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Un bilancio a distanza di vent'anni. Intervista a Nicola Lalli
a cura di Annalina Ferrante


La legge Basaglia e lo stato attuale della psichiatria

D. - Sono trascorsi vent'anni dalla Legge Basaglia. Possiamo fare un bilancio? Che novità ci sono state nel frattempo in campo psichiatrico?

R. - Se durante i 20 anni che ci separano dalla Legge 180 ci sono state delle novità in campo psichiatrico, queste si sono sviluppate non certo grazie ad essa, ma semmai nonostante questa. I limiti della 180 sono evidenti fin dalla sua formulazione, non era necessario attendere la sua completa attuazione per comprenderne il fallimento. Forse il molto tempo trascorso la dice lunga: non è stata questa la causa del fallimento bensì il fallimento iniziale ha richiesto tutto questo tempo per uscire allo scoperto.

Questa legge aveva come obiettivo, certamente valido, quello di "demolire" l'istituzione manicomio. Dopo parecchi anni possiamo dire che lo scopo materiale è stato raggiunto, anche se con fatica e non sempre in modo funzionale, ma oggi appare sempre più evidente che, al di là del problema delle strutture, non sono stati presi in seria considerazione altri fattori, in primo luogo il problema della malattia mentale.

A questo proposito vorrei fare un prima precisazione. Ritengo non corretto parlare di malattia mentale perchè i disturbi gravi che richiedono un intervento di tipo psichiatrico sono, per la gravità, l'urgenza e la cronicizzazione, le schizofrenie, la depressione endogena e la psicosi maniaco-depressiva: questo pool di patologie di tipo psicotico rimangono la nota dolens della psichiatria perchè poco o nulla si è fatto per capirne l'origine.

Non solo le schizofrenie continuano ad esistere (infatti la percentuale epidemiologica rimane costante nonostante le terapie farmacologiche), ma nel frattempo è aumentato il disagio psichico che non si può riferire propriamente alla malattia mentale grave, e del quale la 180 non si è mai occupata.

Inoltre, la chiusura dei manicomi ha creato non solo problemi di natura organizzativa, visto che le strutture sono ancora carenti e il personale è diminuito, ma soprattutto ha creato un problema di natura metodologica. Ad una gran massa di pazienti, anche se notevolmente diminuita rispetto agli anni ‘70, se ne sono in questi anni aggiunti altri e nulla o poco si è fatto per fare una ricerca seria sulle cause di malattia e di conseguenza agire una prassi terapeutica adeguata ad affrontare la psicosi.

D. - Da quello che dice, sembra che la situazione oggi sia peggiorata. Ci può spiegare perché?

R. - Oggi ci ritroviamo con un manicomio metastatizzato sul territorio ovvero tanti piccoli manicomi in cui vengono ricoverati 5 pazienti manicomiali , 5 lungodegenti e 10 pazienti geriatrici. Non si parla di cura, tantomeno di prevenzione. Semmai prevale un concetto diffuso di assistenza.

Cosa è cambiato rispetto al vecchio manicomio? In psichiatria, prevale ormai da tempo una tendenza a negare la terapia e questa è , a mio avviso, una diretta conseguenza della 180 che ha stabilito per legge la non esistenza della malattia mentale: se non esiste è un problema sociale e il malato mentale viene così assimiliato all'emarginato, all'handicappato o all'anziano non autosufficiente.
Ma queste categorie presentano problemi che vanno ovviamente affrontati con strumenti diversi rispetto alla malattia mentale. Riguardano una politica sociale e assistenziale che non ha niente a che vedere con la psichiatria.

Negare la malattia mentale significa eliminare il concetto di malato mentale e rirpoporre una situazione che ci riporta indietro di 200 anni, in epoca pre-Pinel. In questa situazione il ruolo dello psichiatra rischia di estinguersi. Se il malato mentale è un disabile o un emarginato, basta un buon assistente sociale e qualche casa-famiglia.

Del resto questa tendenza mi sembra confermata dal Decreto n.57 del 17 gennaio 1997 firmato dal Ministro della Sanità On. Rosy Bindi in cui si individua una nuova figura di “tecnico dell'educazione e della riabilitazione psichiatrica e psicosociale” a cui verrebbero riconosciuti compiti e mansioni simili a quelli di uno psichiatra-psicoterapeuta. Il risultato che mi sembra evidente è un appiattimento e una tendenza a far scomparire l'identità dello psichiatra che ho già ampiamente commentato nel primo numero di quest'anno della rivista “Il Sogno della Farfalla”.

D. - Da che cosa dipende, questo appiattimento che lei denuncia?

R. - Io penso che dipenda dal fatto che manca nella cultura psichiatrica attuale una seria ricerca sulla malattia mentale e la sua origine. E' più comodo e semplice fare assistenza o curare con i farmaci, che tra l'altro, si sa, non sono una cura.

I farmaci affrontano i sintomi, è stato detto e ridetto e trovo anche noioso ripeterlo. Sono dei palliativi perchè non intervengono sulle cause della malattia che non solo rimane inalterata, ma rischia di cronicizzare se non diagnosticata in tempo nelle sue forme più gravi.
Permane di fatto un concetto di incurabilità aiutato anche da una politica regionale e nazionale che va in questo senso per cui è molto più agevole e direi demagogico fare assistenza.

Diamo, per esempio, uno sguardo ai reparti di diagnosi e cura. Sono luoghi deputati ad affrontare le patologie mentali. I pazienti vengono presi, sottoposti a terapie massicce di farmaci tanto da renderli accettabili socialmente e poi dimessi, per essere riammessi qualche settimana o mese dopo. Questo atteggiamento, oltre ad essere antiterapeutico perchè non è propedeutico ad una cura è anche pericoloso. I neurolettici sono sempre più potenti e con effetti collaterali tali che non solo sono in aumento i disturbi derivati dall'assunzione di questi farmaci ma sono aumentate anche le cronicizzazioni dovute ad essi.


Psichiatria, psicoterapia e formazione dello psichiatra

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