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La malattia mentale tra scienza e politica.
Intervista a Giovanni Berlinguer.
a cura di Albertina Seta.

  • INTRODUZIONE
  • La 180 , il '68 e il Pci
  • Iter istituzionale e principii della legge. Il referendum radicale, la legge Mariotti .
  • La discussione sulla malattia mentale tra compromessi e occasioni mancate
  • La 180 e l'attività dei partiti di sinistra e del sindacato
  • Problemi vecchi e nuovi nell'applicazione della legge

  • La 180 , il '68 e il Pci

    D: Gli anni che precedettero l'approvazione della legge 180 videro un'intensa attività pubblicistica (cfr. Le riviste dell'epoca, come Sapere, Inchiesta, Fogli di informazione e l'opera di L. Maccacaro) da parte di medici e psichiatri della sinistra italiana, tra i quali lei. Vuole indicarci i termini di quel dibattito intellettuale?
    R: Questo dibattito aveva una specificità, la psichiatria e i manicomi, ma era collegato a un periodo di intenso e tumultuoso rinnovamento culturale che viene solitamente definito con una data, il '68. Esso però, a ben guardare, precede e segue questa data, soprattutto in Italia, dove l'esplosione del movimento aveva avuto prodromi lunghi e multilaterali. C'era stata una rielaborazione dei temi della condizione operaia e una rivalutazione della soggettività dell'operaio - quindi indirettamente dell'elemento psicologico - nella definizione e nella validazione delle condizioni di lavoro, il che aveva aperto la strada al controllo della salute nelle fabbriche e a progressi sensibilissimi raggiunti negli anni successivi. C'era stato il movimento femminista, che si era presentato con molto vigore e varie differenziazioni. C'erano state le anticipazioni della stagione dei diritti civili, che culminò nella rielaborazione del diritto di famiglia, poi nella battaglia per il divorzio, poi ancora in quella per l'aborto. C'erano stati, infine, movimenti per la riforma dei servizi sanitari - con la presentazione delle prime proposte di legge -, con la partecipazione di forze interne ed esterne alla medicina, come le amministrazioni locali: molti Comuni si mossero, in base a un'antica tradizione di impegno dei comuni italiani risalente per lo meno al Rinascimento. In questo ambito, anche i sindacati si dettero da fare: tra l'altro, la prima proposta di riforma sanitaria fu presentata dai parlamentari della Cgil.
    D:Vuole sintetizzarci i termini della discussione nello specifico ambito della psichiatria?
    R:E' in questo quadro che si comincia a discutere la condizione manicomiale, appaiono inchieste e denunce, queste raggiungono tutti i mezzi di comunicazione, creano una sensibilità. Si realizzano contemporaneamente le prime esperienze negli OOPP, nelle quali c'è ancora l'eco del rinnovamento psichiatrico inglese. Man mano, però, si delinea una specificità italiana, con le esperienze di Parma e Gorizia. Quello che è interessante, e che si manifesterà fin da allora, è il silenzio degli antagonisti: non c'è da parte della psichiatria ufficiale una risposta, un'affermazione delle proprie posizioni, si tende a sfuggire al dibattito. Comincia così a maturare quello che verrà giustamente unificato sotto il nome di "esperienza basagliana", anche se si tratta di un'esperienza composita, con molte sfumature, e non solo, con vere e proprie differenziazioni secondo le sedi e i personaggi. Questo è un po' il clima, che ha un punto di partenza nel '68, anno in cui si determinano in Italia - e questa è una specificità tutta italiana - movimenti concomitanti, e convergenti sotto molti aspetti, di lavoratori e di studenti.
    D:Può dirci come allora s'intendeva il rapporto tra politica e scienza?
    R:Il rapporto tra politica e scienza fu uno dei temi più controversi. La tesi che ebbe maggiore espansione in quel periodo fu formulata come: "La scienza non è neutrale". La non neutralità della scienza comprendeva una critica sostanziale soprattutto alle sue applicazioni, per esempio nell'ambito manicomiale - dove l'istituzione si giustificava con l'esistenza di una malattia organica, incurabile, pericolosa -, ma anche in altri settori. Nel campo generale della medicina, nell'uso della scienza per la costruzione di armi distruttive, nelle tendenze selvagge della sperimentazione umana e anche di quella sugli animali. Nell'uso di quella, che all'epoca del terrorismo, venne chiamata "organizzazione scientifica del lavoro", e che in sostanza era una forma di sfruttamento perfezionato. Da questo, fu fatta derivare la tesi che coinvolse anche una visione epistemologica, cioè la "teoria della scienza", che anch'essa non è neutrale.
    D: Questa critica alla scienza si prestava a suo avviso, a estremizzazioni di tipo ideologico?
    R: In un certo senso si, tanto che si arrivò perfino a una identificazione della scienza con gli interessi delle classi dominanti e con una funzione oppressiva sugli uomini. In sostanza, in queste formulazioni c'era un fondo di verità, ma non si faceva distinzione tra la conoscenza e le sue applicazioni, tra il valore intrinseco che ha la conoscenza e gli interessi che si manifestano, al momento delle scelte, nell'uso di queste conoscenze. Tutto sommato, ciò finì con l'avere una funzione poco incoraggiante nei confronti della diffusione della cultura scientifca, che in Italia non era e non è tuttora al suo apice in relazione ad altri Paesi. Se prendiamo a esempio il caso Di Bella, appare evidente che in Italia esistono conoscenze scientifiche anche diffuse; ma cos'è la scienza, quale sia il suo metodo, come la si valuta, questo è abbastanza estraneo alla mentalità comune. Bisogna dire che nel campo della salute mentale l'estremizzazione di questa tesi portò in alcuni casi - non nell'insieme del movimento rinnovatore - alla negazione dell'esistenza della malattia mentale.
    D:Accanto a questo movimento di idee, nelle sedi dei partiti si svolgeva un'attività prettamente politica, alla quale lei partecipava, investito di responsabilità come dirigente dell'allora Pci. Può ricordarci quale fu il suo ruolo? può delinearci il panorama visto, per così dire, da quest'altro versante?
    Io sono stato dal '63 al '68 nella Direzione del Pci ed ero responsabile del settore della Sicurezza sociale, che comprendeva previdenza, assistenza e sanità. Poi, nel '68, passai a far parte del gruppo dirigente della sezione culturale, in cui mi occupavo particolarmente della politica scientifica. Mi trovai dunque a operare in due campi, scienza e sanità, che erano maggiormente coinvolti in questa riforma. Di conseguenza, fui molto addentro a tutte le discussioni. Nei partiti, allora, c'era una permeabilità al dibattito in campo culturale. A volte quegli anni vengono dipinti come un periodo in cui i partiti, in particolare il Pci, tentarono di stabilire una egemonia, di fare prevalere le proprie idee o i propri interessi. Questo può essere in parte vero, ma la base del lavoro culturale consisteva nel percepire quali erano gli orientamenti, i movimenti presenti nella società, e cercare d'inquadrarli, per quanto era compatibile, con le esigenze del partito. Questo venne fatto con grandi discussioni, fondamentalmente pubbliche.
    Nel campo della psichiatria e della salute mentale, il punto di maggiore impegno fu il convegno promosso dall'Istituto Gramsci, nel '69, su psichiatria e potere (cfr....), che fu concordato con Psichiatria democratica, attraverso confronti e perfino trattative. Ricordo che insieme a Franco Ferri, storico e a quel tempo direttore dell'Istituto Gramsci, andammo a Gorizia per conoscere l'esperienza basagliana, e per discutere con Basaglia e con gli altri le condizioni di questo importante convegno, che fu aperto da una mia relazione e poi da quelle di coloro che avevano partecipato al movimento. In sostanza, era l'apertura di un colloquio, ma anche di un confronto tra due potenze: una aveva le sue radici nella forza politica, l'altra nello spirito innovatore e nelle tesi che portava avanti con impegno e successo pratico, e con seguito di opinione tra i giovani e tra gli psichiatri più aperti. Questo convegno segnò una convergenza di posizioni. Ho parlato di questa discussione, che si svolse anche all'interno del Pci, perché lo scopo del nostro lavoro, una volta compreso che gli orientamenti basagliani erano giusti e che era giusto sostenerli, fu quello di far maturare l'insieme del partito intorno a queste posizioni. Come sul divorzio e successivamente sull'aborto, l'esigenza che la forza del Pci si esprimesse pienamente in sostegno di queste tesi comportava una discussione preliminare faticosa, altrimenti ci sarebbero state troppe divergenze. Il consenso, quindi, non fu il risultato di una disciplina di partito, ma della maturazione di una discussione.


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