute cambia, infatti, è perché vi sono nuovi bisogni emergenti nella popolazione: come è stato riferito prima, esistono nuove patologie e nuovi disagi che investono fasce della popolazione più ampie, a partire dall'adolescenza e dall'infanzia per finire alla tarda età. Quindi, il concetto di salute va in qualche modo allargato e ciò serve anche per fare prevenzione, perché se i nuovi disagi e le nuove patologie investono una sensibile fetta della popolazione dobbiamo anche predisporre gli strumenti per farvi fronte.
In che modo possiamo affrontare questi nuovi bisogni? È possibile farlo ipotizzando e costituendo un diverso modello organizzativo ed un nuovo modello di assistenza. Quello recentemente proposto è il modello dipartimentale, anche se in realtà era già esistente, ma viene rinforzato anche dal dibattito in corso; tale modello presuppone una complessità di soggetti che intervengono per fronteggiare le patologie collegate alla salute mentale. Infatti, ciò è insito nell'idea stessa di dipartimento, altrimenti ci troveremmo di fronte ad una moltiplicazione di modelli organizzativi che non sono poi in grado di fornire risposte adeguate.
Al riguardo, vorrei segnalare come oggi nell'ambito della salute mentale intervengano più discipline regolamentate dal ministero della salute; le discipline sostanzialmente presenti oggi sono tre: la psichiatria, la psicoterapia e la psicologia. Crediamo che anche altre discipline possano trovare spazio non per un problema di collocazione disciplinare, non sapendo dove posizionarle, ma perché esse sono il modo con cui i professionisti e gli operatori riescono a fornire risposte scientificamente corrette e validate alle patologie vecchie e nuove. Quindi, crediamo che il modello dipartimentale debba tener conto non solo delle discipline esistenti, ma anche di tutto il resto.
Inoltre, come associazione intendiamo sottolineare il mancato rispetto degli impegni finanziari assunti dalla conferenza Stato-regioni, anche se è stato già detto; al riguardo, intendiamo ribadire la necessità di rispettare il 5 per cento del budget regionale, anche se si tratta di una quota probabilmente non adeguata.
Concludo il mio intervento tornando ad affrontare la questione del modello dipartimentale: al riguardo, vorrei dire che se non si riesce a mettere in piedi una struttura ricca di capacità e di risposte, tanto vale - anche se può sembrare paradossale - riaprire le vecchie strutture manicomiali, perché se la risposta deve essere di tipo monodisciplinare, probabilmente funzionavano meglio i vecchi ospedali psichiatrici. Sicuramente, non può essere questa risposta: si tratta, in qualche modo, di una provocazione, ed allora, riempiamo di contenuti questo modello organizzativo proposto. Infine, ci riserviamo di far pervenire alla Commissione un documento più articolato.

PRESIDENTE. Vi ringraziamo per la documentazione che metterete a nostra disposizione, perché sarà senz'altro utile ai fini dei lavori della relazione conclusiva.

RENATO PICCIONE, Presidente della Pre-Sam. Il mio brevissimo intervento si articolerà in tre parti; la prima è una premessa, la seconda un tentativo di individuare il problema e le criticità che definiscono e la terza parte, infine, riguarderà «che cosa fare?».
Per quanto attiene alla premessa, mi sembra che siano preliminarmente necessarie due osservazioni. In primo luogo, infatti, vorrei evidenziare come la storia della psichiatria italiana dal 1978 ad oggi si divide sostanzialmente in due periodi dal 1978 al 1993 e dal 1994 ad oggi. Nel primo periodo abbiamo trascorso 15 anni discutendo della legge n. 180 del 1978, costruendo una situazione di abbandono per i pazienti e dimenticando di realizzare i servizi. Invece, dal 1994 ad oggi - vale a dire dal momento in cui è stato approvato il primo progetto obiettivo nazionale - si è abbandonata la discussione sulla legge n. 180 del 1978, sono stati costruiti i servizi e attualmente non esiste più una situazione di emergenza, anche se continuano a sussistere criticità sulle quali mi soffermerò successivamente.
La seconda osservazione di carattere generale è che quando ci si accinge ad affrontare il problema dell'assistenza psichiatrica e della tutela della salute mentale di cittadini italiani, bisogna sempre tenere conto del fatto che difficilmente, o forse mai, si giungerà ad una soluzione radicale e definitiva per due motivi molto precisi. Il primo è che gli interessi ed i bisogni di soggetti coinvolti nel problema sono spesso divergenti: non è per nulla vero, infatti, che gli interessi di pazienti, di loro familiari, di operatori e di amministratori (tralasciando gli altri sette o otto soggetti normalmente coinvolti) possano coincidere. Quindi, occorre un grande sforzo di equilibrio dove non sempre esigenze diverse vengono rispettate. Il secondo motivo è che ci muoviamo in un campo in cui ormai la comunità scientifica è certa che soltanto il 15 per cento delle forme di assistenza che produciamo sono basate su reali evidenze scientifiche; l'altro 85 per cento è, di fatto, un problema di opinioni, di etica, di economia e quindi anche, ad esempio, di interessi.
Fatta questa brevissima premessa, qual è problema? A me piace definirlo in questo modo: oggi il problema è quello di migliorare l'assistenza psichiatrica italiana e, più in generale, quello di promuovere e mantenere la salute mentale degli italiani in un paese considerato dall'Organizzazione mondiale della sanità un punto di riferimento che molti altri paesi cercano di imitare. Quindi, si tratta di un problema complessissimo e molto articolato. Normalmente, tutti i problemi si affrontano individuando i punti di forza del sistema e le criticità per cercare di aumentare i primi e diminuire le seconde. Al riguardo, non intendo soffermarmi sui punti di forza ma intendo concentrarmi su quelle che, schematicamente, ritengo essere le otto criticità fondamentali.
La prima di queste è molto semplice ed ovvia: non è stato applicato, se non parzialmente, l'ultimo progetto obiettivo nazionale; mancano di fatto circa cinquemila operatori ed un certo numero di strutture residenziali e di servizi psichiatrici di diagnosi e cura soprattutto nel centro sud e ancor più in particolare nelle grandi città. Si tratta di un problema che dipende fondamentalmente dall'operato delle regioni e delle ASL.
La seconda criticità fondamentale potrà sembrare un paradosso, ma di fatto non si conoscono i costi di quella parte della sanità, peraltro la più regolata e discussa, relativa all'assistenza psichiatrica, né sul piano nazionale, né su quello regionale e talvolta addirittura a livello di singolo dipartimento di salute mentale. Non conoscere i costi dell'assistenza psichiatrica significa non poter valutare l'efficienza e l'efficacia di un servizio e non poter effettuare un paragone tra un servizio e l'altro e quindi confrontare modelli diversi.
La terza criticità è costituita sicuramente dal fatto che alcune strutture residenziali si stanno trasformando in luoghi manicomiali di abbandono; di fatto, esistono in Italia cittadini che da più di dieci anni vivono in una struttura residenziale, curati come avveniva tanti anni fa, quando si veniva internati in un ospedale psichiatrico.
La quarta criticità risiede nel trattamento inefficace degli utenti nelle situazioni di non collaborazione da parte di operatori - purtroppo, sono ancora molti - che risolvono la loro professionalità, anche per una insoddisfacente preparazione, in quella che viene definita una pratica ambulatoriale di attesa.
Ciò ci introduce immediatamente alla quinta criticità fondamentale. Le strutture psichiatriche universitarie italiane, nella maggior parte dei casi, tranne qualche lodevole eccezione, sono rimaste fuori dal grande processo di trasformazione. Nonostante, l'ultimo progetto obiettivo nazionale prevedesse per legge la realizzazione del modello dipartimentale, le strutture psichiatriche universitarie dipartimentalizzate si contano, credo, sulle dita di una sola mano. Ciò significa che, a livello universitario, non esiste né una cultura della prevenzione né una cultura di come fare fronte ai soggetti che non accettano il trattamento; ricordo che si tratta dei due problemi cardine di ogni sistema di assistenza psichiatrica. È facile immaginare quali siano le ricadute sia sul piano sia della formazione, sia della ricerca.
La sesta criticità concerne i servizi per la salute mentale dell'età evolutiva che, in Italia, contrariamente ai servizi per gli adulti, sono debolissimi; tutto ciò è molto grave per i bambini e gli adolescenti, ma è, altresì, molto grave dal punto di vista della prevenzione.
Vorrei sottolineare la settima criticità ovvero il problema del rapporto fra pubblico e privato; ancora, di fatto, non si è raggiunta quell'integrazione che sarebbe necessaria. Vorrei fare, a questo proposito, un esempio particolarmente significativo ed utile; negli ultimi anni, tutti i 75 ospedali psichiatrici pubblici italiani sono stati chiusi sicchè essi non ospitano più alcun paziente. Gli ospedali psichiatrici privati erano 12; attualmente, ne sono ancora aperti nove, che ospitano circa duemila pazienti. Un altro esempio che illustra tale aspetto è il seguente: vi sono, in Italia, 65 case di cura neuropsichiatriche, con circa settemila posti letto; tali strutture non sono previste in nessun modello dipartimentale, non si sono trasformate e continuano a svolgere un'attività simile a quella che, circa venti o trent'anni fa, veniva svolta negli ospedali psichiatrici o in strutture analoghe.
L'ultima criticità, dal punto di vista normativo, è fondamentale e inerisce alla confluenza tra problemi di salute mentale ed area della giustizia; tengo a precisare e a premettere che il problema del trattamento sanitario obbligatorio è soltanto una parte di tale aspetto accanto al quale ve ne sono moltissimi altri che riguardano l'imputabilità, l'ospedale psichiatrico giudiziario, la tanto attesa legge sull'amministratore di sostegno - figura prevista nella maggior parte degli altri paesi europei che, peraltro, ormai, dovrebbe essere sul punto di essere introdotta nel nostro ordinamento in base alla legge di cui è imminente l'approvazione -, la necessità di istituire servizi psichiatrici alternativi agli ospedali psichiatrici giudiziari.
Enucleate tali otto criticità, non posso, ovviamente, entrando nel merito, rappresentare, in questa sede, le 73 raccomandazioni che l'associazione di cui sono presidente ha elaborato e che sono contenute nel documento piuttosto corposo, di una ventina di pagine che lascerò agli atti. Tengo a sottolineare soltanto un aspetto: le raccomandazioni sono divise in due grandi parti: nella prima, molto più diffusa - costituita da 58 raccomandazioni - si illustra, sostanzialmente, tutto quanto si potrebbe operare adottando un nuovo progetto obiettivo nazionale; la seconda ed ultima parte - contenente un minore ma non meno significativo numero di raccomandazioni inerenti il campo della salute mentale e della giustizia prevede, di fatto, la necessità di approvare una nuova legge. Dico con molta chiarezza che approvare una nuova legge in un tale ambito significa interessarsi non soltanto del trattamento sanitario obbligatorio, ma anche di una complessa serie di problemi che ineriscono a tutti gli aspetti da me citati precedentemente.
Detto ciò, devo ricordare, con molta umiltà, ma anche con molta fermezza, un aspetto. L'anno scorso, l'Organizzazione mondiale della sanità ha dedicato la sua attività al problema della salute mentale: non solo vi è stata una giornata dedicata a tale patologia ma, nel mese di settembre, si è svolta una riunione dei ministri della sanità di tutti gli Stati che fanno parte dell'OMS: di fatto, quindi, di tutti i paesi del mondo, salvo qualche rarissima eccezione. In tale incontro, è stato presentato il The world health report 2001, una pubblicazione che esprime il punto di vista dell'Organizzazione mondiale della sanità. Si tratta, praticamente, di un libricino di 150 pagine che tra qualche settimana sarà tradotto in italiano e che, attualmente, è scaricabile dal sito web dell'OMS. Chiunque, in questo momento, voglia interessarsi dei problemi riguardanti la salute mentale non credo possa prescindere da obiettive e prestigiose raccomandazioni che il più importante organismo internazionale indica in tema di salute mentale. Per concludere, credo che, di fatto, vi siano due alternative, una di breve periodo ed una più lunga.
L'alternativa più breve consiste nell'elaborare un nuovo progetto obiettivo, prevedendo la vigilanza sulle regioni e sulle aziende e, possibilmente, portando a compimento l'iter del provvedimento riguardante l'amministratore di sostegno. Ciò già sarebbe un grandissimo contributo alla crescita qualitativa del sistema di assistenza psichiatrica italiana.

La seconda possibilità, quella di più lungo periodo - per la cui realizzazione occorrerebbe un anno ed ancor più -, prevede la deliberazione di un'indagine conoscitiva seria ed oggettiva. A tale fine, si potrebbero attivare gli istituti che hanno specifiche funzioni: sul piano pubblico, ad esempio, l'Istituto superiore di sanità ed il Consiglio nazionale delle ricerche; tra gli istituti privati, potrebbero collaborare l'istituto di medicina sociale e l'Istituto Mario Negri, entrambi particolarmente qualificati sull'argomento. Tale seconda via riguarderebbe un progetto più ampio sulla base del quale sarebbe possibile anche prevedere un nuovo provvedimento legislativo che riveda globalmente la materia. Dico con molta chiarezza che un provvedimento legislativo che riguardi soltanto il problema del trattamento sanitario obbligatorio e tralasci tutti gli aspetti da me prima citati non risponderebbe ai problemi di salute mentale concernente il sistema psichiatrico italiano di assistenza ed i cittadini stessi.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che desiderano formulare quesiti e richieste di chiarimento.

CARLA CASTELLANI. Desidero anzitutto ringraziare tutte le associazioni oggi presenti ed anche quelle che hanno partecipato nelle scorse settimane perché con le loro relazioni ci stanno aiutando moltissimo ad inquadrare, nella maniera adeguata, un problema che interessa l'intera collettività. Il campo è ampio e credo che lo stesso dibattito all'interno di questa Commissione sarà altrettanto ampio affinché tale problema venga affrontato nella maniera più organica e risolutiva possibile.
Dal momento che ritengo che anche in questo settore della salute la prevenzione sia uno strumento di grande importanza, considerando come la nostra società stia attraversando momenti certamente non facili, voglio chiedere alla dottoressa Pizzigoni, che aveva parlato dI prevenzione in merito alla depressione e all'ansia, notizie più ufficiali riguardo a come la regione Lombardia abbia affrontato tale problematica; infatti vorrei ricordare, sempre in termini di prevenzione, che nei giovani cominciano ad essere sempre più diffusi (forse più tra le ragazze che non tra i ragazzi) i problemi della bulimia e dell'anoressia, che costituiscono altre manifestazioni di disagio. Senza dare meno importanza a tutti gli altri aspetti di tale problematica, credo che quello della prevenzione debba ricevere un'attenzione veramente particolare anche da parte di questa Commissione perché costituisce il primo anello per affrontare tutta la tematica. Chiede dunque alla dottoressa Pizzigoni maggiori chiarimenti in merito.

SIMONA PIZZIGONI, Direttore generale della fondazione IDEA. Ringrazio l'onorevole Castellani per la sua domanda. Occorre tener conto che i temi della prevenzione e dell'informazione costituiscono per noi un aspetto fondamentale: infatti, da anni lo affrontiamo nelle scuole della Lombardia, e al riguardo c'è un dato sorprendente. Infatti, tre anni fa abbiamo iniziato a tenere conferenze di informazione e di divulgazione agli studenti e agli insegnanti ed abbiamo incontrato una certa difficoltà, perché parlare due o tre anni fa di temi quali la depressione, l'ansia oppure di disturbi della condotta alimentare veniva accettato solo fino ad un certo punto. Ebbene, a soli due anni di distanza le richieste delle scuole sono talmente elevate che facciamo fatica a soddisfarle: considerate che in alcune città della Lombardia tutte le scuole hanno aderito al progetto di informazione. Quindi, si tratta di un'esigenza oggi molto avvertita, in primis dalle famiglie, ma anche dagli insegnanti.

È chiaro, tuttavia, che se intendiamo realizzare un'opera di prevenzione e di informazione mirata e capillare non è pensabile limitarsi alle sole conferenze, tant'è che abbiamo presentato al Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca un progetto finalizzato alla prevenzione e all'informazione, corredato di una videocassetta, che coinvolgerebbe tutte le scuole italiane proprio per far veramente conoscere ai ragazzi queste patologie. Teniamo conto che in questo ambito l'informazione è importantissima: non vorrei si dimenticasse che il suicidio è la seconda causa di morte tra gli adolescenti, considerando che la prima è costituita dagli incidenti stradali. So che in Italia se ne parla poco, ma ritengo che questa sia la sede opportuna per segnalare tale problema.
Quindi, non possiamo dimenticare che la prevenzione va fatta e soprattutto iniziata proprio nelle scuole, perché questo costituisce l'unico modo per abbattere i pregiudizi che ancora oggi esistono - è inutile negarlo - intorno a tali malattie. Al riguardo, ho portato l'esempio dell'ambulatorio separato dal reparto di psichiatria ed il dato sorprendente è che in pochi mesi sì è registrata un'affluenza addirittura spaventosa (al punto tale che nel giro di sei mesi hanno dovuto raddoppiare il numero di specialisti previsto al suo interno) non perché improvvisamente le persone hanno scoperto di soffrire di depressione o di ansia, ma proprio perché si è superato quel muro di pregiudizi, di paure o di diffidenze che porta il soggetto a curarsi.
Ebbene, le scuole sono - ripeto - i luoghi deputati per abbattere tali pregiudizi, per fare informazione, per parlare di salute e di patologie mentali quando i ragazzi non hanno ancora muri o pregiudizi troppo radicati. Infatti, è inutile negare che se queste patologie vengono affrontate in tempo, si possono curare. Stiamo andando incontro a cronicizzazioni di malattie che manifestano i primi episodi - purtroppo moltissimi - in età adolescenziale: se prese in tempo vengono curate, altrimenti danno luogo a misfatti.
Ribadisco, dunque, che l'informazione e la prevenzione possono essere fatte a livello nazionale; credetemi, il modo c'è, non è un'utopia: si può fare e si può realizzare! Ciò che chiedo e che ritengo fondamentale è che la campagna mirata venga fatta di concerto con le associazioni perché esposizione di una realtà più vicina al problema. Tuttavia, occorre iniziare subito, perché già oggi non vorrei dire che è troppo tardi.

PRESIDENTE. Ringrazio nuovamente i rappresentanti delle associazioni intervenute per il loro contributo.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13.

Rubrica realizzata in collaborazione con

Associazione Laura Saiani Consolati - BRESCIA
http://www.psichiatriabrescia.it

COLLABORAZIONI

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