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La malattia mentale tra scienza e politica.
Intervista a Giovanni Berlinguer.
a cura di Albertina Seta.

  • INTRODUZIONE
  • La 180 , il '68 e il Pci
  • Iter istituzionale e principii della legge. Il referendum radicale, la legge Mariotti
  • La discussione sulla malattia mentale tra compromessi e occasioni mancate
  • La 180 e l'attività dei partiti di sinistra e del sindacato
  • Problemi vecchi e nuovi nell'applicazione della legge

  • Iter istituzionale e principii della legge. Il referendum radicale, la legge Mariotti

    D: Può raccontarci come si arrivò alla proposta della legge 180 e quale fu il suo iter di discussione politica fino all'approvazione? ci fu una dialettica? quali erano le parti in gioco? Più precisamente, la proposta di legge ebbe come primo firmatario Orsini, psichiatra democristiano: può spiegarci come mai, nonostante che l'esigenza di abolire l'istituzione manicomiale fosse stata originariamente avanzata, e successivamente sostenuta, soprattutto da ambienti di sinistra?
    R: La spiegazione sta in due fattori. Uno riguarda il clima politico generale, l'altro la proposta dei referendum, avanzata dal Partito radicale. Quest'ultima fu decisiva. Perché mentre si discuteva in molti ambienti su come modificare la legge, intervenne la richiesta di un referendum per abrogare la legge del 1904, che passò al vaglio della Corte costituzionale, per cui il referendum fu indetto e l'unico modo per evitare che ci fosse un voto di pura e semplice abrogazione - che avrebbe creato un vuoto operativo, oltre che legislativo - fu quello di presentare, con carattere d'urgenza e con il consenso di tutti i partiti, una proposta che avesse un iter rapido. Questo fu il motivo procedurale, per cui tutti i partiti che desideravano cambiare la situazione dei manicomi, pur avendo tra loro divergenze, nella sostanza concordarono di presentare una proposta comune. Il motivo per cui fu Orsini a presentarla è dovuto a un accordo preciso: fu giudicato più opportuno che il primo firmatario fosse appartenente al partito di maggioranza relativa. Nei documenti ufficiali risultano comunque anche altre firme, e dunque la proposta della180 è da considerare pluripartitica.
    D: Quando si parla di 180, spesso ci si appella alla giustezza dei suoi principi animatori. C'era stato però un precedente, al quale raramente si fa riferimento, ovvero la legge Mariotti, nell'ambito della quale si era stabilito che il ricovero psichiatrico non venisse più registrato sulla fedina penale così come avveniva in passato. In questo provvedimento è sicuramente rintracciabile un principio, diciamo così, laico importante, che tende a distinguere il malato da altre forme di devianza, restituendogli un'identità precisa. Più confusi appaiono invece i principii della180, che sono risultati a volte perfino in contrasto con la distinzione accennata. Lei trova che la 180 rappresenti un elemento di continuità, o di contraddizione, rispetto alla Mariotti?
    R: Già negli anni precedenti alla legge Mariotti c'erano state varie tendenze a trasformare le strutture psichiatriche e i servizi partendo da esperienze di diversi Paesi, cito solo l'esempio francese della psichiatria di settore. Ci furono dei convegni, organizzati dalla regione Emilia-Romagna, per tentare di tradurre in italiano quest'esperienza; e ci furono processi di umanizzazione degli ospedali psichiatrici, denunce pubbliche. La presenza di psichiatri democratici in molti servizi, infine, provocò in alcune sedi il miglioramento delle condizioni di esistenza. Però l'innovazione rispetto alla legge Mariotti, che aveva semplicemente riconosciuto che la malattia mentale era malattia mentale e non altro - e qui concordo che si tratta di un principio laico importantissimo, assolutamente fondamentale -, fu quella di aggiungere a questo principio una constatazione di fatto, cioè che i manicomi, istituzionalmente e per come si erano strutturati in Italia, non permettevano di affrontare la malattia mentale. Questa era una constatazione sviluppata sul piano teorico, contestando in genere l'istituzione manicomiale, e sul piano operativo, documentando in modo specifico la condizione particolarmente aspra e irriformabile dei manicomi italiani .
    Su questo si innestò la discussione sull'esistenza o meno della malattia mentale. Una parte di Psichiatria democratica - non prevalente ma combattiva, che fu quella le cui tesi furono utilizzate più ampiamente dall'opposizione - sosteneva che la malattia mentale non esiste. Ma la tesi di Basaglia era un'altra: l'istituto manicomiale nasconde, impedisce di vedere la malattia mentale e, quindi, senza sopprimerlo non ci si può rendere conto di cosa essa è, poiché è totalmente deformata e trasformata dall'istituzione. Per affrontare la malattia mentale bisogna uscire dall'istituzione, cioè bisogna creare relazioni extraistituzionali, extramanicomiali. Questi furono i due poli della discussione interna. Naturalmente la destra, gli oppositori, si aggrapparono molto all'idea che la malattia mentale non esiste. Io stesso scrissi più volte che mi sembrava una tesi spiritualista, perché se qualunque organo può ammalarsi e la mente no, questo può avere l'unica spiegazione che la mente è puro spirito. Cioè, una negazione della materialità. Ci furono discussioni teoriche su questo punto, però la soluzione che prevalse fu quella di considerare il fatto che i manicomi andavano soppressi e che il ricovero, anche coatto, in certi casi poteva essere realizzato evitando però che fosse senza termine e deciso solo dai medici. Io ritengo che questa sia una posizione altrettanto laica, anche se impregnata di ideologia. Mi sembra che abbia funzionato, poiché anche in altri Paesi oggi si tende a realizzare un'assistenza psichiatrica al di fuori dei manicomi. Ritengo, quindi, che sia una tesi fondamentalmente giusta, anche se nell'applicazione della legge l'estremizzazione di questa tesi ha creato una situazione di sconcerto e di difficoltà.


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