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AA.VV.  
Che cos'è la psichiatria, a cura di Franco Basaglia, (1967); nuova edizione con prefazione di Franca Ongaro Basaglia, Milano, Baldini & Castoldi, 1997, pp.300, £ 14.000  
 
 

Come ricorda Franca Ongaro Basaglia nell'introduzione a questa nuova edizione, sono passati ormai trent'anni dalla prima pubblicazione di questo testo dedicato all'attività di Franco Basaglia e del suo gruppo. Ripercorrere il testo a distanza di tanti anni ci fa capire le difficoltà che allora affrontò il primo gruppo di pionieri della de-istuzionalizzazione della psichiatria italiana, e fornisce spunti anche sui loro riferimenti culturali e sugli ambiziosi obiettivi che perseguivano con tenacia e dedizione.  
È il primo dei volumi che viene riproposto e fa riferimento alle vicende legate al manicomio di Gorizia: le porte allora si aprivano certamente su di un mondo di emarginati, dominato da miseria, violenza e soprusi. Può essere utile la rilettura di queste pagine oggi che viene finalmente decretato il superamento dei manicomi: la riflessione sull'istituzione totale del manicomio, come luogo di emarginazione e non di cura, sarà il tema centrale dell'altra opera di Basaglia L'istituzione negata, pubblicata nel 1968,  incentrata sulla necessità di ridare dignità al malato in quanto persona, fuoriuscendo dall'etichettamento della malattia. In questo volume i due saggi di Basaglia Che cos'è la psichiatria e La libertà comunitaria come altenativa alla regressione isituzionale  rappresentano una sorta di 'manifesto' del dibattito avvenuto in quegli anni nell'ambito della cosiddetta antipsichiatria. Sono evidenti i riferimenti culturali alla fenomenologia e alla psichiatria antropologica rappresentata da L. Binswanger. 
In alcuni passaggi Basaglia affermava di essere consapevole che nel momento in cui si mette in discussione la psichiatria tradizionale "si corre il rischio di incorrere in un' analoga 'impasse', qualora ci si immerga nella pratica, senza mantenere anche in questo terreno un livello critico. ...Capovolgendo, in un'immagine positiva, il negativo del sistema coercitivo-autoritario del vecchio manicomio, si rischia di saturare il nostro senso di colpa nei confronti del malato in un impulso umanitario". Il 'cattivo malato' del sistema custodialistico rischia di diventare il 'buon malato' che si tenta di reintegrare attraverso nuove strutture terapeutiche, senza che questo intacchi lo stigma della malattia, dal punto di vista sociale. Anche l'approccio psicoterapico - secondo Basaglia - non era uno strumento sufficiente a liberare il malato dalla sue catene: come testimoniato dal suo intervento nel 1965 a Milano al seminario La psicoterapia in Italia. La formazione degli psichiatri,  in cui afferma che "i trattamenti psicoterapeutici individuali restano appannaggio di un élite economica perché è il tipo stesso delle nostre istituzioni a sbarrare il passo al suo ingresso nelle organizzazioni ospedaliere. Nel caso [la psicoterapia] riesca a penetrarvi, essa si trova a doversi trasformare per poter agire sino a dilatarsi e compenetrare ogni atto della vita ospedaliera, il che minerebbe inevitabilmente la struttura autoritaria e gerarchica sui cui poggia l'ospedale chiuso". 

Forse proprio qui sta il limite nell'impostazione basagliana del problema, il negare la sostanza della malattia mentale, considerata frutto di discriminazione sociale, e l'abbandono di qualsiasi tecnica da parte dello psichiatra che possa riabilitare il malato dalla sua condizione di sofferenza.  
Inoltre Basaglia afferma che "per questi motivi la psicoterapia, nella attuale situazione italiana, non può per i principi su cui si fonda, che essere essenzialmente comunitaria, perché solo in questo senso potrà penetrare nelle organizzazioni chiuse e rompere per poter agire in esse. Se invece si limiterà solo alla isolata soluzione individuale, essa continuerà a mantenersi aderente all'attuale realtà sociale e si potrà, in questa sua acquiescenza, intuire il pericolo già visto da E. Fromm, che perda un'altra caratteristica fondamentale dell'insegnamento freudiano: il coraggio di andare contro il senso comune e l'opinione pubblica".  
Nasce quindi un luogo utopico, quello della comunità terapeutica, in cui medici, operatori, infermieri e malati, in una sorta di egualitarismo spontaneistico cercano di surrogare ciò che evidentemente la società dei cosiddetti 'normali' non è in grado di tollerare: l'irriducibile diversità del malato di mente. 
Dice infatti Basaglia: "Solo in questo modo si potrà minare contemporaneamente sia l'ideologia dell'ospedale come macchina che cura, come fantasma terapeutico, come luogo senza contraddizioni; sia l'ideologia di una società che, negando le proprie contraddizioni vuole riconoscersi come una società sana. Secondo questa ottica la psichiatria se rifiuta il compito affidatole di continuare a trattare il malato come un 'escluso' da segregare, da cui la società dei sani e degli integrati cerca di difendersi, riabilita 'di fatto' sul piano umano e sociale il malato conferendogli una nuova dignità".  
La comunità terapeutica - fondata sul principio comunitario - diviene quindi il luogo per eccellenza dove il malato può riconquistare la sua 'libertà' di agire. Le parole di Basaglia sono senz'altro convincenti, almeno in linea di principio. In questo testo tuttavia non ci viene poi spiegato se questo passaggio possa avvenire in modo sempre indolore. È infatti Jervis che ne Il buon rieducatore si interroga su quali fossero i limiti da valicare nel processo di liberalizzazione manicomiale. Nacquero già nel 1968 i primi dissidi nell'èquipe di lavoro a Gorizia; lo stesso Jervis lamenta il fatto che esisteva una discrepanza netta fra le istanze di egualitarismo 'antiautoritario' e 'antiistituzionale' proclamati a parole e la realtà dei rapporti all'interno del gruppo di lavoro. 
In quel periodo poi un tragico incidente capitato ad un paziente, accelerò la crisi già in atto nel gruppo di lavoro. Un anziano ricoverato rientrato a casa litigò violentemente con la moglie e nel corso dell'alterco la uccise: Basaglia fu colto alla sprovvista dal fatto e improvvisamente comunicò ai collaboratori la decisione di chiudere a chiave tutte le porte della struttura: da quel momento egli diventò - secondo quanto riferisce Jervis - più pessimista sulla buona riuscita dell'esperienza goriziana, pensando addirittura di riconsegnare Gorizia agli psichiatri 
Come sappiamo ciò non accadde, soprattutto per opposizione di Pirella. Ma questi dissensi non furono mai resi pubblici, ed è solo grazie a questo resoconto critico di Jervis che in qualche modo possiamo riflettere in modo critico su quell'esperienza.  
 
 


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